mercoledì 29 novembre 2023

Philip K. Dick Trilogia di Valis 1: "Valis" (1981)


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Classici della fantascienza 


Philip K. Dick

Trilogia di Valis 1: "Valis" (1981)


«...un essere umano vede qualcosa di brutto che sta giungendo inevitabilmente. Non ha alcun potere di impedirlo; è impotente. Questo senso di impotenza genera la necessità di assumere un certo controllo sul dolore incombente... qualsiasi genere di controllo va bene. Questo ha un senso; la sensazione soggettiva di impotenza è piú dolorosa dell’incombente infelicità. Cosí la persona afferra il controllo della situazione nell’unico modo che le resta: collabora nel tirarsi addosso l’infelicità incombente; l’affretta. Questa attività fornisce la falsa impressione che goda del dolore. Non è cosí. È solo che non può piú sopportare il senso di impotenza, o di supposta impotenza. Ma nel processo di assumere il controllo dell’inevitabile infelicità, diventa automaticamente anedonico (ossia incapace o restio a godere del piacere).»


«Era come se avessi tremato per tutta la vita, a causa di una cronica corrente sotterranea di paura. Tremare, scappare, finire nei guai, perdere le persone che amavo. Come un personaggio dei cartoni animati invece di una persona, mi resi conto. Un cartone animato degli anni Trenta, ammuffito. Dietro a tutto quello che avevo fatto c'era sempre stata la paura di spingermi.»


«… l’universo è irrazionale perché la mente dietro di esso è irrazionale. Tu sei irrazionale e lo sai. Io sono irrazionale. Noi tutti lo siamo e lo sappiamo, a qualche livello. Ci scriverei sopra un libro, ma nessuno crederebbe che possa esistere un gruppo di esseri umani irrazionali quanto noi, e che abbia fatto le cose che abbiamo fatto noi.»



Parlare di Dick non è impresa da poco. Parlare della Trilogia di Valis è ancora più difficile. Una cosa è certa, quest'opera per la complessità e per il carattere di universalità che la contraddistingue, si iscrive tra le opere più importanti della storia della letteratura del novecento.

Leggere Dick dopo aver letto la sua Trilogia si rivelerà qualcosa di completamente diverso. 


Anzi, a mio parere, sarebbe paradossalmente preferibile, se non necessario, per la comprensione delle sue opere precedenti, leggere prima questi tre romanzi, in una sorta di incompiuto “senso inverso”, che sono tra le ultime cose prodotte dal grande scrittore americano. Probabilmente non le sue migliori in assoluto, ma di fatto imprescindibili.


Tuttavia, la cosa, anche se apparentemente lo è, non è così paradossale. La Trilogia di Valis riveste anche il ruolo di una speciale forma di terapia, di cui Dick si è servito, e la quale alla fine svela a se stesso e ai suoi lettori il cammino interiore svolto dall'artista nei suoi decenni di attività letteraria.


Molti hanno creduto di vedere in questa opera l'ormai non recuperabile delirio di un genio, giunto agli inizi degli anni ottanta in una fase di follia senza più ritorno, che lo accompagnerà fino alla morte. E, seppur ne hanno riconosciuto il valore narrativo particolare, la reputano un'opera fine a se stessa, senza logica alcuna, o meglio con la logica solo ridotta a puro esercizio retorico di uno schizofrenico.


Invece no. Già dalla strutturazione in tre capitoli differenti, appare quanto razionale e lucido fosse il progetto dickiano. Certo, di una storia di schizofrenia si tratta, potremmo dire di geniale schizofrenia. Tuttavia, qui si aprirebbe un capitolo particolare, molto complesso e delicato in relazione alla follia e alla sua percezione nella cultura e nell'arte. Argomento che è contenuto, tra l'altro, in maniera trasversale in tutta la trilogia.


Per ora torniamo alla sua divisione in tre capitoli distinti. Anche qui potrebbe applicarsi il concetto di senso inverso, perché, a ben vedere, il primo libro è una sintesi dei due successivi, ma è anche la premessa necessaria per la costruzione di un filo narrativo comprensibile. Quindi vanno letti nell'ordine corretto.

"Valis", pur non essendo, a mio parere, il migliore (ma qui si parla di qualità talmente elevata e di opere inscindibili, che una distinzione del genere fa sorridere), è senz'altro il romanzo centrale, a cui gli altri due ruotano attorno.


Raccontarne in breve la trama è impossibile, oltre ad essere gesto alquanto riduttivo. È la storia di un processo di alienazione, ricomposizione e di nuovo alienazione di una coscienza alla ricerca della verità, quella di uno scrittore scisso in due personalità distinte: Phil Dick e Horselover Fat.

Si parte da questo semplice dato di fatto e si procede con un intreccio narrativo che prevede necessariamente plurimi livelli di lettura. Proverò ad individuarne alcuni, quelli che a me sono parsi più evidenti.


Innanzitutto, la scissione in due dell'anima letteraria dickiana. Le due personalità infatti sono, anche a nome dell'io narrante Phil Dick (e non è casuale che sia lui), come due scrittori distinti: Dick scrittore mainstream, legato ad una percezione della realtà rigida ed estremamente razionale, e il suo alter ego Horselover Fat (che poi è la traduzione dal tedesco in inglese di Dick in Fat, grasso o grosso, e in greco di Philippos, amico dei cavalli). Horselover Fat è invece un folle scrittore di fantascienza. 


In questa scissione dell’io è ricostruito in maniera geniale l'indissolubile conflitto interiore che ha accompagnato tutta la vita d'artista dello scrittore americano, sempre in bilico tra mainstream e letteratura di genere. E non solo: un conflitto nel quale Dick ha preso posizione a favore del mainstream e che con frustrazione, avendo constatato la sua maggiore propensione nel narrare storie di fantascienza, ha contribuito a portarlo al periodo della follia a cavallo tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta. Ma qui, appunto, avviene la ricomposizione, attraverso il peso della terapia svolto dalla trilogia. Nell'apparente insensatezza, Dick ritrova un senso e trova forse una sorta di pacificazione interiore.


Il secondo livello di lettura è quello che consegue al primo: la letteratura come diversa percezione della realtà. Qui il discorso comincia a farsi meno letterario e più filosofico e la conseguenza ulteriore l'avremo nei due capitoli successivi: "Divina Invasione", quale opera della mente di Horselover Fat, e "La Trasmigrazione di Timothy Archer", ad opera invece di Phil Dick. 


Insomma, quale significato e quale ruolo possono avere le due forme letterarie e qual è la forma più adeguata per descrivere la realtà che ci circonda? Il quesito non viene sciolto da Dick, anche perchè lo stesso Dick, pur non affermandolo mai esplicitamente, ci fa intendere che è una falsa questione, come avrebbe dovuto essere, e non lo è stato, per lui negli anni del conflitto interiore. L'importante è trovare un equilibrio e restare nell'attesa di una nuova rivelazione culturale, esistenziale o religiosa che sia. Così come è una falsa questione chiedersi che cosa sia questa misteriosa entità chiamata “Valis”.


Da qui arriviamo al terzo livello di lettura, quello della percezione della realtà pura e semplice nella vita degli umani. Siamo sempre al confine tra razionale e irrazionale, non scegliere una delle due modalità e, anzi, contemplare come possibili entrambe è l'unica alternativa che ci è concessa per crescere e sopravvivere. 


Perché non è dato scoprire quale sia effettivamente la realtà certa. Questa non è pura metafisica o semplice elogio del dubbio, è invece naturale conseguenza esistenziale, alla quale non possiamo sottrarci, pena la vera alienazione o, per bene che vada, il perdurare dell'assenza di consapevolezza. Anzi attraverso la piena coscienza di sè, anche come personalità distinte, che convivono all'interno di una presupposta singola unità, si può arrivare alla realizzazione dei propri sogni.


Il resto sono livelli di lettura secondari, anche se affatto marginali. Quali la speculazione filosofica sull'apparenza del mondo, le verità religiose rivelate, il peso avuto dalla controcultura lisergica nella formazione di una generazione di artisti e alcuni fondamenti di psichiatria. Il tutto condito da un senso dell'ironia unico. Perché Dick ci fa sapere, tra le altre cose, che la via della verità oltre che essere multipla, sta anche nel non prendersi troppo sul serio.

domenica 26 novembre 2023

Luigi Rinaldi, “Onda omologica” (2023)


Consigli di lettura


Luigi Rinaldi, “Onda omologica” (2023)


«Aveva pianto per giorni.

Sì, lei era infelice e questo era molto grave nella Konfed.

Essere infelici era l’unico vero tabù del Cambiamento ed era, questo lo sapeva, molto pericoloso, soprattutto darlo a vedere. Si sosteneva che il misterioso Grande Ordinatore si accorgesse sempre dell’infelicità dei suoi cittadini.»


«...la gente crede a quello che è più facile da credere e quello che è più facile da credere glielo diciamo noi. La gente non ha bisogno di pensare. La gente non vuole affatto pensare. Pensare costa fatica.»


«Tu hai rifiutato una montagna di soldi per una convinzione. Ecco, questo è qualcosa che nessuno ha compreso e che forse ha solo dimenticato. Li hai fatti pensare. E pensare, vedi, non è un’attitudine che piace. Comporta fatica, non felicità. Non si può essere felici e pensare allo stesso tempo. Perché se lo fai, se pensi, ti accorgi che non hai alcuna ragione per essere felice.»


«MANGIA IL NECESSARIO. AIUTACI A MANTENERE BASSO LO SPRECO.»


«Non c’è modo di fregare il Cambiamento. Perché noi, vedi, abbiamo piacere a essere infelici. Ergo, siamo felici a essere infelici. In altri tempi ci avrebbero definiti malinconici. Per questo, ci trattengono…Gli infelici veri, solo loro vengono mandati a morte nel deserto. Ecco, questo è il punto…Noi e il Cambiamento siamo la stessa cosa. Siamo parte del sistema. Quelli che non ne fanno parte se ne vanno a piedi nel deserto. Solo loro.»


Chi legge questo blog sa della mia passione per la letteratura distopica. Le mie recensioni viaggiano sovente tra romanzi del passato e del presente. La narrativa di questo genere, a mio parere, è un'occasione per poter leggere e interpretare contesti diversi, perché non rappresenta solo lo sforzo fantasioso di proiezione nel futuro, la carica anticipatrice, ma anche il retroterra culturale in cui queste opere sono nate. Ed è proprio da qui che nasce la mia passione.


“Onda omologica” è un romanzo recentissimo, pubblicato addirittura a ottobre di quest’anno e scritto da un italiano: Luigi Rinaldi. Ha vinto il premio Odissea 2023, premio legato alle edizioni Delos. Riguarda molto il nostro presente: è, sì, un futuro lontano, la cui ipotesi, pur tuttavia, appare tutt’altro che impossibile. La narrazione è frizzante, fresca, scorre fluida, senza intoppi. Il plot è assai avvincente e dal ritmo davvero sostenuto, senza un momento di cedimento o una lacuna, colmo di continui colpi di scena.


È significativo che un’opera del genere venga da un italiano. Nella trama infatti, si possono rintracciare aspetti e temi caratteristici della situazione italiana, che hanno però un comun denominatore all’interno di tutte le società occidentali che vivono un momento, forse irreversibile, di piena decadenza culturale.


Persino, la polarizzazione estrema dello scontro tra progressismo della transizione ecologica ed energetica, e della fluidità sessuale, con la svalutazione delle identità, e le spinte reazionarie e bigotte di segno opposto, ugualmente spersonalizzanti, rappresentate soprattutto dal tradizionalismo e dal fondamentalismo religioso.


È ambientato in una Terra, nella quale esistono contemporaneamente diversi regimi totalitari, e si intuisce che anche gli altri sistemi politici non se la passano granché bene. Quello di derivazione occidentale è basato sul politically correct: la Konfed, una sorta di impero del bene, dove la felicità è un dovere, non un diritto. È un regime che si estende anche in una parte del cosmo.


È descritta come una “libera Corporazione nella libera società anarchica del Cambiamento”, fondata sul Pilastro del Cambiamento: Felicità, Ecologia, Legalità, Salute. È un mondo post guerra atomica, dove si cerca di dimenticare la Storia, che non viene neanche più insegnata, nel quale vengono enfatizzati sesso e droghe, un mondo ossessionato dalla libertà sessuale e dalla burocrazia, nonostante si autodefinisca anarchico. La privacy non esiste, non esistono segreti e il pudore non è ammesso, perché è un concetto “anticambiamentalista”.


D’altronde, l’anarchia vissuta come una forma di ortodossia può condurre esattamente alla riproduzione della burocrazia, dello stato autoritario e del totalitarismo sotto altre forme. Questa intuizione è un po' uno dei temi portanti del romanzo.

È tutto finalizzato alla “felicità”. Il giudizio di Non Conformità è una delle cose più temibili che porta all’esclusione.


Esiste un Grande Ordinatore e un onnipotente Comitato Etico. Lo status di Cittadino Verde è il massimo a cui si può aspirare; il Rosso, è invece quello che sta in basso, destinato agli “scarti”.

La Konfed è regolata da una dottrina feroce e ipocrita che non contempla gli infelici. Una crudeltà mascherata da amore, caratterizzata da uno spietato darwinismo sociale.


Il romanzo, nella parte concernente la Konfed, è chiaramente influenzato dal "Mondo Nuovo” di Aldous Huxley. Quello che si descrive è proprio un mondo nuovo con un uomo nuovo pronto per il quarto millennio. La storia infatti è immaginata verso la fine del XXX secolo. Ma possono rintracciarsi anche echi dell’utopia/distopia fantascientifica di Theodore Sturgeon “Nascita del superuomo”.


La vita è finalizzata, oltre che alla felicità e al piacere, al risparmio ecologico ed energetico, caratterizzato anche questo da una sorta di fanatismo religioso. I comportamenti non ecologici vengono duramente sanzionati.

Sara, arrivata a Roma, è un'insegnante in fuga, e proviene da un altro sistema sociale, dalla Libera Repubblica di Pusan in Corea, che stava per essere invasa dal regime comunista dispotico del Kansong Daeguk.


Nell’Onda Omologica, un sistema di selezione sociale, basato su una serie di test, Sara Park è stata omologata e accettata nella Konfed come Cittadina Verde, senza alcun test, per il suo alto indice estetico, è infatti molto bella, e per il fatto che le donne orientali vanno di moda.

La lingua ufficiale nel Konfed, come in altri luoghi, è il Terrestre, anche se al mondo si parlano altre lingue più antiche, come il latino, l’inglese e l’italiano.

Sara fa la docente in una scuola che non è volta ad insegnare, ma che serve a socializzare e ad “allietare”, dove una delle materie è Pornografia. 


Però la giovane insegnante è molto restia all’omologazione, si sente a disagio ed è profondamente infelice in quel mondo che non le appartiene, con codici morali opposti a quello dove lei era cresciuta, e con una pressione sessuale talmente ossessiva da sfociare nelle molestie. Tuttavia, deve fare attenzione perché con due Non Conformità potrebbe di nuovo finire nell’Onda Omologica, come accade a tutti gli infelici, con le misteriose imprevedibili conseguenze della declassificazione del Colore e con il rischio di essere condannata al “forno”.


Sara è cristiana, ex suora di Pusan. La sua è una singolare forma di Cristianesimo, nella quale Gesù ha sposato la Maddalena, secondo quanto scritto nel Vangelo Unico, quello, appunto, di Maria Maddalena, ritrovato dal Venerabile Dan Brown. Questa di Dan Brown è una trovata geniale e divertente, ma non fine a se stessa. 


Un mondo futuro, in cui dominano i totalitarismi, è anche un mondo dell’effimero e del grottesco, le cui teorie non hanno più alcun fondamento scientifico-culturale, ma sono definite con rozze, folkloristiche e superficiali narrazioni, attraverso automatismi subculturali.

Dall'altra parte del Tevere inizia il Regno del Papa, nemico acerrimo della Konfed, di sua Santità Illibata Iesus XXII, discendente di Cristo.


«A Sud e a Est, il Tevere era il confine naturale tra i due stati. Un serpente giallo che scorreva lento fino al Mar Tirreno. L’altro confine era a Nord, al 42° parallelo, una linea di demarcazione affiancata da una strada sterrata e pattugliata ogni ora, di fronte a un recinto elettrificato.

Il Regno era il relitto di tante vicende storiche, accavallatesi una sull’altra nel corso dei secoli sul ricordo del disastro atomico che aveva spazzato via tre quarti del mondo e costretto l’Umanità a ricominciare dal poco rimasto.»


«Eppure, quel relitto che non le apparteneva, diverso da lei come il sole dalla notte, resisteva, anzi fioriva, foraggiato in parte dalla indolente politica estera del titano.

Ora, risalendo il vecchio fiume a ritroso con l’immaginazione, lungo la sponda destra si sarebbe vista la Konfed e su quella sinistra il Regno del Papa, due Paesi nemici e collegati tra loro solo da pochi e vecchi ponti, distrutti o invalicabili.

Solo uno era rimasto attraversabile: il Ponte degli Angeli.»


Il Regno Pontificio, una grossa enclave di circa tre milioni di abitanti, è l’esatto opposto della Konfed. Nel suo stato è in vigore un altro tipo di totalitarismo: un crudele dispotismo basato su una forma di cristianesimo fondamentalista e tradizionalista, dove è limitato al minimo l’uso di qualsiasi tipo di tecnologia, persino dell’energia elettrica, fatta eccezione per alcune piccole parti del suo territorio. 


I matrimoni sono combinati e la donna deve sottomettersi obbligatoriamente a tale decisione. Esiste ancora il manicomio. Vige il terrore assoluto e la tortura. Per chi vive nel Regno, la Konfed è il Paese del Grande Satana.

L’unica cosa che hanno in comune i due regimi sono i pregiudizi, anche se pure questi di segno opposto. Vengono però stipulati tra loro accordi sottobanco e traffici illeciti.


A Pusan il cristianesimo non è così, come non lo è nel resto del mondo, ma qui siamo nel Regno del Papa e la questione è più complessa.

Nel Regno c'è anche un movimento scismatico eretico, che nega la figura della Maddalena come moglie di Cristo e vorrebbe restaurare l'antica religione in cui Gesù era un asceta e sempre stato celibe.


A Sara, inserita in queste vicende tumultuose, l’attende un destino molto, ma molto singolare.

In fuga per la libertà e forse verso l’amore, e quindi verso la “felicità”, deve affrontare prove terribili, subire violenze, umiliazioni e sopraffazione, e fare i conti con una filosofia malvagia, ma di una fredda e cieca razionalità, senz’altro più pervasiva e perversa di quella del Regno del Papa.

“Onda omologica” è costruito anche come una sorta di originale Odissea, cui ben si adatta il nome del premio vinto per la seconda volta da Rinaldi.

mercoledì 22 novembre 2023

Wilkie Collins, “La pietra di luna” (1868)

 


Consigli di lettura


Classici


Wilkie Collins, “La pietra di luna” (1868)


«Nel momento in cui mia madre giaceva morente nel suo cottage in campagna, io ero colpito fino all’abbattimento, a Londra: paralizzato in ogni mio membro dalle torture della gotta reumatica. Sotto il peso di questa duplice calamità, avevo i miei doveri verso il pubblico da tener sempre presenti…

…Negli intervalli della sofferenza, nei casuali momenti di sollievo dalla pena, dettai dal mio letto quella parte della Pietra di Luna che è poi risultata la più riuscita nel divertire il pubblico: il «Contributo della signorina Clack»…

… Completato il romanzo, attesi la risposta del pubblico con un ardore di ansietà che non avevo mai provato, né ho provato dipoi, per il fato di qualsiasi altro mio scritto.

Se La Pietra di Luna avesse fatto fiasco, la mia mortificazione sarebbe stata davvero amara. Accadde invece che l’accoglienza fatta al racconto in Inghilterra, in America, sul continente europeo fu istantaneamente ed universalmente favorevole. Non ho mai avuto migliori ragioni di quelle che mi ha fornito quest’opera, per essere grato a tutti i lettori di romanzi di tutte le nazioni. Dovunque, i miei personaggi trovavano amici, e il mio racconto destava interessamento. Dovunque, l’indulgenza del pubblico guardò al di là dei miei errori, e mi ricompensò a cento doppi della fatica che queste pagine mi sono costate, in quel buio periodo di malattia e di affanno.»

Dalla prefazione di maggio 1871


“Egli mi guidò attraverso l’apertura fino ad un monticello di zolle sul terreno fitto di eriche, riparato da cespugli ed alberelli nani sul lato più vicino alla strada, il quale, nella direzione opposta, dominava una veduta grandiosamente desolata del vasto e cupo deserto della brughiera. Le nuvole si erano addensate nell’ultima mezz’ora. La luce era smorzata. Le lontananze velate. L’incantevole aspetto della natura ci venne incontro dolce, tranquillo e incolore: ci venne incontro senza un sorriso.”


Chi ha avuto già modo di leggere Wilkie Collins, sa benissimo quanto questo scrittore inglese, amico di Charles Dickens, abbia contribuito al romanzo ottocentesco, lasciando un'impronta indelebile e ispirando molta della narrativa successiva, e sa pure quanto i due scrittori si siano influenzati a vicenda, autori anche di opere scritte in collaborazione.

Collins, a mio modesto parere, è uno scrittore assai sottovalutato. Basti pensare a quell'immenso capolavoro che è "La donna in bianco", una delle pietre miliari della letteratura inglese del XIX secolo.


Le sue "sensation novels" traggono direttamente ispirazione dal romanzo gotico settecentesco. È un geniale lavoro di rielaborazione e di creazione di un nuovo filone, imperniato sulla cronaca nera e sulle atmosfere della Londra e dell'Inghilterra vittoriana, sfruttando la pubblicazione a puntate di riviste del settore, spesso di proprietà dello stesso Dickens.


"La pietra di luna" segue di dieci anni "La donna in bianco", ed è considerato da molti il primo poliziesco della storia della letteratura moderna, una cosa non da poco. La sua struttura è esattamente la stessa di altre opere dello scrittore inglese, basata sulla polifonia di voci diverse, che prende come modello il procedimento processuale.


La vicenda, difficilmente riassumibile in poche righe, procede, come si può immaginare, a scatti e per integrazioni successive, arricchita dai diversi punti di vista: una serie di testimonianze scritte che ricostruiscono il mistero di un diamante trafugato in India dal colonnello John Herncastle, ex ufficiale dell'esercito britannico, e incastonato su un pugnale, e che originariamente ornava una statua di una divinità induista.


La geniale figura del sergente Cuff ispirerà una miriade di detective, compresi Sherlock Holmes e Nero Wolf. Cuff amante della rosa canina, Wolf delle orchidee.

Altro geniale protagonista è il maggiordomo Betteredge, alter ego dello stesso Collins, che fa da contrappunto a Cuff e con il quale costituisce una coppia di opposti così ben assortiti, che in qualche modo aprirà la strada a Holmes e Watson.


La galleria dei protagonisti è molto lunga, e la polifonia di voci narranti appare alla fine per quello che è: Wilkie Collins si trasforma via via, si cala nei suoi personaggi di ambo i sessi e si lascia andare con gioia alla narrazione.

Ma i personaggi centrali, a parte il pittoresco maggiordomo, sono due: il giovane Franklin Blake, che reca con sé la Pietra di Luna, dono dello zio Herncastle, personaggio dalla non lusinghiera fama, e la destinataria del diamante, miss Rachel Verinder, cugina di Franklin. 


La storia, strutturata dall'intersecarsi di molteplici io narranti, offre al lettore, nel continuo cambio di prospettiva, la possibilità di ricostruire tutte le fasi della vicenda, dovendosi destreggiare in un ingegnoso intreccio narrativo, cogliendo numerosi particolari e imparando a conoscere così i caratteri dei vari personaggi. 

“La pietra di luna” è diviso in un prologo, due periodi e un epilogo.

Il primo periodo, in cui ha luogo la scomparsa del diamante, è occupato interamente dal racconto di Gabriel Betteredge.


Veniamo così a sapere da questi, maggiordomo a servizio di Lady Julia Verinder, come il diamante sia arrivato in casa di Lady Julia e qui smarrito. È straordinario il modo in cui Collins dipinge questo pittoresco personaggio che, prima di entrare in argomento, non si fa scrupolo di divagare, raccontando la sua storia personale e mille altri particolari. Un escamotage narrativo che ricorre spesso nelle opere dello scrittore inglese.


La dilazione nel tempo offre all'autore la possibilità di tratteggiare con efficacia sia la prima persona narrante, sia il contesto. Non esisterebbe Collins senza le divagazioni, e i personaggi non sarebbero così pittoreschi senza queste pagine così ossessivamente descrittive, ma incredibilmente affascinanti.


Il libro varrebbe anche solo per questa prima parte, che tra l'altro copre quasi la metà  del romanzo.

Infatti, il resoconto del maggiordomo Betteredge è talmente di grande effetto, così colmo di particolari, di fatti, ed è anche in qualche modo autoconclusivo, che il racconto avrebbe pure potuto chiudersi lì. Tuttavia, Collins era talmente pieno di inventiva e di risorse, che le pagine successive sono anche più affascinanti, con un incredibile susseguirsi di colpi di scena.


Nella prefazione che ho citato, lo scrittore inglese mette al corrente i suoi lettori di quanto gli sia costato scrivere questo romanzo, a causa del suo stato di prostrazione fisica e morale. Ho omesso di citare però la parte in cui scrive che gli è servito in sostanza anche per alleggerire il suo fardello. Questa alternanza di sofferenza e sollievo traspare nella sua prosa, come una sorta di indecisione trattenuta e poi improvvisamente liberata. Chi ha sensibilità sufficiente non ha difficoltà a coglierlo.


A ben vedere, la passione ossessiva di Betteredge per "Robinson Crusoe" fa trasparire un'allusione ad una condizione di sofferenza e nel medesimo tempo anche la ricerca di una liberazione. Betteredge in quanto alter ego, come ho già scritto, deve in qualche modo riflettere e simboleggiare la condizione psicofisica dello scrittore in maniera più completa possibile.


Ha dell’incredibile il capovolgimento di prospettiva con l’arrivo della testimonianza della signorina Clack, che apre il secondo periodo. Il genio di Wilkie Collins si sbizzarrisce a mostrarci l’animo ipocrita, gretto e bigotto di questa fanatica visionaria, tutta “buone azioni”, comitati filantropici e libelli religiosi da quattro soldi, meschina e gelosa, votata al “martirio”, ma tanto affascinata dalle caratteristiche “spirituali” di uomini di gradevole aspetto. 


La Clack è in qualche modo l’antagonista perfetta di Betteredge, che tuttavia serve allo scrittore per integrare la narrazione complessiva, speculare a quella del maggiordomo, anche perché, nonostante la sua grettezza, è una donna in possesso di notevole presenza scenica. È attraverso il suo racconto che lo scrittore riesce a inquadrare perfettamente le dinamiche di potere a livello sociale.


Infatti, è un torrente sotterraneo quello che attraversa tutto il romanzo dall'inizio alla fine, un torrente appena percepibile, ed è dovuto all'umanitarismo di Collins: quello del conflitto di classe tra dominanti e subalterni, che vede il suo apice simbolico nel sacrificio di Rosanna Spearman.


Ma la piena certezza di trovarci di fronte a un grande capolavoro, l’abbiamo con il contributo testimoniale di Franklin Blake, attraversato da un tragico crescendo. È il colpo di genio di Wilkie Collins, che ci sorprende e ci fa impallidire. E il romanzo diventa molto più che avvincente.

Se la soluzione arriva dall’acume del sergente Cuff, tuttavia il vero deus ex machina è un altro: un misterioso e commovente personaggio solitario.

La storia può concludersi così con la giusta ricomposizione.

domenica 19 novembre 2023

"L'Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari" (1962) (quarta parte)


 STORIA DELL’ANARCHIA quarta parte


George Woodcock, "L'Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari"  (1962)


[Recensione, quarta parte]


Il movimento (1):

Iniziative internazionalistiche, L’Anarchia in Francia, L’Anarchia in Italia


Prima parte 


Seconda parte


Terza parte 


Iniziative internazionalistiche 


«L’umanità è una, soggetta a una stessa condizione, e tutti gli uomini sono eguali. Ma tutti gli uomini sono diversi, e anzi ciascuno di loro, nell’intimo del suo cuore, è un’isola. Gli anarchici hanno sempre avvertito con particolare acutezza questa dualità di uomo universale e uomo particolare, e buona parte del loro pensiero è stata consacrata alla ricerca di un equilibrio fra la necessità di una generale solidarietà umana e i diritti dell’individuo libero.»


Gli anarchici non sono mai stati ossessionati dalla forma organizzativa, proprio per l'essenza stessa dell'anarchia che ha in odio ogni tipo di gerarchia. Solo i piccoli gruppi hanno avuto in qualche modo successo, e solo nell'anarcosindacalismo si sono avuto esempi significativi, durevoli ed efficienti di organizzazione di massa.


Proprio per questo insuccesso organizzativo soprattutto a livello internazionale, per la difficile conciliazione tra solidarietà umana e libertà individuale, Woodcock preferisce parlare di movimento e concentra la sua attenzione su questo aspetto. Quello che inizialmente prese la forma di fratellanza internazionale ideata da Bakunin, si ramificò, poi in movimenti  nazionali con le loro specificità e la loro storia.


Il primo atto della storia fu rappresentato dalla battaglia dei mutualisti proudhoniani in seno all'internazionale socialista e che diede inizio al lungo conflitto tra libertari e autoritari. I proudhoniani si trovarono ad affrontare nel concreto sia i marxisti sia i tradunionisti, che i collettivisti francesi. 

Poi, l'arrivo di Bakunin sancì un nuovo atto, con il conflitto con Marx di cui ho accennato nella terza parte.


Nel rifiuto dell'autoritarismo, si consumò lo scisma in seno all'Internazionale. Bakunin ottenne un successo superiore alle aspettative, andando oltre l'adesione nel 1872 alla nuova Internazionale, detta di Saint-Imier, prevalentemente anarchica, portandosi dietro anche membri che anarchici non erano e che mal sopportavano l'autoritarismo di Marx.

Tuttavia, quella di Saint-Imier non assunse subito un carattere specificatamente anarchico, ma si formò attorno alla necessità del rifiuto del centralismo marxista.


«La visione marxista di uno stato operaio era apertamente denunciata: “…nessuna organizzazione politica può essere altro che un’organizzazione di potere negli interessi di una classe e a detrimento delle masse, e… il proletariato, se riuscisse a conquistare il potere, diventerebbe una classe dominante, una classe sfruttatrice.” Sulla base di questi principi il Congresso adottò una risoluzione anti-politica, in cui si dichiarava che “la distruzione di qualsiasi tipo di potere politico è il primo compito del proletariato.”»


Il Congresso Universale sancì la definitiva rottura. Le divergenze tra anarchici e autoritari erano troppo profonde. I primi furono emarginati.

Nel frattempo, anche l'Internazionale di Saint-Imier, quella antiautoritaria, andò disgregandosi rapidamente, riflettendo su di essa tutte le divisioni. Non fu mai sciolta ufficialmente, ma dal 1877 non fu più convocata.


Nel 1881, ci fu un nuovo tentativo. E a Londra venne convocato un congresso di una nuova Internazionale, stavolta interamente libertaria, al quale parteciparono tra gli altri: Kropotkin, Malatesta e Merlino.

«La varietà di atteggiamenti che caratterizzò gli anarchici della fine del diciannovesimo secolo era già evidente al Congresso di Londra. Alcuni fra i delegati pensavano che il movimento dovesse agire nella clandestinità; altri, come Kropotkin, sostenevano che la rivoluzione deve sempre prendere l’avvio da un vasto e spontaneo moto popolare. L’idea della propaganda mediante i fatti e il problema della violenza rivoluzionaria nei suoi vari aspetti furono ampiamente discussi. Pare che più o meno tutti fossero d’accordo sulla generale inevitabilità della violenza (non esisteva ancora in seno al movimento anarchico una corrente pacifista), ma non sulle sue forme estreme.»


Ma nei fatti il congresso concluse ben poco. 

Bisognerà aspettare un quarto di secolo, nel 1907, per vedere un nuovo effettivo congresso. Il movimento anarchico in quel lungo periodo tra i due congressi, fu, infatti, caratterizzato da un estremo separatismo.

«Il loro quasi completo fallimento si spiega almeno in parte col fatto che tra il 1889 e il 1896 gli anarchici badarono soprattutto a infiltrarsi nei congressi della Seconda Internazionale, dominata dai socialdemocratici.»


Gli anarchici furono espulsi definitivamente dalla Seconda Internazionale, non ottennero nulla se non la conferma dell'intolleranza dei socialisti autoritari.

Ma quello che persero con l'espulsione lo guadagnarono in pubblicità e in simpatia. E soprattutto, acquisirono una vittoria non da poco, facendo emergere con grande risonanza, mediante la loro dura battaglia il conflitto tra autoritari e libertari all'interno del socialismo, perché spinsero i marxisti a dimostrare un'intolleranza dittatoriale che alienò loro le simpatie di molti socialisti, soprattutto dei britannici.


Le due ali opposte del movimento socialista non avevano più nulla in comune. Gli anarchici non sarebbero più stati invitati e loro da quel momento in poi si astennero dall'imporre la loro presenza.

Da allora, fino al 1907, gli anarchici privilegiarono i rapporti informali agli sforzi organizzativi. Sapevano tenersi in contatto lo stesso con efficacia anche a livello internazionale. La letteratura anarchica era molto diffusa e molto tradotta. I legami personali funzionavano benissimo su questo piano.


Il congresso del 1907 si svolse ad Amsterdam e fu il più numeroso tra quelli svolti fino ad allora, oltre che delegati dei paesi europei, vi parteciparono anche quelli provenienti dagli Usa, America Latina e Giappone. Fu dominato dalla figura carismatica di Enrico Malatesta. Considerato l'alto livello intellettuale dei delegati, fu uno dei più vivaci e fruttuosi, a causa della grande diffusione del sindacalismo rivoluzionario e delle teorie anarchiche.


In tale contesto, si inserì la polemica tra Montate e Malatesta sul sindacalismo anarchico. Mentre Montate vedeva in esso non solo un mezzo, ma anche un fine per una nuova società; Malatesta, lo vedeva solo come un mezzo.

«I sindacalisti estremisti, secondo Malatesta, cercavano un’illusoria solidarietà economica invece di una vera solidarietà morale; ponevano gli interessi di una sola classe al di sopra del vero ideale anarchico di una rivoluzione il cui scopo era “la liberazione completa di tutta l’umanità, oggi schiava sotto il triplice rispetto economico, politico e morale.”»


Una risoluzione importante, anche se assai vaga, fu quella che collegava la lotta antimilitarista con la lotta antiautoritaria. Risoluzione che puntava tutto sull'autodeterminazione dei singoli individui e l'autorganizzazione spontanea dei singoli gruppi. 

Tale fu quindi anche la natura dell'Internazionale antiautoritaria, il cui compito fu solo quello di essere punto di collegamento tra i vari gruppi anarchici dei vari paesi. Ma nel 1911 cessò ogni attività, senza aver convocato più alcun congresso, al contrario di quanto ci si fosse ripromessi di fare nel 1907.


Nonostante il tentativo nel 1914 di gruppi anarchici ebrei londinesi, null'altro fu fatto fino allo scoppio della guerra che sancì anche lo scisma tra interventisti e pacifisti. Quello di Amsterdam rimase fino al tempo di Woodcock, il loro ultimo incontro importante a livello internazionale.


L'anarcosindacalismo, invece, dimostrò per lungo tempo una fervente attività, anche tramite la fondazione di una sua specifica Internazionale. Erano maggioranza in molti paesi all'interno dei movimenti rivoluzionari in Europa, cosa che portò persino i bolscevichi ad invitarli nel 1920 al congresso del Komintern, insieme all'I.W.W. 

Ma considerata la natura opposta delle due maggiori componenti del movimento socialista rivoluzionario, e i conflitti  conseguenti, la rottura non tardò ad arrivare. Nel 1922, quasi tutte organizzazioni anarco-comuniste interruppero i rapporti con i bolscevichi.


Cosicché nello stesso anno si riunì un grande congresso anarcosindacalista, con rappresentanti da tutto il mondo. Il congresso decise di fondare un'Internazionale sindacale rivoluzionaria, con i principi base del sindacalismo rivoluzionario e dell'anarchismo ispirato a Kropotkin, con il nome di Associazione internazionale dei lavoratori.

Negli anni successivi si arrivò a circa un milione di aderenti in tutto il mondo, e nei suoi momenti migliori a più di tre milioni.


Ma l'avvento dei regimi dittatoriali tra le due guerre, e la conseguente repressione, tagliò loro le gambe, segnarono per esempio difatti la fine dell'Unione Sindacale Italiana, dei movimenti portoghese, argentino e tedesco, ma soprattutto della più grande organizzazione anarchica: la C.N.T. spagnola.


«Guardando indietro alla storia delle Internazionali anarchiche, appare evidente che l’anarchismo puro va contro la propria natura quando tenta di creare complesse organizzazioni internazionali o anche solo nazionali, che per sopravvivere hanno bisogno di una certa rigidezza e centralizzazione. Il gruppo elastico e fluido è l’unità anarchica naturale. Né ha bisogno di un’organizzazione più complessa per assumere un carattere internazionale: nel passato infatti, quando rispondevano a un’esigenza storica, le idee anarchiche ebbero una larghissima diffusione grazie soltanto ad una rete invisibile di contatti personali e di influenze intellettuali. Tutte le Internazionali anarchiche fallirono soprattutto perché non erano necessarie.


Ma il sindacalismo, anche nella sua forma rivoluzionaria, ha bisogno di organizzazioni relativamente stabili e riesce a crearle precisamente perché agisce in un mondo governato solo in parte da ideali anarchici, perché deve tener conto della situazione quotidiana del lavoro e scendere a compromessi con quella, perché deve conservare l’appoggio di masse di lavoratori per i quali gli ideali anarchici hanno solo un interesse remoto. Il relativo successo e la durata della seconda Associazione internazionale dei lavoratori non rappresentano dunque un trionfo dell’anarchia; essa è piuttosto il momento di un periodo in cui alcuni anarchici impararono a scendere a compromessi con le realtà di un mondo pre-anarchico.»



L’anarchia in Francia 


È alla Francia che spetta il posto d'onore come nazione che vide maggiormente lo sviluppo del concetto di anarchia, non solo perché fu il paese di Proudhon, ma perché fu lì che le diverse tendenze furono sperimentate in maniera così approfondita: mutualismo, anarcosindacalismo, individualismo estremista, espressioni artistiche. E conobbe il suo apogeo alla fine del XIX secolo.


Dal 1848, ci dice Woodcock emersero tre figure di anarchico, il cui percorso prescindeva da quello di Proudhon, tre personaggi potenti e avvolti nel mito, e con questi inizia l'autore il suo capitolo sulla Francia. 

Anselme Bellegarrigue, anarchico individualista, il cui pensiero ha molte analogie con quello di Stirner e in parte con quello di Proudhon, ma anche con le idee di Thoreau sulla disobbedienza civile.


Al contrario di Proudhon, Bellegarrigue, Ernest Coeurderoy e Joseph Dejacque, che pare sia stato il primo ad aver usato il termine "libertario", parteciparono materialmente alla rivoluzione del 1848. Ebbero in comune lo spirito visionario e disperato della rivoluzione distruttiva, immaginata come una sorta di Armageddon, ma le idee di base furono le stesse di Proudhon e Kropotkin. 


In Dejacque fu addirittura eccessivo il fervore violento e distruttivo, estremizzando le posizioni di Proudhon, e anticipando quelle di Nečaev. Fu ideatore della mistica, singolare utopia millenaria e fantascientifica dell'"Humanisphere" ("Umanisfera"), fortemente ispirata a Fourier, talmente assurda, a mio parere, da avere l'aspetto di una distopia, come molto spesso le costruzioni utopiche rivelano di essere. 


A parte questi tre singolari personaggi, la prima forma di anarchismo che prese piede in Francia fu il mutualismo proudhoniano. All'incirca dopo il 1860, stava emergendo, influenzato dall'Internazionale, un movimento operaio assai considerevole dominato dalle idee di Proudhon, che legò il suo destino alla stessa internazionale caratterizzata prevalentemente dal pensiero anarchico.


Ma nel 1868, con il reclutamento di gruppi operai organizzati la tendenza si spostò da mutualismo al collettivismo di Bakunin.

Ovviamente gli internazionalisti parteciparono alla Comune di Parigi del 1871, ma con un peso molto relativo.

Alla caduta della Comune nel 1872, arrivarono la proibizione di tutte le attività socialiste e la messa fuorilegge dell'Internazionale, cosa che costrinse per un decennio gli anarchici e i socialisti ad un'attività clandestina, con la fuga, la deportazione e la morte di tanti internazionalisti.

Gli esuli continuarono la lotta all'interno dell'Internazionale di Saint-Imier. 


«Sarebbero passati parecchi anni prima che riapparisse in Francia un movimento anarchico identificabile come tale; e quando questo sarebbe accaduto, gli anti-autoritari non avrebbero più rappresentato la forza dominante nel socialismo francese. Quegli anni videro infatti la nascita di movimenti orientati politicamente, e per bizzarra ironia i loro leaders più importanti vennero dalle file degli anarchici.»


Dopo un decennio di clandestinità, di conflitti e di scontri all'interno del movimento socialista, gli anarchici francesi si separarono dagli altri nel 1881. 

Nello stesso anno si tenne il congresso dell'"Internazionale Nera", che confermò il fatto che l'anarchia era ormai un movimento a sé.

Nel decennio 1880 si presume ci fossero in media tremila militanti anarchici in tutta la Francia. Ma il prestigio del movimento era ben superiore alla sua consistenza numerica.


«Bisogna inoltre ricordare che gli anarchici francesi accoglievano nei loro gruppi soltanto uomini e donne disposti a partecipare alla regolare attività di propaganda mediante scritti, discorsi o fatti.»

Dal 1880 al 1900 ci fu un periodo caratterizzato dalle violenze e dal terrorismo di un'esigua minoranza, ma che esercitò un terribile fascino, anche grazie a qualche agente provocatore, di cui il, più famoso fu Serreaux.


«… tutti gli atti terroristici di anarchici francesi sarebbero stati atti individuali o compiuti al massimo da tre o quattro persone, spinte da decisioni personali e non di gruppo. In questo senso il terrorismo francese di distinse nettamente da quello russo; in Russia infatti quasi tutti gli assassini politici furono l’opera di gruppi organizzati nel partito socialista rivoluzionario.»


Su questa atmosfera di violenze e attentati, speculò il governo francese con una serie di processi, nei quali fu coinvolto pure Kropotkin, atti a manipolare la giustizia per fini di convenienza politica, in cui molti militanti anarchici furono condannati in base a debolissime prove. La conseguenza di questa repressione fu di togliere dalla circolazione gli elementi più attivi e intelligenti. Dovettero però essere rilasciati presto e il prestigio del movimento anarchico aumentò.


Nella Francia fin-de-siècle l'anarchia divenne popolare anche tra gli artisti e tra gli scrittori. Quasi tutti i simbolisti ebbero rapporti con l'anarchia nel suo aspetto letterario. Erano attratti dallo spirito di ricerca e dall'audacia intellettuale. 

La deriva violenta e terroristica che attraversò gli ultimi anni del XIX secolo fu in qualche modo dovuta all'isolamento e alle teorie che volgevano sempre più verso lo stirnerismo. I terroristi furono giovani isolati, anche in qualche modo ammirati, ma rarissimamente emulati.


«Molti dei loro compagni anarchici li applaudirono, addirittura li esaltarono come martiri, ma per la maggior parte si rifiutarono di imitarli. In questa riluttanza ad imitarli avevano ragione, dal loro punto di vista anarchico, giacché l’assassinio è la forma suprema del potere e il terrorista che uccide su responsabilità propria è certamente il più irresponsabile dei tiranni; l’atto dell’assassinio completa un circolo che unisce l’anarchismo con il suo opposto. Si può provare rispetto per l’onestà d’intenzioni di questi uomini, ci si può commuovere sulla tristezza della loro sorte, ma le loro azioni rimangono negative come qualsiasi altro assassinio. Ciò non toglie che lo storico dell’anarchia debba tener conto di loro e non possa liquidarli come semplici intrusi; hanno diritto ad un posto, non foss’altro che per la tragicità della loro sorte.»


Tutto ciò generò la reazione di una stretta repressiva con leggi specifiche che puntavano anche a punire i reati di opinione.

Si arrivò così al cosiddetto Processo dei Trenta, che vide oltre ad alcuni "illegalisti", accusati di specifici fatti criminosi, salire sul banco degli imputati anche noti teorici, colpevoli solo per aver divulgato le teorie anarchiche.


«Nonostante che i giudici fossero chiaramente prevenuti, l’inesistenza dei rapporti che l’accusa aveva cercato di stabilire fu facilmente dimostrata, e gli unici condannati al carcere furono Ortiz e due suoi compagni. La sentenza di assoluzione per i leaders anarchici autentici segnò la fine non solo del periodo di terrorismo ma anche della reazione che l’aveva seguita.»


Dal 1894 al 1914, l'anarchismo in Francia si risollevò, affrancandosi quasi del tutto dal terrorismo e della violenza, con le sole eccezioni della banda Jacob e della famigerata banda Bonnot,composta da neo-stirneriani.

Dimostrò una grande sorprendente vitalità in campo teorico e anarcosindacale, fino alle comuni, la cui sperimentazione di una vita futura fu al centro della loro ragion d'essere.


Insomma, la storia dell’anarchia in Francia alla fine del XIX in poi, fu per lo più storia dell’anarcosindacalismo, e soprattutto della sua presenza nella C.G.T.

«Agli occhi del sindacalista rivoluzionario, l’azione può essere violenta o no; può assumere la forma di sabotaggio, di boicottaggio o di sciopero; la sua forma più alta è lo sciopero generale, che l’anarcosindacalista considera un mezzo per rovesciare non soltanto il capitalismo ma anche lo stato e per instaurare l’ordine nuovo, libertario. Questa dottrina confermò gli anarchici nel tradizionale ripudio dell’attività politica, giacché il sindacato sembrava offrire un’alternativa pratica al partito politico, e lasciò intatto il loro odio per lo stato, la chiesa e l’esercito, che essi vedevano sullo sfondo come sostenitori del nemico diretto, il capitalista.»


Con la Prima Guerra Mondiale iniziò il declino dell’anarchismo francese, sia della sua componente anarcosindacalista, che di quella individualista, un declino graduale, ma definitivo. Soprattutto a causa della dirompenza che ebbe sui movimenti rivoluzionari la Rivoluzione Russa.

«L’anarchismo francese non scoprì strade nuove: si contentò di seguire con diminuito vigore quelle aperte negli anni fecondi dopo il 1894. Con il declino dell’importanza della categoria artigianale, non s’intonava più agli umori della classe lavoratrice francese; sopravvisse tuttavia, soprattutto grazie al fascino che la logica delle dottrine estreme esercita su un certo tipo di francesi, a qualunque classe sociale appartengano.»


Non riuscì neanche ad essere rivitalizzato dalla presenza di anarchici di grande spessore provenienti dall’estero, rifugiati in fuga dalla Russia, dall’Italia, dalla Germania e dalla Spagna, perché erano solo ospiti di passaggio.



L’anarchia in Italia 


«La tendenza dei movimenti anarchici ad assumere caratteristiche locali è particolarmente evidente in Italia, dove l’atteggiamento rivoluzionario del periodo risorgimentale fu uno tra i fattori dominanti del movimento libertario. I primi anarchici militanti furono ex mazziniani o ex garibaldini; sotto la monarchia dei Savoia l’anarchismo condusse per molto tempo lo stesso tipo di esistenza clandestina dei movimenti repubblicani nei primi decenni del diciannovesimo secolo, e le tradizioni Carbonare, di cospirazioni, insurrezioni, imprese spettacolari, contribuirono a determinare i modi d’azione degli anarchici.»


Woodcock afferma che la particolarità dell'anarchismo italiano fu da subito quella di scegliere di organizzarsi in maniera decentrata e che il movimento libertario italiano fu intimamente legato ai moti risorgimentali, seguendone lo sviluppo.

Primo esponente di spicco del pensiero libertario fu Carlo Pisacane. Famosa la sua polemica con Mazzini sul carattere della futura rivoluzione.

Il suo pensiero fu profondamente ispirato da Proudhon ed ebbe molte affinità con quello di Bakunin. Fu anche  il primo libertario italiano a promuovere il collettivismo.


Per lui lo scopo della rivoluzione doveva essere non lo stato centralizzato, ma l'anarchia così come l'aveva concepita Proudhon. 

«Ma forse il più sorprendente legame fra l’anarchia e le tradizioni del primo Risorgimento è la difesa, da parte di Pisacane, di quella che sarebbe poi diventata la “propaganda del fatto.” …La propaganda dell’idea è una chimera [scrisse]… le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero… la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese è quella di cooperare alla rivoluzione materiale; epperò cospirazioni, congiure, tentativi ecc., sono quella serie di fatti attraverso cui l’Italia procede verso la sua meta. Sarebbe facile scrivere la storia del movimento anarchico in Italia come storia dei tentativi compiuti per tradurre in atto la dottrina così enunciata.»


Pisacane, pur influenzando molto il libertarismo futuro, non lasciò in eredità alcuna forma organizzativa, neppure movimentista.

Il movimento anarchico in Italia iniziò di fatto formalmente, sostiene Woodcock, soltanto con l’arrivo nel nostro paese di Bakunin.

Il suo arrivo coincise con la sua conversione all'anarchia e da quel momento anche in Italia si formalizzò l’adozione di un movimento tramite la Fratellanza fiorentina, che anticipò di poco la nascita della Fratellanza internazionale. 


Le caratteristiche di rudimentale movimento organizzativo, anche molto centralizzato (a quell'epoca, Bakunin e i suoi erano ancora inclini a certo autoritarismo) ne segnò l’effimera durata, troppo era legato alla presenza e al carisma dell'anarchico russo; e solo nei primi mesi del 1869 iniziò ad affermarsi in Italia un movimento anarchico influente. 

Inizialmente, il movimento si diffuse nel Mezzogiorno, per poi estendersi più  tardi nel resto d'Italia.


Nel 1870 arrivò a contare all'incirca 4.000 membri, ma la repressione e l'infiltrazione con agenti provocatori ne segnò il declino.

Il movimento si riprese, tuttavia, nel 1871 con l'emergere di tre figure che saranno fondamentali per lo sviluppo dell'anarchia in Italia: Carlo Cafiero, Enrico Malatesta e Carmelo Palladino, tutti e tre meridionali. 


I tre, giovani di buona famiglia, rifiutarono le idee di Mazzini, che invecchiando, si stava rivelando sempre più conservatore, si rivolsero quindi a Bakunin, e ricostituirono la sezione dell'Internazionale nel Mezzogiorno. 

Nel frattempo Bakunin «rendendosi conto che l’anarchismo in Italia era ad una svolta critica, mise mano ad un saggio molto più ampio, intitolato La teologia politica di Mazzini e l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, apparso nell’autunno del 1871.»


«Effetto immediato di queste polemiche fu l’espansione dell’organizzazione internazionalista, che cominciò ad allargarsi dal Mezzogiorno a quelle che sarebbero state poi le sue roccaforti in Toscana, in Romagna e nelle Marche.»

Nel decennio tra il 1870 e il 1880 si sviluppò quella che divenne poi l’egemonia anarchica all'interno del movimento socialista italiano, grazie all'influsso esercitato dalle idee di Bakunin. I marxisti per lungo tempo restarono marginali e scarsamente influenti. Ma il peso dell’anarchismo italiano si riflesse anche in seno all’Internazionale.


Nel 1872 il centro del movimento anarchico italiano divenne Bologna anche grazie al grande lavoro organizzativo del giovane Andrea Costa. 

Costa, con Cafiero e Malatesta divennero i tre leader carismatici del movimento antiautoritario italiano, destinati ad avere un grande ruolo nel futuro del movimento stesso.


Quel decennio fu caratterizzato anche dalla rottura con la Prima Internazionale, la Federazione Italiana fu la prima ad avviare la scissione, non partecipando al congresso dell’Aja, questo anche a conferma della loro coerente i riducibile adesione alle posizioni bakuniane. Contemporaneamente, aumentò sempre più il loro peso sia internazionale che nazionale, tanto da allertare il governo italiano che, con l’arresto dei tre esponenti di spicco, tentò di frenare il suo espandersi e di distruggere il movimento. Ma ottenne l’effetto opposto, attirando nuove adesioni. Nel 1874, arrivò a contare ben 30.000 membri.


Quello fu il periodo in cui gli anarchici italiani posero fine alla serie di congressi, per dar vita alla cosiddetta “propaganda dei fatti”, che portò alla progettazione di una serie di tentativi di insurrezione, soprattutto a Bologna che doveva,  esserne l’avanguardia. Fu dappertutto un fallimento sia per la scarsa adesione, sia per la reazione poliziesca e dell’esercito. 

Ideata dagli anarchici italiani, questo tipo di propaganda fu destinata ad avere grande diffusione nel decennio successivo in tutta Europa.


Dopo un periodo di repressione, il movimento anarchico riprese vigore e tentò di nuovo di rivitalizzare un programma insurrezionale, passando dal bakunismo al comunismo anarchico, e sotto la guida di Cafiero e Malatesta, diede vita alla singolare esperienza della rivolta di San Lupo, villaggio nel Matese, nella zona dei monti vicino a Benevento. Anche questa insurrezione si rivelò goffamente fallimentare.


«Questo misero e comico tentativo può essere assunto a simbolo di tutti gli sforzi anarchici di conquistare alla causa la classe contadina italiana: diversamente dai lavoratori dei campi della Spagna meridionale, quelli dell’Italia meridionale si rivelarono refrattari al messianismo libertario, e in Italia l’anarchismo doveva rimanere un movimento limitato quasi esclusivamente alle città minori.»


Seguì un altro periodo di repressione e, nonostante, i proclami bellicosi che invitavano all'insurrezione nazionale, il movimento anarchico andrò in crisi, anche per l’atmosfera di terrore causata da una serie di attentati, tra cui il tentativo di Giovanni Passante contro re Umberto. Ma soprattutto per la defezione dei tre leader. Cafiero e Malatesta erano in esilio; mentre Andrea Costa dopo un periodo di reclusione, ruppe con l’anarchismo per passare nelle fila del socialismo parlamentare e negli anni successivi fu tra i fondatori del Partito Socialista.


«Tutti i membri dell’élite anarchica, ex compagni di Costa, condannarono la sua defezione. Ma almeno uno di loro, Cafiero, seguì più tardi il suo esempio; nel marzo 1882 pubblicò inaspettatamente, a Milano, una dichiarazione in cui esortava gli anarchici italiani a passare alla socialdemocrazia, e poco dopo sostenne le candidature di socialisti parlamentari. Gli ex amici trovarono però una spiegazione caritatevole di quest’apostasia quando, nella primavera del 1883, Cafiero fu sorpreso a vagare nudo per le colline intorno a Firenze; non recuperò mai più l’equilibrio mentale, e morì nel 1892 in manicomio, ossessionato dall’idea che le finestre della sua stanza gli dessero più della sua giusta quota di sole.»


L'anarchia in Italia, nell’ultimo ventennio del XIX secolo, era destinata al declino sia per le vicende di Costa e Cafiero, ma soprattutto per il generale slittamento del proletariato verso il socialismo parlamentare.

«L’anarchismo in Italia era mantenuto in vita quasi soltanto dall’attività fenomenale di pochi individui, come Merlino e Malatesta, le personalità di maggior rilievo negli ultimi due decenni del secolo. I gruppi esistenti si scioglievano rapidamente, o i loro membri cambiavano: non soltanto a causa delle persecuzioni del governo, ma anche perché molti anarchici, come tanti loro compatrioti in quegli anni, emigravano in paesi che offrivano loro la possibilità di una vita migliore.»


Nonostante che alcuni anarchici italiani si resero tristemente noti quali protagonisti fanatici di una serie di assassini a governanti e regnanti, la maggior parte di loro si distinsero all’estero perché continuarono, quasi fosse una missione, un’infaticabile attività politica più dei loro compagni di altre nazioni, giocando una parte di primo piano nella diffusione delle idee. I primi gruppi anarchici in diversi paesi furono italiani. Fondarono addirittura delle comunità. Un ruolo in questo senso lo svolse soprattutto Malatesta, intellettuale di notevole profilo, che scelse di vivere in modo precario per dedicarsi completamente alla causa.


Woodcock dedica molto spazio alle vicende biografiche di Enrico Malatesta, che ebbe una vita a dir poco spericolata. Da quello che scrive trapela tutta la sua stima per quello che fu il personaggio più rappresentativo dell'anarchismo italiano, la cui vita fu in buona parte parallela a quella del movimento libertario non solo nel nostro paese.

Anche in Italia, la corrente sindacale ebbe il peso maggiore. Contribuì prima alla formazione della CGL, la Confederazione Generale del Lavoro, sulle orme della CGT francese, e poi alla scissione, con la fondazione dell'anarcosindacato USI, Unione Sindacale Italiana.


«Frattanto, nel 1913, Malatesta era tornato in Italia nella speranza di ridare vita al movimento anarchico ortodosso, così da opporsi alla crescente influenza dei sindacalisti.»

Contribuì ai moti e alle proteste di quegli anni e alla “settimana rossa”.

«Tornando alla fine del 1919 da Londra, dove aveva trascorso gli anni del conflitto, Malatesta fu acclamato come un eroe popolare, e nel 1920 fondò a Milano il primo quotidiano anarchico italiano, Umanità nova.»


Sembrava che una nuova stagione di lotte stesse per aver inizio, quando un'onda di scioperi attraversò l'Italia, ma, prima la moderazione della CGL e poi, nel 1921, un terribile attentato ordito dagli individualisti, in cui perirono ventuno persone, gettò un enorme discredito sul movimento anarchico, e l'occasione ai fascisti per le loro rappresaglie violente.


Con l'avvento del regime la repressione si fece più dura, tutte le organizzazioni anarchiche e l'USI furono soppresse.

«Solo Malatesta, benché tenuto d’occhio dalla polizia, non ebbe a soffrire persecuzioni dirette; morì nel 1932, ottantaduenne. Forse v’era qualche sincerità nelle frequenti manifestazioni di rispetto di Mussolini, rivoluzionario rinnegato, verso di lui; o forse lo salvò — com’era stato il caso di Tolstoj — la fama mondiale che le sue imprese gli avevano guadagnato. Rimase il simbolo, in Italia, di un movimento i cui altri rappresentanti attivi vivevano fuori dal raggio del terrore fascista, in esilio.»


[Prossima puntata: quinta e ultima parte: Il movimento (2): L’Anarchia in Spagna, L’Anarchia in Russia, Tradizioni diverse, Epilogo]

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