"Il vomerese" viene presentato nelle note di copertina e nell'introduzione di Luca Crovi come il primo romanzo italiano sul terrorismo. Ma non è certo questo il punto di maggiore interesse dell'opera di Veraldi. Quanto le potenzialità anticipatorie e la capacità di saper descrivere minuziosamente, non solo un ambiente, ma relazioni e interessi particolari che al terrorismo erano legati. Se si aggiunge poi il fatto che tutto questo viene messo su carta in un'opera di fiction appena nel 1980, lo stupore aumenta.
Il 1980 è un anno particolare per la storia italiana, il terrorismo ha ormai da tempo fatto il suo "salto di qualità", che aveva subito un'accelerazione con il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. Di lì a poco ci saranno il sequestro Cirillo e quello Dozier. Due avvenimenti decisivi per comprendere lo stesso romanzo, con il particolare però che dovranno ancora accadere. Veraldi infatti, come dicevo, con sorprendente anticipazione, ambienta il romanzo nella sua Napoli e fa girare tutta la vicenda attorno all'organizzazione del rapimento di un generale NATO.
Ma non finiscono certo qui i meriti del
capolavoro dello scrittore napoletano. Perché, è bene sottolinearlo, di capolavoro si tratta. La storia mantiene alta in tutte le sue pagine la tensione e la suspense, nel modo degno del migliore romanzo giallo. Veraldi, però, non è solo uno dei padri del giallo italiano (l'altro è Scerbanenco), è un grande scrittore. Uno scrittore che colpisce nel segno, creando una storia complessa, ma nello stesso tempo scarna e semplice. Complessa perché stracolma di simbologie e di rimandi a tratti anche mitologici.
Disegna un quadro del terrorismo italiano ed internazionale a dir poco perfetto, sottolineando la convergenza di interessi, in particolari momenti storici, tra servizi segreti internazionali, terrorismo palestinese, poteri occulti, criminalità organizzata e vertici delle organizzazioni clandestine. Evita demonizzazioni inutili e perviene ad un giudizio morale definitivo, anche se non espresso esplicitamente. Cioè l'inutilità, oltre che la mostruosità di ogni terrorismo, giudizio che val bene non solo qualsiasi latitudine geografica, ma ogni epoca. Inutilità perchè alla fine si trova ad essere uno dei tanti ingranaggi, in cui i complotti e le dinamiche del potere si riproducono, e non il loro antagonista.
Perché la clandestinità, il sospetto e la violenza mortificano la vita privata di donne e uomini, lontani anni luce dalla costruzione di quella società nuova che ognuno di loro auspicava, mediante codici comportamentali che liquidano come romantico qualsiasi vago accenno agli ideali.
Ma l'aspetto più interessante in assoluto è costituito dal punto di vista con cui lo scrittore costruisce l'intera vicenda, punto di vista interno al nucleo terroristico napoletano e proprio di un gruppo di attori, in particolare dei due vomeresi, anziano l'uno ("il babbo"), giovane l'altro. Punto di vista che arriva a giustificare anche una certa tenerezza per questi personaggi, preda di illusioni ideologiche che non li portano a rendersi conto appieno della loro realtà, che li ha ridotti a semplici ombre, spettri, presi solamente dall'attenzione a preservare alcuni meccanismi paranoici di sicurezza, nonchè prigionieri della folle contrapposizione amico - nemico - traditore.
Solo verso la fine il più giovane comprende di aver buttato via una vita e lo comprende anche per il più anziano, la cui storia clandestina è anche più lunga, e più lunga di conseguenza è la presa di coscienza della sconfitta.