giovedì 31 agosto 2023

Joe R. Lansdale, "Freddo a luglio" (1989)

 


Consigli di lettura


Joe R. Lansdale, "Freddo a luglio" (1989)


«Quando uscimmo il cielo era pieno di lampi. Accompagnai Russel al motel Lazy Lodge, in periferia, dove lo registrai per la giornata. È un posto squallido che fa affari con i clandestini di passaggio, diretti verso lavori di merda che gli garantiscano abbastanza soldi per riuscire ad affittare una casa mobile da dodici metri. I pasti erano garantiti da un distributore automatico di bibite e dolciumi nell’atrio scalcagnato. Con un dollaro o giú di lí ti potevi concedere una Coca e un cartoccio di Snicker.»


«Mentre uscivamo dalla città, osservai per bene il Troione Rosso. Era tappezzata di carminio, e sul cruscotto trionfava un «Jim Bob» in caratteri argentei a rilievo. Il volante era ricoperto da una volgarissima falsa pelle di ghepardo, con attaccato un «pomello del suicida» color smeraldo che sembrava il batacchio di una porta. Jim Bob amava guidare con la sinistra sul pomello e la destra sul poggiatesta. Nello specchietto retrovisore gli scorgevo parte del viso. Sembrava su di giri come un ubriaco.»


Joe Lansdale è un texano dal cuore tenero. Nonostante molti suoi scritti siano tutt'altro che rassicuranti, anzi per lo più siano duri e crudeli, l'essenza di questo scrittore è riposta al sicuro nella sua coscienza squisitamente morale. Sa sempre dove voltare lo sguardo e per quali personaggi prendere parte. Dell'insieme di alcune caratteristiche, miscelate magistralmente, è costituita la sua poetica.


Nel caso di Lansdale, insomma, non importa quale sia il genere letterario trattato. Questo ancor più perché lo scrittore texano riesce a spaziare nei generi più disparati: fantascienza, giallo, noir, western, horror, thriller, pulp, mainstream, e lo fa con una naturalezza che ha dell'incredibile, con un'ingenuità disarmante. Infatti si ha costantemente l'impressione di essere a contatto con un eterno fanciullone. Un fanciullone geniale, ma da prendere molto sul serio.


Sono rari gli scrittori della sua levatura e della sua potenza narrativa. Lo sono un po' in tutte le latitudini e conforta ancor più questa mia tesi il fatto che, nonostante Lansdale peschi a piene mani da diverse fonti di ispirazione, alcune anche molto pregiate, il risultato di sintesi finale è assolutamente originale. Lansdale, in parole povere, è unico.


Qualcuno ha voluto vedere in lui solo l'efficace e sanguigno divulgatore di una letteratura popolare, con un pizzico di impegno sociale, ma sempre una sorta di ruspante campagnolo. Niente di più sbagliato, o meglio, sarebbe ora di reclamare nei confronti della letteratura popolare la dignità che le è stata fin qui negata. 


Ma a parte questo concetto, che oramai dovrebbe appartenere all'ovvio, Lansdale è ben altro, è uno scrittore di una profondità e di una concretezza assoluta, uno di quelli che sa plasmare la parola scritta, fino a trasformarla in carne e sangue, commuovendo fino alle lacrime con la capacità di lasciare storditi, mentre innumerevoli idee ed emozioni si affollano nella mente del lettore.


Le sue storie non lasciano mai indifferenti. Sempre, anche a distanza di anni, vi rimarrà precisa l'idea e la sensazione che un suo romanzo o un suo racconto vi ha saputo comunicare. Potete anche odiarlo e provarne fastidio, ma indifferenza mai. Anzi non è escluso che potreste provare nel corso della lettura delle sue opere emozioni e sentimenti contrastanti, ma che alla fine sanno ricondurre ad una strada ben precisa: la ricomposizione narrativa e umana, filtrata attraverso un concetto quasi manicheo del mondo e delle relazioni sociali.


Quindi Lansdale, nonostante le apparenze e la ruvidezza di alcuni argomenti trattati, non è affatto un cinico o un nichilista. Ma un autore in cui amore, sentimento e solidarietà sono i concetti fondamentali e i veri protagonisti.

Tutto questo si rintraccia in maniera particolare in questo romanzo, che è principalmente un omaggio al rapporto tra padre e figlio, in tutte le sue possibili varianti.


"Freddo a luglio" inizia come un semplice thriller, un thriller intelligente, ma che sembra essere anche abbastanza scontato. Invece no, inaspettatamente ci si imbatte nel corso della vicenda in una serie di colpi di scena e in una serie di capovolgimenti di fronte, da spiazzare anche il lettore più smaliziato. La commozione, la rabbia e il divertimento vi accompagneranno fino alla fine, con la certezza che nel mondo della narrativa ci sarebbe bisogno di tanti Lansdale e che uno solo non basta.

domenica 27 agosto 2023

Massimo Carlotto, "L'oscura immensità della morte” (2004)


Consigli di lettura


Massimo Carlotto, "L'oscura immensità della morte” (2004)


[Questa recensione, assai riveduta e corretta nelle parti troppo contestualizzate, la scrissi all'epoca dell'uscita del libro. L'ho voluta riproporre perché il romanzo merita veramente e resta davvero attuale]


«Rassettai la cucina e poi tirai fuori dal cassetto le fotografie di Clara ed Enrico. Non erano il ricordo di momenti felici. Quelle erano sepolte negli scatoloni che conservavano la mia vita precedente in un garage preso in affitto. Le uniche foto che tenevo vicine erano state scattate sul lettino d'acciaio dell'istituto di medicina legale. Osservai il torace aperto e saccheggiato dal bisturi di mia moglie e di mio figlio. Il dolore pulsò più forte e una fitta salì dallo stomaco fino in gola, ma il pensiero della malattia di Beggiato mi evitò la consuetudine del pianto. Quel povero stronzo pensava che fossi capace di gesti nobili. Per perdonare bisogna provare sentimenti, avere una vita. Tutto quello che mi era rimasto lo tenevo in mano in quel momento.»


«Qui il buio ti ricorda che sul tuo fascicolo c'e' un timbro rosso con scritto "fine pena: mai". Che sei fottuto. E allora pensi a quanto sei stato stronzo a rovinarti in questo modo. E i ricordi ti impediscono di riposare. Ogni notte penso alla donna e al bambino. Non so davvero come ho potuto tirare il grilletto. Ma ormai e' fatta e non posso fare nulla per loro. Mi dispiace tanto però. Per sopravvivere in galera faccio il duro ma dentro di me sono pentito di aver buttato via la mia vita con il crimine. Potevo avere una vita diversa. Ho avuto tutte le possibilità. Ho scelto di fare il rapinatore, nessuno mi ha costretto, e se avevo messo in conto di uccidere uno sbirro o di essere impallinato, mai e poi mai avevo pensato di uccidere due innocenti. E' vero, ero strafatto di coca ma come cazzo ho fatto a sparare a un bambino di otto anni e alla sua mamma? Chiedo loro perdono ogni notte e la domenica mattina a messa. Non credo in Dio ma comunque ci vado. E' l'unico momento in cui gli altri detenuti sono tranquilli e ti puoi rilassare.»


Certe storie di Massimo Carlotto sono apparentemente prive di buoni sentimenti. Rintracciare nei suoi vecchi romanzi, al primo approccio, questo elemento è quasi impossibile. Eppure anche se il cinismo sembra farla da padrone, non lo è mai fino in fondo. La vera caratteristica che contraddistingue molti di questi scritti è il rifiuto di ogni tipo di manicheismo. Carlotto presenta qui una condizione individuale e sociale ridotta ad una penosa disumanità, al di là del bene e del male, per poi scavare nelle coscienze, alla ricerca di un barlume di quello che erano una volta o di quello che potrebbero essere, e tentare una disperata ricomposizione.


Probabilmente Carlotto costruisce queste storie condizionato dalla sua vicenda giudiziaria. Una vicenda giudiziaria kafkiana molto simile a quella dell'Alberto Sordi di "Detenuto in attesa di giudizio". Tuttavia, quella che può apparire come la distorsione della realtà causata da un'esperienza così dolorosa, è invece il risultato di un percorso interiore che lo ha reso immensamene più ricettivo e sensibile nell'analizzarla meglio. In un'ottica più coinvolgente, di quanto potrebbe fare chi invece si è tenuto constantemente lontano dalle contraddizioni più difficilmente digeribili della nostra società.


Ma torniamo ai buoni sentimenti. Nonostante la resistenza palese che Carlotto adopera nell'accettarli, la solidarietà e la pietà, nei confronti di chi è portato dalla vita ad affrontare grandissimi dolori, alla fine è talmente forte, da non riuscire ad impedire allo scrittore una costruzione morale dei suoi apologhi. Naturalmente le storie della sua produzione letteraria a cui mi riferisco sono interamente nere, senza speranza o quasi, come lo potevano essere la "trilogie noir" di Malet oppure molti dei romanzi di Izzo.


Il motivo principale sta appunto nel rifiuto quasi assoluto della divisione tra buoni e cattivi. I suoi personaggi, quelli più forti, quelli che fanno la storia delle vicende che racconta, e che condizionano più o meno apertamente l'andamento reale della società, sono uomini che si muovono costantemente in un'indefinita zona grigia. Esseri disperati che hanno perso tutto e si dibattono, cercando di liberarsi dal loro enorme dolore, e che, come uno dei due protagonisti di questo romanzo, sono precipitati nell'oscura immensità della morte.


Questi uomini e donne sono deboli, una parte dei deboli, quelli che, a prescindere dalle storie personali, sono non solo le vittime del fato e delle scelte individuali più o meno cercate e volute. Ma anche dell'ingiustizia di uno Stato che poco o per nulla si preoccupa di loro, di chi subisce torti assurdi, come l'omicidio di persone care, e di chi recluso, dovrebbe essere reintegrato nella società e non solo punito. Dura è la denuncia nei confronti della condizione carceraria, nonostante quello che si pensi comunemente, le carceri italiane non sono quegli idilliaci pensionati, di cui molti nostri politici vanno sproloquiando in giro.


Gli altri deboli, i più numerosi, la massa dei senza voce, sono o vittime schiacciate da un'esistenza ai margini del nulla o degli illusi che cercano di riscattare la loro incapacità di cambiare le cose, con gesti di solidarietà individuale, che, frustrati, si scontrano con il Leviatano della violenza e dell'ingiustizia.

Il dolore quindi resta una dimensione del tutto personale con la quale fare i conti senza nessuno o quasi che ti aiuti veramente, facendo prevalere alla fine solo le ragioni della vendetta personale e pubblica e quelle dell'egoismo e del pregiudizio. E a nulla servono costruzioni ipocrite, che nascondono la speculazione politica di chi vuole condizionare l'opinione pubblica o mettere a tacere la propria e l'altrui coscienza.


A Silvano Contin hanno ucciso moglie e filglio di otto anni, presi ostaggio durante una rapina. Ad assassinarli è stato Raffaello Beggiato, che viene catturato subito dopo dalla Polizia, mentre il suo complice fugge. Viene condannato all'ergastolo, ma dopo quindici anni Beggiato è ammalato di cancro, gli resta poco da vivere ed è in attesa della grazia o della sospensione della pena, ma per ottenerla ha bisogno del perdono di Contin. È su questa idea iniziale che si sviluppa il romanzo di Carlotto e durante il suo svolgimento assistiamo non solo al capovolgimento graduale di fronte tra vittima e carnefice, ma anche alla progressiva trasformazione interiore dei due protagonisti.


Carlotto usa un espediente molto efficace. A parte il prologo, i capitoli si alternano con i nomi di Silvano e Raffaello e sono raccontati con la loro rispettiva voce narrante. Il punto di vista che muta continuamente e che segue linee assolutamente mai convergenti, se non quella del legame indissolubile del crimine, è il momento centrale su cui è costruita tutta l'essenza della storia. Carlotto è bravissimo a rendere l'idea di due coscienze così diverse, identificandosi in ognuna delle due in maniera altamente partecipata ed intensa.


Siamo lontani qui dall'etica terribile e cinica dell'altro suo capolavoro, quell'"Arrivederci amore ciao", nel quale il protagonista è un essere oramai svuotato da ogni sentimento umano e che alla fine si rivela solo una sorta di macchina crudele. Vicenda dove è difficile rintracciare lo status di vittima sociale del personaggio, se non andando a scandagliare i lontani recessi della sua infanzia.


Questa invece è una commovente parabola sul rimorso e sul perdono, che trae molto ispirazione dal Dostoevskij di "Delitto e castigo". Esseri che non troveranno mai un filo per poter comunicare al di là del dolore, della sofferenza e dell'odio, e seppure uno dei due sembra condannato a ridursi al cinismo assoluto del protagonista dell'altro romanzo, alla fine non ci riuscirà, perchè sarà per sempre travolto e imprigionato dall'oscura immensità della morte. Lo sarà ancor più che all'inizio della vicenda, condizione di immenso dolore che ha sempre vissuto e vivrà in una solitudine allucinante. 


Il finale è caratterizzato da un colpo di scena incredibile e assolutamente inatteso, che esprime per intero il messaggio più squisitamente morale dell'opera.

lunedì 21 agosto 2023

J. G. Ballard "Millennium People" (2003)

 


Consigli di lettura


J. G. Ballard

"Millennium People"

(2003)


Ballard era un estremista, lo è sempre stato. Un estremista non necessariamente politico, ma sicuramente un estremista della parola, del discorso e della narrazione. Un estremista borghese che ha indagato spesso la catastrofe e le ripercussioni di questa nell'animo umano e nelle relazioni sociali. Un percorso che va dal macrocosmo dell'evento catastrofico allo spazio interiore di ogni singolo individuo.


Questo romanzo non fa eccezione e più che alla tetralogia degli elementi, dedicata alla catastrofe che incombe sull'umanità a causa della rivolta più o meno sensata di acqua, aria, fuoco e terra, ci riporta alle piccole catastrofi di "Crash" e de "Il condominio". Cataclismi non più legati ad una reazione da parte della natura e che quindi, forse, ma non sempre, può essere più o meno imputabile alla dissennatezza umana, ma al senso profondo di spaesamento e inconcludente dimensione di inadeguatezza psicologica degli individui, da soli o in piccole comunità, di fronte al mutare delle condizioni sociali, ma paradossalmente anche di fronte alla loro palese immutabilità.


E infatti il libro in questione fa parte di un'altra tetralogia quella di "Cocaine Nights", questo è il terzo capitolo.

Romanzi, come era anche nella tetralogia degli elementi, che possono essere letti separatamente. Il legame è solo ideale e qui è il quartiere residenziale.

Ed è appunto più chiaro proprio per questo il riferimento al "Condominium", un quartiere residenziale che è un pò l'estensione orizzontale e più rassicurante, di quella terribile ed opprimente del palazzone verticale, struttura che incombeva già come un incubo nella, forse, più famosa storia ballardiana.


Qui infatti lo scrittore inglese, quasi a voler rendere ancora più chiara la sua parabola di piccola catastrofe borghese, si concede a dosi inusuali di moderazione ed ironia, che sono del tutto assenti in altre sue opere catastrofiche. Ma questo invece di indurre ad una logica serenità o di affievolire quanto meno la latente disperazione, causa un senso di vuoto e di angoscia ancora più profondo, perché il nulla piatto e rassicurante è peggio di qualsiasi catastrofe.


Ma il punto importante di quest'opera è anche un altro e riguarda il cosiddetto movente politico sociale. Può la borghesia, la middle class britannica del nuovo millennio, una delle più moderatamente assennate classi sociali del globo, essere il soggetto di una rivoluzione? Questa è l'ipotesi anticipatoria, o almeno tale appare, che presenta Ballard in uno dei suoi ultimi libri.


Non è un'ipotesi così altamente paradossale. "Millennium People" fu scritto in una particolare contingenza storica in cui le classi meno agiate: sottoproletariato, proletariato e piccola borghesia, cominciavano a non avere più la consistenza sociale del passato, disperse in miriadi rivoli e ramificazioni che non concedevano un preciso elemento di identità comune. Inoltre, erano troppo prese dai problemi assillanti, relativi a semplici e aride questioni di sopravvivenza, che avevano abbandonato, con rassegnazione e indifferenza ogni idea di trasformazione, figurarsi il sentirsi soggetto rivoluzionario.

Oggi, a distanza di vent'anni, la situazione sociale si è ancor più radicalizzata e quella che sembrava un'anticipazione un po' fantascientifica, ha assunto le proporzioni della realtà.


La borghesia, il ceto medio, composto per lo più da professionisti, come d'altronde è accaduto più volte in passato, anche il più remoto, avrebbe invece gli strumenti per condurre questa rivolta. Per capire di essere prigioniero dei suoi stessi miti: scuole private, viaggi turistici, piscine e campi da tennis, musei, teatri e cinema. Tutto quell'armamentario ideologicamente vuoto, che è ben rappresentato a livello simbolico dal quartiere residenziale. Nel frattempo, le condizioni sociali di una parte della middle class sono peggiorate, e certe aspettative non sono più sostenibili, o meglio mostrano una grande fragilità strutturale.

 

Ma torniamo all'estremismo. La borghesia è in fondo una classe estremista, il vero soggetto rivoluzionario, nonostante il suo apparente moderatismo, è estremista nella concezione delle relazioni sociali e nella vita pubblica, tutto il castello si regge in piedi grazie alla certezza dei propri privilegi e qualora questo privilegio dovesse cadere, mostrando solo di essere il prodotto di una colossale truffa, cosa resterebbe se non l'estremismo e la rivolta?


Ma qui il problema si complica, perché la rivolta del ceto medio sarebbe essenzialmente rivolta contro sé stesso, venendo appunto messo in discussione il modello di vita, non solo scelto, ma anche prodotto dalla borghesia in decenni di assoggettamento ai valori del consumismo persino culturale.

E qui, la capacità anticipatoria di Ballard è impressionante. 


La risposta più estrema e senza remissione, allora, sarebbe il terrorismo, come avviene infatti nel romanzo. Un terrorismo che a ben vedere sembrerebbe dettato da furore nichilista. Ma che è tutt'altro, anzi è l'esatto contrario. Ballard ci prospetta infatti una classe sociale consapevole che il prodotto ideologico e culturale che ha inseguito nella sua esistenza è vuoto, è il nulla assoluto. Quindi una rivolta contro il nulla sarebbe ovviamente una rivolta non per, ma contro il nichilismo.


La massima espressione della negazione del nulla sarebbe andare fino in fondo nella distruzione di cose e persone, che di questo nulla sono l'espressione più convinta. Ma per essere veramente una rivolta contro il nulla non deve avere moventi evidenti, l'unico movente è la pura casualità e quindi l'insensatezza della scelta dell'obiettivo. Perché il movente la ricondurrebbe alla necessità di una giustificazione sostanzialmente tutta interna alle convenzioni della logica, che invece si vuole distruggere, in quanto anch'essa prodotto dell'effimero mondo borghese. 


Rivoluzione che ha come scopo la negazione ultima di ogni finalità e di ogni causa apparente, dunque.

Per cui il rimanere sospesi tra l'alternativa dell'escalation distruttiva da una parte e quella della normalizzazione piatta e rassicurante dall'altra, è un prospettiva incredibilmente apocalittica, nonostante l'ironia e il tono da commedia nera, tenuto da Ballard per tutto il romanzo.

Resta forse la sensazione che tutto ciò sia solo un'ipotesi un pò fantasiosa visto i tempi che stiamo vivendo, costellati da ben altri conflitti e molto motivati, anche se lo stesso insensati.


Ma non mi sentirei di liquidare l'oscuro presagio ballardiano come estemporaneo, frutto solo del suo cinico accanirsi contro i vizi della middle class britannica. Nel romanzo c'è un riferimento chiaro, anche se non approfondito, ai fatti dell'11 settembre del 2001 e a quanto sia cambiato il mondo dopo di esso. Non poteva esserci altro, d'altronde, perché tutto quello che è avvenuto dopo, Ballard non poteva saperlo, anche se tra le righe, era immaginabile. 

Semplicemente un grande capolavoro.

domenica 20 agosto 2023

Agenti provocatori. Il porto delle nebbie.

 


AGENTI PROVOCATORI. 

IL PORTO DELLE NEBBIE


Le cose andrebbero chiamate con il loro effettivo nome. Gatekeeper è per lo più un non sense funzionale alla propaganda, in questi anni ci sono caduto anch'io. 

Attualmente, mi sforzo di operare una distinzione di carattere sostanziale senza ridurre tutto a una melma informe. 

Il panorama è molto più complesso e composito, ma anche facilmente scomponibile. 


Si va da quelli che agiscono, sotto mentite spoglie, per promuovere sé stessi, gruppi di appartenenza e interessi diversi: insomma, gli opportunisti, che sono la maggioranza; fino ad agenti provocatori veri e propri, e veri e propri infiltrati, che, detto per inciso, sono in conflitto anche trasversalmente tra loro. Queste due ultime tipologie sono apparentemente diverse, ma si integrano perfettamente, anche quando confliggono. 

Opportunisti, provocatori, infiltrati, gente in buona parte assai preparata, ma spesso più rozza; in ogni caso astuta, coadiuvata da peones loro malgrado e da mezzi di comunicazione sovente tutt'altro che artigianali.


Per molti decenni, è stato così, lo era ai tempi di Victor Serge, che cito più avanti, ma anche negli anni settanta. A me personalmente, capitarono diversi, non pochi casi, non solo allora, anche più tardi.

Nel passato, comunque, non era molto difficile che questi soggetti fossero scoperti, o venissero allo scoperto.

Oggi, con social e innovazioni tecnologiche, le tecniche si sono assai raffinate, ed è molto più difficile, anche se non impossibile, riuscire a intuire.


Parlo di intuire, quindi, non chiedetemi di fare nomi, dobbiamo concentrarci sulle dinamiche.

Le mie sono valutazioni del tutto soggettive. Ognuno dovrebbe averne di proprie. Certo, bisogna imparare a confrontarsi con quelle degli altri, senza ritenere che possano, però, contenere risposte esaustive. L'importante è che ognuno si adoperi a sviluppare il  pensiero critico e gli strumenti di analisi.


Certi meccanismi relazionali, tuttavia, sono pressoché gli stessi. Senza contare che vengono usate e manipolate anche persone in perfetta buona fede, colte e intelligenti (persino con ruoli affermati in campo scientifico). Figuriamoci cosa potrà accadere con un'intelligenza artificiale sempre più evoluta e diffusa, non le sciocchezze alla chatGPT che ci danno in pasto.


Il fine, oltre alla delazione vera e propria, è soprattutto il dirottamento, la disattivazione, il discredito del dissenso o il semplice più diffuso "pro domo sua", anche solo per aumentare le visualizzazioni e acchiappare un po' di like. 

Ne abbiamo avuto la prova più eclatante a livello di massa con il M5s.

Di conseguenza, se non sono sicuro di quello che leggo, vedo o sento, non lascio alcun segno, passo oltre, ne va della mia attendibilità e della mia dignità. 


Lungi da me ovviamente suscitare paranoia, sospetto e diffidenza, ma è necessario essere un po' più accorti per non abboccare a tutto quello che ci passa davanti. Un po' di sano scetticismo non ha mai fatto male a nessuno. Tra l'altro è  stato anche il motore dell'opposizione allo stato d'eccezione.

È del tutto umano cercare conferme alle proprie convinzioni, io pure le cerco, so cosa vuol dire e non sono esente dal prendere cantonate. 


Quindi, il problema non sono solo i cosiddetti "pompieri". Il problema spesso sono proprio quelli che offrono letture fin troppo radicali, teorie strampalate, con foto e video taroccati o con date diverse da quelle reali, che vengono diffusi appositamente; o si sentono rivoluzionari irriducibili, risvegliati, talmente tanto da calpestare gli altri, perché usano l'arma della suggestione e dell'odio, così come fa il sistema.

E così, come fa il sistema, sono propugnatori di verità alternative inoppugnabili, che non ammettono una verifica tra pari, pena la scomunica.

Soggetti che di fatto operano per l'isolamento dal resto della società. 


Il terreno privilegiato da questi soggetti è la polarizzazione delle posizioni, l'allarmismo uguale e contrario a quello del sistema, la semplificazione e l'enfatizzazione delle posizioni, lo sbandierare certezze, l'auto celebrazione e il feticismo dell'organizzazione politica.

Rifuggono le complessità, i dubbi e il franco confronto delle idee.

Spesso e volentieri, sono personaggioni e personaggetti interni al sistema, risvegliati dell'ultima ora.


Perché questo è il terreno di coltura e di conquista in cui si muovono, non certo la tolleranza, la rigorosa sobrietà, il libero pensiero (il radicalismo vero sarebbe, invece, proprio questo). 

Perché fanno leva sul risentimento, sulla voglia di riscatto di chi è stato discriminato, insultato, emarginato, su chi ha bisogno a tutti i costi di pastori, di formalizzare l'organizzazione, un riconoscimento istituzionale per essere rassicurati. Su chi divide il mondo tra buoni e cattivi, in base a categorie geopolitiche.

E chi va ossessivamente in cerca della verità, finisce sovente intrappolato in un'altra menzogna. 


D'altronde, bisogna sempre ricordare che negli ultimi tre anni, solo in Italia, abbiamo avuto milioni di persone che hanno disobbedito, con diverse gradualità e diverse modalità. Ma hanno disobbedito. Non è stata una cosa da niente. E farla naufragare nel ridicolo, nel divide et impera o in qualcosa di peggio è forse l'obiettivo maggiore del potere dominante. Già siamo a "buon punto", purtroppo, molte dinamiche sono già irreversibili. E tutto questo ha trovato, ahinoi, solleciti collaboratori, consapevoli o meno.

E sono numeri, appunto, che fanno gola agli opportunisti.


Sarebbe invece il caso di restare concentrati sugli aspetti cruciali della dominazione, tutti palesi, che non necessitano di dietrologia o teorie cospirazioniste, e senza fantasiose fughe in avanti: le restrizioni, le coercizioni, lo stato d'eccezione, la pervasività dei dispositivi di controllo e di irreggimentazione, i nuovi interessi del capitalismo, votato al green washing, la quarta rivoluzione industriale; contrapponendo la libera ricerca, rigorosa, ma mai rigidamente dogmatica e inaccessibile, che possa essere sempre messa in discussione; il mutuo aiuto nei confronti di chi ha subito in tutti i sensi, con la perdita del lavoro e con gli effetti avversi; la difesa, questa sì irriducibile, della libera scelta, dell'habeas corpus.


Uno dei tantissimi esempi di agente provocatore. 

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"S..., professore di storia a Mosca, arrestato perché si era creduto di discernere certe allusioni nelle sue conferenze sulla rivoluzione francese (Termidoro!) era un malato così grave che esigemmo dalla Ghepeù il suo invio in una clinica di Mosca. 

Ottenemmo soddisfazione. 

Ritornò da noi meno barcollante e ci portò notizie: Trockij, di cui non sapevamo nulla da un pezzo, fondava la Quarta Internazionale. 

Con quali forze? Con quali partiti? ci domandavamo. 

S. mi propose, da parte di misteriosi compagni, di formare con El'cin un comitato illegale dell'opposizione. 

Ci vuole una mente che diriga!

Eravamo seduti sul terrapieno davanti a casa mia, di fronte alla steppa. 

Lo interrogai sui compagni di Mosca, cercando di identificarli, lo guardai bene in fondo agli occhi, e pensai: Tu, vecchio mio, sei un agente provocatore! 

Gli spiegai che, anche nel fondo delle prigioni, rappresentavamo sempre un principio di vita e di libertà e che non avevamo affatto bisogno di costituirci in comitati clandestini. 

Fallì dunque, ma fu graziato qualche tempo dopo. 

Avevo avuto ragione. 

Se lo avessi ascoltato, sarei certo morto a quest'ora, con un forellino nella nuca."


Victor Serge, "Memorie di un rivoluzionario (1901-1941)"

venerdì 18 agosto 2023

Marc Bolan

 


Storia del Rock


I protagonisti - Marc Bolan


Conobbi Marc Bolan per puro caso all'età di tredici anni, grazie a un LP, raccolta dedicato ai Tyrannosaurus Rex, che fu regalato a mio padre, insieme ad altri dischi di rock, classica e jazz.

Rimasi colpito dalla foto che campeggiava sulla copertina e che ritraeva Bolan e Mickey Finn, abbigliati con colori sgargianti, tipico look dell'epoca; e ovviamente dalla musica: suoni che non avevo mai sentito prima di allora.


Nel 1972 uscì il delizioso documentario "Born to Boogie". Film prodotto da Ringo Starr, che riprendeva Marc Bolan in alcuni spezzoni del suo famoso concerto tenuto a Wembley nel 1972 insieme ai T. Rex, in alcuni gustosi siparietti e in una jam session insieme allo stesso Ringo Starr e ad un Elton John scatenatissimo al piano, quando era ancora lontano anni luce dai lustrini del music business.


Marc Bolan è oramai un mito. La sua fama non è forse al livello degli altri protagonisti del rock decadente o del glam, come David Bowie, Lou Reed e Iggy Pop, ma come loro ha contribuito alla nascita di un filone musicale, che a cavallo tra gli anni sessanta e i settanta, scrisse una nuova pagina nella storia del rock creando un genere nuovo, che affondava le sue radici nel rock 'n roll, ma che, attraverso l'ambiguità, inventava una forma estetica e sonora del tutto inedita.


Nel caso di Marc Bolan possiamo parlare chiaramente di anticipazione di punk e di new wave, allo stesso modo degli Stooges di Iggy Pop, di David Bowie e di Lou Reed.

Che la sua morte abbia contribuito a diffondere il suo mito è cosa innegabile. Ma è altrettanto innegabile che lui fu uno dei menestrelli del rock "maledetto", come lo sono stati in maniera diversa anche Syd Barrett, Nick Drake e Tim Buckley, a prescindere dal destino crudele che hanno avuto. Sono stati degli anticipatori, ai quali ancora non è stato riconosciuto un merito adeguato, ma per fortuna lontani dal diventare fenomeni da baraccone.


La carriera musicale di Marc Bolan è iniziata sul finire degli anni sessanta, con la pubblicazione di tre album a nome dei Tyrannosaurus Rex, nei quali vengono proposte canzoni segnate da uno stralunato folk rock psichedelico, che vede soprattutto nel terzo album "Unicorn", primo capolavoro del cantante e chitarrista, assumere una fisionomia talmente originale, da costituire da quel momento in poi un vero e proprio tratto distintivo.


Nel 1970 esce "T. Rex" e a quel punto avviene la svolta. Il gruppo diventa semplicemente T. Rex e il sound si indurisce, concedendo al rock 'n roll di divenire il protagonista principale, ma senza rinunciare alle radici folk e psichedeliche. Da quel momento in poi seguiranno alcuni altri capolavori fino all'apoteosi dell'indimenticabile "The Slider" del 1972.


Album che sancisce definitivamente la fama e la grandezza di Marc Bolan e che è considerato insieme a "The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars" di David Bowie la pietra miliare del rock decadente di quegli anni. I due tra l'altro erano amici, suonarono anche insieme, oltre al fatto che collaborarono in diverse incisioni e che il Duca Bianco dedicò al T. Rex la celeberrima "Lady Stardust", intitolata originariamente proprio "A Song For Marc".


Da ricordare assolutamente una serie di composizioni del nostro menestrello hippy, che rimarranno negli anni come classici del rock: "Ride A White Swan", "Get It On", "Cosmic Dancer", "Baby Strange" e, soprattutto, "Telegram Sam", una delle canzoni rock più eseguite in assoluto, famosissima la versione dei Bauhaus.


Marc Bolan ci lasciò nel 1977, a seguito di un incidente automobilistico, un mese dopo la morte di Elvis Presley, che tanto aveva significato per lui. In quel fatidico 1977, in cui il fermento musicale punk era in piena esplosione e in cui la new wave, di cui Bolan diverrà un'icona, cominciava la sua lenta e inesorabile rivoluzione. Ci ha lasciato la sua bellissima musica e la sua voce indimenticabile, una delle voci più dolci, violente e stralunate del rock.


Album consigliati:

"Unicorn" (1969)

"T. Rex" (1970)

"Electric Warrior" (1971)

"The Slider" (1972)

giovedì 17 agosto 2023

Ray Bradbury "Il popolo dell’autunno" (1962)

 


Consigli di lettura 


Ray Bradbury 

"Il popolo dell’autunno" (1962)


“In primo luogo era ottobre, un mese eccezionale per i ragazzi. Non che tutti i mesi non siano eccezionali. Ma ce ne sono di buoni e di cattivi; come dicono i pirati. Prendete settembre, un mese cattivo: cominciano le scuole. Considerate agosto, un mese buono: le scuole non sono ancora incominciate. Luglio, ecco luglio è veramente splendido: niente scuola. Giugno, senza dubbio, giugno è il migliore di tutti, perchè le porte delle scuole si spalancano e settembre è lontano un miliardo di anni”.


Ecco l'idimenticabile “incipit” di questa fiaba gotica, un'opera fantasy praticamente perfetta. Questa novella, una delle più belle, ma tra le meno conosciute di Ray Bradbury, è raccontata come se fosse concepita dalla mente di un bimbo. Ma è rivolta a lettori di ogni età.

Non solo "Fahrenheit 451" e non solo “Cronache Marziane”, ma molto altro, quindi.


Il mio incontro con "Il popolo dell'autunno" fu del tutto casuale, lo incrociai in una libreria, ne fui incuriosito, ma avevo messo in conto di esserne deluso, e invece, fu come una specie di illuminazione, che mi riportò alla mente inquietudini dell'infanzia, rimaste chiuse in qualche cantuccio della mia coscienza, ma assolutamente indelebili e che hanno condizionato tutto il corso della mia vita.


In una cittadina di provincia, durante il periodo che prelude alla festa di Hallowen, giunge un circo pittoresco e misterioso, diretto da un personaggio inquietante, il signor Dark. 

Due ragazzini si scontreranno con l'ignoto e l'imponderabile, rappresentato da una sinistra giostra, ospitata all'interno del circo, e appunto dal minaccioso Dark, l'uomo illustrato. 


Saranno aiutati dal padre di uno dei due, che per l'occasione non esiterà a riscoprire la sua fanciullezza.

Meravigliosa allegoria della giovinezza che passa e che però non va mai dimenticata, nonostante i pericoli rappresentati dall'aridità della realtà e dai suoi incubi. Viene, inoltre, dolcemente reso il rapporto tra padri e figli, che, vivendo insieme l'esperienza del gioco, non sono altro che eterni bambini nel tempo. 


Per me è stato del tutto naturale identificarmi con il padre e il figlio del romanzo di Bradbury, in un continuo alternarsi di ruoli.

Leggere questo libro è un'esperienza catartica, con il riemergere di visioni arcaiche che fanno parte dell'archetipo collettivo. Le paure che riconosciamo nei simboli e nelle figure trasmesse nella nostra coscienza fin dall'infanzia sono tra queste.


Bradbury conferma qui di essere un autore dalla fantasia pressoché illimitata e dalle qualità letterarie notevoli.

Scrittore del fantastico e del surreale in svariate declinazioni, riesce a stemperare un'atmosfera inquietante e nera, attraverso intense suggestioni fiabesche, consegnando un forte e denso sapore dell'autunno, con personaggi che vagano tra sogno, incubo e realtà. 

Talmente forte, che per me è stato inevitabile collegarlo col senno di poi a certi miei incubi molto recenti.

lunedì 14 agosto 2023

IL FONDAMENTALISMO UTOPICO DI NATURA IDEOLOGICA.


 IL FONDAMENTALISMO UTOPICO DI NATURA IDEOLOGICA.


Il fondamentalismo utopico, come ogni altro fondamentalismo è quella forma di religiosità (in questo caso nella sua variante laica), che impedisce di vedere il mondo per come è realmente, rifiutando buona parte delle sue contraddizioni e delle sue complessità (cose per lo più incompatibili con la visione del paradigma teorico di riferimento del fondamentalista), in nome e per conto di un'interpretazione semplificata della realtà basata sul "pensiero desiderante". 


Ciò implica anche la mancanza o la limitazione dell'autocritica e della capacità critica nei confronti dei relativi compagni di strada e dei gruppi di appartenenza, figuriamoci dei leader. Ogni voce dissonante che prova a mostrare la concretezza delle cose che non vengono accettate, viene automaticamente messa a tacere (anche solo interiormente: "non voglio sentirti, non voglio sentirti"), e, come ogni benpensante, il fondamentalista chiude gli occhi, si volta dall'altra parte, e insiste a seguire ostinatamente la "propria" utopia, la cui induzione esterna non sa riconoscere.


Di conseguenza le azioni, per quanto di ottima natura, vengono inficiate dalla parzialità, compromettendo realmente ogni possibilità di cambiamento, favorendo non di rado invece la regressione.

Il percorso di trasformazione e di crescita non è una "via lastricata di buone intenzioni" e, quando è autentico, prevede una miriade di dolorose lacerazioni interiori, che a volte neanche ci si aspetterebbe di incontrare, e che dovrebbero costringere costantemente alla dinamica messa a punto del proprio pensiero e della propria prassi. 


E persino quando il fondamentalista opera un cambiamento, lo fa sempre sotto l'influsso della stessa impostazione culturale di appartenenza, o di un'autorevole voce esterna, evitando ogni reale e sentita autocritica che provenga dalla nuda e cruda coscienza individuale e dai conflitti col mondo esterno reale e non con una realtà fantasma, cosa che non concepisce, perché è vittima di una concezione ideologica da recinto, strutturalmente dominata dal gregge e dal pastore di quel recinto.


Tutto ciò, dando ovviamente per scontata la buona fede....


[Nell'immagine, Makis E. Warlamis, "Utopien 04" (2007)]

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

  Cinema Cult movie “Otello” (1951) regia di Orson Welles con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier. «Fosse pia...