martedì 28 febbraio 2023

Leonardo Sciascia "La scomparsa di Majorana" (1975)


CONSIGLI DI LETTURA

Leonardo Sciascia
"La scomparsa di Majorana" (1975)

Ottima recensione di un libro davvero importante, scritta dall'amica Grazia Sordi, che ringrazio per aver accettato di essere ospite sul mio blog.

Fu un'esperienza formativa a contatto con la disabilità grave a farmi realizzare quanta difficoltà ci si porta appresso nella condizione di "essere normale". Dopo aver letto questo testo, quel pensiero trasferito all' "inconveniente" di essere dei geni, mi sovviene in modo amplificato. Si tratta della difficoltà intimamente legata al sentire e doversi assumere responsabilità, la quale è proporzionale alle personali capacità, nonché a determinate condizioni. 

Ettore Majorana a differenza di molti che usano la propria genialità o talento per esclusiva autoaffermazione, era di ciò talmente consapevole da esserne con ragione, per le implicazioni dei suoi studi, spaventato.
Sembra qui di poterlo osservare, quando all'età di 3-4 anni, per la soddisfazione dei parenti, risolve estrazioni quadrate o moltiplicazioni tra numeri di tre cifre nascondendosi sotto un tavolo: la stessa ritrosia si ritroverá quando ormai adulto avrà da confrontarsi con il gruppo di fisici di via Panisperna. 

"Come tutti i siciliani buoni, quelli migliori, egli non era portato a far gruppo e stabilircisi ( sono i siciliani peggiori che hanno il genio del gruppo, della "cosca")".

Distaccato, scontroso, diffidente nutriva un senso di estraneità da cui scaturita con Fermi e il suo gruppo, un certo antagonismo. Per loro tuttavia la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura, loro volevano possederla, egli forse senza amarla ne portava il peso, tentava quindi di sottrarsi all'"opera", giocando con il tempo in continui rimandi, dilatandolo il più possibile. 

Anche per ciò, come animato dal piglio di un prestigiatore, " si divertiva a versare per terra l'acqua della scienza sotto gli occhi di coloro che ne erano assetati".
Non "collaborante", la sua storia esprime quel malessere esistenziale che nasce da una fede perduta in un mondo ancora leggibile e governabile attraverso categorie umane. 
È così che Sciascia in questo libro  magnifico,  intenso,  drammaticamente teso verso la verità, costruisce la suggestione di una volontaria fuga dal mondo, da quei terribili destini che una mente straordinariamente acuta e sensibile deve aver premonito. 

"E quando con l'andare del tempo, avrete scoperto tutto lo scoprirle, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dell'umanità. Tra voi e l'umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale" 
Bertol Brecht - Vita di Galileo

Grazia Sordi

lunedì 27 febbraio 2023

Jasper Fforde "Il caso Jane Eyre" (2001)


CONSIGLI DI LETTURA
 

Jasper Fforde

"Il caso Jane Eyre" (2001)


Ci sono romanzi che sembrano fatti apposta per piacere a tutti: divertenti, intelligenti, ironici, fantasiosi, intriganti e con un'ottima prosa. Ma la maggior parte di questi è tendenzialmente segnata dal compromesso. Un compromesso che in qualche modo toglie loro qualcosa, vuoi in originalità o in profondità.

"Il caso Jane Eyre", primo volume di una serie, invece, oltre a contenere tutte le caratteristiche elencate, non concede nulla in termini di compromesso.


A me sembra, in definitiva, difficile non essere intrigati dal fascino di questo libro, i cui ingredienti si amalgamano talmente bene, che il prodotto finale sfugge a qualsiasi catalogazione certa.

Come definire infatti un romanzo in cui la storia si svolge in un 1985 parallelo, dove la Guerra di Crimea non è mai finita e dura ininterrottamente dalla metà del XIX secolo, data reale di inzio, così come anche sui nostri ufficialissimi libri di storia è scritto? Forse, qualcuno potrebbe obiettare che oggi rischia di ricominciare. In effetti, un'altra chiave di lettura, tra le tante, potrebbe essere questa: un conflitto in quell'area mai realmente finito.


Ma non è solo ucronia. Nel libro si raccontano le vicende di un agente speciale, una donna dal nome di Thursday Next, cioè Giovedì Prossimo, che fa parte di un'unità speciale detta "DLett" e che si occupa di crimini letterari. Si, perchè in questo 1985, in Inghilterra, il bene più prezioso sono i libri, ma non libri qualunque, anche se questi hanno un posto di enorme rilievo, ma i manoscritti originali di qualsiasi opera letteraria.


Thursday ha poi uno zio, chiamato Mycroft (sì, proprio come il fratello di Sherlock Holmes), inventore pazzo, e un padre CronoGuardia eretica che viaggia nel tempo, e che ha la capacità, al suo apparire, di fermare il tempo stesso, tranne che per la figlia. E poi c'è un supercriminale, novello Fantomas, dal nome di Acheron Hades (Acheronte Ade), nemico giurato della nostra eroina.


E non finisce qui, i movimenti politici sono stati sostituiti da quelli artistici, che spesso inscenano manifestazioni di piazza in cui si scontrano tra loro e con le forze dell'ordine.

E' un mondo controllato da una socitetà privata dal nome molto esplicito di Goliath, in cui la guerra ultra centenaria determina molte delle relazioni sociali e in cui molti dei nostri vizi sono rappresentati sotto mentite spoglie, ma in maniera perfattamente chiara.


Ma il dato più significativo che dà anche lo spunto più originale all'intero romanzo è la possibilità concessa ai personaggi di entrare ed uscire dalle opere leterarie, siano essi personaggi "reali", che protagonisti delle opere letterarie stesse, con evidenti presumibili sviluppi.


Non conta quindi appurare se "Il caso Jane Eyre" sia un romanzo di storia parallela, un'ucronia, un'opera steam punk, una detective story, una satira sociale, un romanzo fantastico. E', ovviamente un pò di tutto questo messo insieme. Quel che conta veramente è che Jasper Fforde, scrittore britannico, abbia saputo scrivere un libro divertente ed intelligente, con una trama senza precedenti, con brio ed estro indubitabili. La cosa che conta sopra ogni altra, è che questo è un romanzo dove, anche se con leggerezza, si parla di letteratura. Anzi, dove la letteratura diventa uno dei protagonisti principali delle vicende narrate.


Conta, per finire, il fatto che è un libro divertente, senza dovere pagare lo scotto di trovarci di fronte a qualcosa di superficiale e insensato, perché è un'opera di una fantasia incredibile e nonostante tutto di perfetta linearità e coerenza narrativa. Basterebbero, infatti, un paio di spunti contenuti in questo romanzo per rendere appetibile qualsiasi storia.

domenica 26 febbraio 2023

Cancel culture e censura


Riflessioni

Cancel culture e censura 

In realtà, la cancel culture è sempre esistita. Si chiama semplicemente censura e la usano da sempre tutti i regimi più o meno dispotici, ma anche quelle democrazie che sono soggette alle pressioni del bigottismo religioso e di poteri economici, scientifici e internazionali, più o meno occulti, ma sicuramente estranei e contrari al libero pensiero.

Finora, le motivazioni sono state sempre "edificanti". Anche oggi, con la cancel culture, lo sono, con la differenza che vengono imbellettate con la battaglia per la difesa delle minoranze e contro le discriminazioni, mistificandone la necessità tramite una presunta lotta al potere, e acquisendo così per la prima volta una piena legittimità culturale, "democratica", progressista, di ribellione dal "basso" e tutt'altro che oscurantista, senza mai doversi nascondere. Tale fenomeno è, quindi, in perfetta armonia con il percorso di degenerazione totalitaria in corso e di capovolgimento orwelliano, soprattutto nel mondo occidentale.

Ma attenzione, lo sdoganamento così pervasivo e così geograficamente esteso, potrebbe portare, come non secondaria conseguenza, al consolidamento di una prassi e di strumenti, di cui sarebbe naturale servirsi, a prescindere dal potere egemone in un dato momento e in un dato contesto, e a prescindere dalle "edificanti" motivazioni. Per questo ha senso ricordare che significato ha la censura, non solo in passato, o ha, in particolar modo, in contesti attuali diversi dal nostro.

In questo caso potremmo assistere, come è, appunto, sempre accaduto nella storia (ne abbiamo già un esempio sull'uso delle misure emergenziali), al fenomeno di trasformazione di molti dissidenti in carnefici, e di un esiguo numero di dissidenti più consapevoli, che rimarranno sempre tali, a prescindere dal "timoniere".

sabato 25 febbraio 2023

La Fortezza di San Leo

Citazioni 

La Fortezza di San Leo

(provincia di Rimini.)

«La sentinella che aveva sparato gridava a sua volta per guidare i cercatori: - Da questa parte... dev'essere caduto da questa parte!... l'ho veduto precipitare io!...

I soldati e i guardaciurma seguivano le indicazioni, balzellando per la costa sdrucciolevole del fossato e sorreggendosi sui fucili e sui bastoni. E intanto dal borgo, destati da quella fucilata, stupiti da quel trascorrere di lanterne e di torce a vento nell'ombra notturna, accorrevano i terrazzani, domandandosi che cosa fosse accaduto. Incendio non era: salvo il fumo delle torce, non v'era altro segno di arsione; assalti impensati di nemici, non era da supporne.

Ancora i repubblicani francesi non osavano scendere dalle Alpi e gli Stati di sua Santità erano tranquilli. Se nelle grandi città, per esempio a Roma qualche anno innanzi, o a Bologna v'erano degli innovatori infatuati di giacobinismo, (pochi, per fortuna della Santa Sede e della religione!) come poteva supporsi che ve ne fossero a S. Leo, in quel piccolo borgo, appollaiato sull'ardua rocca di Montefeltro, sotto la minaccia della formidabile fortezza?

Ma ben presto la verità corse di bocca in bocca. Un prigioniero aveva tentato di fuggire. Come, non si sapeva. La sentinella che passeggiava sulla torre di tramontana aveva veduto un'ombra attraversare la corte, salire e scavalcare la cortina, calarsi lungo il muro. Le aveva gridato l'alt, ma l'ombra si era affrettata a discendere come un gatto; e allora la sentinella aveva fatto fuoco. L'ombra era precipitata nel fosso.

Era evidente che doveva essere un prigioniero. Il muro era alto e il corpo del prigioniero aveva fatto un tonfo. Era vivo? Era morto?

I terrazzani commentando il caso inaudito, salivano per la china sparsa di cespugli che separa il borgo dalla fortezza; si distendevano sul ciglio del fosso guardando i soldati che vi erano scesi e che tenevano alte le fiaccole, per illuminare più lontano che fosse possibile.

A un tratto una voce gridò: -Eccolo! Eccolo!...

Il comandante con un gran sospiro di soddisfazione gridò: - C'è dunque?

— Signor sì, illustrissimo!

— Sia lodato Dio! Chi è? Guardate: chi è il malandrino?...

Al dubbio lume delle torce si vedeva tra i sassi limacciosi raggomitolato e immobile un corpo umano, del quale non si scorgeva il capo, nascosto com'era tra le gambe.

I soldati gli furono addosso; uno di loro, chinatosi, gli sollevò il capo e gridò con stupore:

— È l'eretico!...»

Luigi Natoli, dal romanzo storico biografico "Cagliostro" (1914)

giovedì 23 febbraio 2023

"In The Mood For Love" (2000)


Cult movie

"In The Mood For Love" (2000)

Regia di Wong Kar-Wai

Con Maggie Cheung e Tony Leung


Qual è la vera frontiera dell'amore. E' visibile, individuabile, possiede delle regole certe? Oppure è sfuggente, impossibile e incoerente?


Questi ed altri interrogativi ci pone la visione del bellissimo film di Wong Kar-Wai. Interrogativi vecchi come il mondo e a cui nessuno può dare risposta certa e definitiva, l'amore s'inventa di volta in volta e ad inventarlo sono solo le due anime coinvolte, che tentano di dare dimensione a questa creatura, rendendola nello stesso tempo evanescente.


Ed è proprio l'evanescenza la condizione fisica maggiore che si respira in tutta questa storia, il diffondersi di un senso di precarietà onirica, dove i gesti e le parole appena accennate, gli sguardi intensi, le fughe, il negarsi, danno molto di più la dimensione dell'amore assoluto e contemporaneamente della sua sconfitta, di un qualsiasi semplice e indiscriminato abbandono ai sensi e ai sentimenti. Uno stato d'animo indefinito, ma nello stesso tempo inequivocabile.


Siamo nella Hong Kong del 1962, in quella strana e particolare atmosfera di confine tra occidente ed oriente in cui è assurta la Città all'epoca, quella città, dove tutto sembra possibile, ma nello stesso tempo risulta impossibile. Negli spazi angusti e sacrificati di un condominio, che è invece un appartamento o tutte e due le cose insieme, una sorta di simbolo di quello che è Hong Kong stessa. Un universo unico ma relegato all'interno di confini ben precisi. Una minaccia e un ricatto per tutti i suoi abitanti, ma anche un paradiso, o meglio il sogno e l'illusione di un paradiso.


I due protagonisti creano il loro amore sulla rappresentazione che hanno di un tradimento, o dell'immaginazione di un tradimento, quello della "storia" dei rispettivi coniugi tra loro. Su questo canovaccio tentano, abbozzano e inscenano un dramma fitto di complessi risvolti psicologici, di cenni, di volontà inappagate, di desiderio l'uno per l'altra e per una vita, per un amore che forse si trovano in un altrove non ben precisato. Un amore idealizzato nell'utopia del nulla più completo e che si avvicini in maniera perfetta ed ideale all'amore pieno e assoluto. Dove i ricordi e le sensazioni di questo amore possano dissolversi in quella nebbia degli anni che passano inesorabilmente, e che lo consegni definitivamente il mito più puro, incontaminato ed irripetibile.


Una regia straordinaria, che dona in maniera perfetta un senso al dramma interiore dei due protagonisti, con inquadrature mozzate e incomplete, con colori vividi, ma tenui, con spazi strettissimi e con il ripetersi ossessivo e rituale di alcune situazioni e di alcuni particolari. Tutto ciò per rendere efficacemente la dimensione onirica, il volo sentimentale degli amanti, giocato quasi interamente sulle intenzioni della mente, per rendere percepibile allo spettatore sensazioni e sentimenti vissuti molto, troppo intensamente, ma per questo trattenuti nella limitatezza dei corpi.


Splendida e bravissima Maggie Cheung, di un'espressività rara, con la sua melanconia, portata quasi con distacco, ma con orgoglio. Straordinario Tony Leung, il cui sguardo manifesta tutto lo stupore e a tratti l'impotenza di cambiare il loro mondo e di riuscire ad andare oltre. Oltre i pregiudizi e le costrizioni mentali. Oltre l'amore illogico e incompleto, verso quel paradiso definitivo, ma impossibile.

La Maschera della Morte Rossa


Riflessioni

La Maschera della Morte Rossa

Quando cade una maschera il volto che viene di solito svelato è quello di una nuova apparenza. Potremmo su questo scomodare perfino i filosofi presocratici, ma senza andare troppo lontano nel tempo, possiamo rifarci al concetto pirandelliano delle maschere, oppure, in maniera più suggestiva, pregnante e terribile alla “Maschera della Morte Rossa” di Edgar Allan Poe. Suggestioni filosofiche e letterarie, che funzionano anche come metafora del potere.

Questo, per dire che il potere non svela mai il suo vero volto, offre solo delle apparenze. Ma pure le sole apparenze potrebbero bastare per intuire cosa è davvero in gioco nella nostra realtà. Ma il disvelamento non è affatto cosa facile. Bisogna essere in grado di indagarlo freddamente, senza rappresentazioni illusorie.

Questo valga come premessa a quanto sto per dire.

Pensare all'Occidente e all'Oriente come si faceva nel secolo scorso è un errore fatale di prospettiva. Ma lo è anche pensarlo come si faceva nei primi due decenni del nostro secolo. 

Poi, a cosa serve meravigliarsi se vengono usati strumenti e categorie di analisi obsoleti?

È inutile blaterare di mondializzazione, multipolarismo, World Economic Forum e nuovo mondo distopico, se si resta ancorati a vecchie certezze, riposizionandosi su schieramenti da Guerra Fredda novecentesca.

Ogni analisi che finora ho letto o ascoltato in materia di geopolitica è assolutamente inadeguata, nessuna priva di contraddizioni, proprio perché tutte influenzate dai propri pregiudizi di parte, e, dalla conseguente incapacità di analizzare la complessità, astraendosi dalle narrazioni in corso e guardando il tutto con distacco, da una prospettiva non di campo.

Liberarsi di ciò sarebbe il primo passo da compiere, ma per fare questo, è necessario essere sinceri con sé stessi, prima che con gli altri. Io sto cercando di farlo, ma liberarsi dalle incrostazioni ideologiche è molto doloroso, innanzitutto perché si teme che gli altri non lo facciano, e quindi ci si trincera nei distinguo.

Una cosa è essere nostalgici, è lecito esserlo. Io sono il primo. Altra, è pensare che la nostalgia possa essere il presupposto per poter tornare al Bel Vecchio Mondo Antico. Ed è anche inutile "aggiornare" tali visioni con un po' di cosmesi, anzi, è anche peggio.

Siamo onesti, la complessità della nuova realtà sfugge a tutti. Credo che neanche chi sta nei piani alti sappia esattamente cosa stia accadendo, pur se molti dei loro intendimenti si stanno realizzando nel senso desiderato. Le variabili, però non possono essere del tutto sotto controllo. Perché i conflitti trasversali tra élites, che trascendono spesso la geopolitica, sono imprevedibili anche a loro stessi, lo sono sempre stati, sia negli esiti, che negli sviluppi. 

Conflitti tra loro, dai quali, in questo momento e in prospettiva, siamo esclusi noi (se esiste un noi) e le tanto agognate masse. Ed è, quindi, ridicolo azzardarsi in previsioni e assurdo mettere in piedi progetti politici, che hanno come comun denominatore la coazione a ripetere gli stessi errori fatti negli ultimi cinquant'anni, sarebbe anche necessario liberarsi di personaggi ingessati, litigiosi e narcisi (politici, influencer, capetti), ma questo è forse un altro discorso, perché dovrebbe avvenire "ex ante".

Quindi, un percorso, se esiste un percorso, è molto lungo, bisogna essere consapevoli di questo. Ma per compierlo, è necessario riconsiderare tutto, ma proprio tutto, per evitare di finire nel loop dell'eterno ritorno.

mercoledì 22 febbraio 2023

Jonathan Coe "La casa del sonno" (1997)

CONSIGLI DI LETTURA 


Jonathan Coe

"La casa del sonno" (1997)


A volte, nel fare considerazioni su alcuni libri, mi trovo in notevole difficoltà. Sento che le parole non sono sufficienti, non solo a esprimere un preciso parere sull'opera, ma anche nel descrivere le sensazioni e le emozioni suscitate durante la lettura.


Questo è anche il caso de "La casa del sonno", romanzo dell'inglese Jonathan Coe. Certo, potrei provare a cavarmi d'impaccio riassumendo in poche parole la trama, ma non è nel mio stile, quasi mai faccio, in queste mie annotazioni, accenni espliciti alla trama dei libri che leggo. E poi, anche volendo, la trama stessa è talmente complessa che riassumerla sarebbe un'impresa a dir poco impossibile.


Raramente, nelle mie molte letture, mi sono trovato davanti ad un'opera così piena, avvolgente e avvincente. "La casa del sonno" è innanzitutto un viaggio, un viaggio che si svolge in un arco temporale di circa dodici anni, tuttavia, l'autore si sofferma a descrivere le vicende degli anni posti all'estremo di questo arco, alternando i capitoli dedicati all'uno e all'altro periodo.


A questo romanzo sono particolarmente legato, perché tratta una condizione dell'esistenza che purtroppo conosco fin troppo bene.

Il libro ha l'aspetto di una sinfonia, dove ogni parte costituisce un movimento diverso che porta il titolo delle fasi del sonno. Perché è al sonno che è dedicato questo romanzo. Il sonno come esistenza e concetto psicofisico e filosofico, il sonno che si mischia alla veglia e che produce sogni. Sogni che a loro volta fanno non solo parte integrante della realtà e che spesso non se ne distinguono, ma che contribuiscono anche alla costruzione della realtà stessa.


Il sonno, che ogni personaggio del romanzo vive con prospettiva e atteggiamento diverso, ma tutti più o meno patologicamente. La casa del sonno del romanzo è una casa di cura per le malattie del sonno. Ma è anche un romanzo nel romanzo, un romanzo che per alcuni protagonisti assumerà un valore esistenziale definitivo.


Quella del percorso terapeutico in senso stretto, però, è, per lo più, solo una metafora, la vera malattia è l'esistenza, nella quale non si riesce a trovare un equilibrio sano con quello stato di pseudo incoscienza, che noi chiamiamo sonno. Quindi, c'e' chi ritiene di dormire troppo poco, chi pensa, al contrario, di dormire troppo, e chi, invece, non riesce a dormire bene o addirittura affatto.


Trattiamo il sonno come qualcosa di estraneo alla nostra vita, uno stato di morte apparente, che male riusciamo a conciliare con la nostra quotidianità. Uno stato di animazione sospesa dove il tempo, il luogo e la percezione della realtà mutano radicalmente. Dove, per esempio, gli occhi nel sonno REM assumono tutt'altra funzione, "guardano" in modo diverso. Viaggiamo in un universo parallelo sconosciuto, di cui temiamo le conseguenze.


Da qui le nevrosi connesse al sonno e al riposo, come quelle connesse al controllo del tempo. Durante il sonno siamo più "umani", siamo più fragili e indifesi e non lo accettiamo. E non accettiamo, di conseguenza, che il tempo ci sfugga ancor più sotto le mani, ma paradossalmente a volte, anche per questo, ci rivolgiamo al sonno spinti dalla necessità di fuga spaziale e temporale.


Questa parabola sul sonno porterà alcuni personaggi del libro attraverso un percorso terapeutico del tutto particolare, che condurrà alcuni di loro verso una singolare guarigione, una "guarigione" del tutto inaspettata di pacificazione con se stessi, per qualcuno, e di follia, per qualcun altro.


Ma è anche una storia sui destini incrociati, sui simboli onirici e sull'amore, dove questi elementi si troveranno indissolubilmente legati, seguendo un filo narrativo pieno di colpi di scena, di umorismo e di intensa drammaticità. Il tutto tenuto insieme dal comun denominatore costituito dal sogno. Sogno diverso per ogni attore del romanzo, ma che oscillerà dalla condizione individuale e solitaria, con cui verrà vissuta questa dimensione, fino alla compartecipazione in un disegno comune, che per ognuno in maniera diversa ne costituirà l'epilogo e la catarsi.

lunedì 20 febbraio 2023

Miles Davis "Kind of Blue" (1959)


I Classici del Jazz

Miles Davis

"Kind of Blue" (1959)


Che altro dire che non sia già stato detto su questo disco, una delle opere fondamentali della musica del ventesimo secolo? Un disco che ha influenzato generazioni di jazzisti, ma che ha lasciato la sua impronta anche in molti altri generi musicali. L'album più famoso e uno dei più venduti della storia del jazz.


"Kind of Blue" non è solo l'opera che dà il via al jazz modale, è anche il momento più alto di tutta la carriera di Miles Davis. Una carriera che si estende quasi per cinquant'anni, durante la quale il grande musicista ha più volte toccato, inventato e stravolto il modo di suonare. Davis è passato attraverso i generi: bebop, hard bop, cool, jazz modale, jazz rock, fusion e acid jazz.


Ma "Kind of Blue" si pone anche in un momento decisivo di svolta nel jazz, un momento in cui i discorsi musicali si vanno radicalizzando e questo avviene negli anni in cui l'impegno musicale e politico vive sulla stessa sintonia. Alla soglia di quegli anni sessanta che saranno fatidici per il jazz, con la nascita del free, quella new thing che sconvolgerà il mondo, ma che paradossalmente non apparterrà mai a Miles Davis.


"Kind of Blue", però, non è solo opera del genio di Davis. Il sestetto che si incontra attorno a questo capolavoro (con l'alternarsi al piano di Bill Evans e Wynton Kelly) è fatto di personalità enormi, ognuna delle quali porta un contributo determinante alla musica. Ma è opera soprattutto della collaborazione con l'altro genio che in quegli anni sta crescendo sempre di più, quel John Coltrane, che di lì a poco inizierà la sua incredibile carriera da solista.


Un sodalizio tra i due molto tormentato, in considerazione dei loro caratteri a dir poco difficili. Ma proprio questo conflitto si risolverà all'interno del loro rapporto musicale in un incantevole equilibrio, durato quasi cinque anni, e che genererà molte delle cose più belle di Davis ed una serie di pietre miliari del jazz.

Per aver un'idea di tutto ciò, basta ascoltare l'immortale "So What", che apre appunto "Kind of Blue", un brano che contiene, senza esagerazione alcuna, il respiro di Dio.


(Nella foto: John Coltrane, Cannonball Adderley, Miles Davis e Bill Evans mentre provano in studio a New York, 26 maggio 1958 – foto by Frank Driggs)

domenica 19 febbraio 2023

Il mito della meritocrazia


Riflessioni

IL MITO DELLA MERITOCRAZIA 

Corruzione, sprechi e mancanza di meritocrazia, questi sono tra gli argomenti preferiti dalla propaganda dell'odierno minculpop. Spesso trattati insieme, in una sorta di miscela caustica, buona per tutti i palati. Gusci svuotati da ogni significato, diventano strumenti di distrazione di massa funzionali ad una narrazione voluta e promossa dal potere, che tenga lontano dalle vere cause dell'assoggettamento delle masse.

Si prenda ad esempio la vexata quaestio sulla meritocrazia. In un capovolgimento di paradigma, si fa credere che essa sia assente e che, invece di essere fondata sulla feroce discriminazione, sia una valore da cercare col massimo impegno, che la sua mancanza sia una dei motivi di degenerazione della nostra società, quando invece la meritocrazia, come d'altronde la corruzione, è sempre esistita.

Trova la sua ragion d'essere nella guerra tra poveri, nella precarietà (esistenziale e lavorativa) sempre più diffusa, ognuno chiuso nel suo recinto, convinto di essere vittima dell'ingiustizia e della mancanza di valorizzazione delle proprie capacità, in una corsa isterica verso l'ascensore sociale e nell'annullamento di ogni sentimento di solidarietà umana. Si vagheggiano idee soggettive, che vengono spacciate come oggettive, su un'astratta efficienza della megamacchina neocapitalista e di quella amministrativa.

Quando invece la meritocrazia è tutt'altro che assente, crea discriminazione, ed è applicata con criteri autoritari propri della società di appartenenza, vive nei rapporti di produzione e nelle regole indiscriminate stabilite dalle élite e dall'autoritarismo dello Stato. Si nutre della compressione delle libertà. È predisposizione alla delazione e ad accettare lo schiavismo, purché si riconosca il merito. E in base a tutto questo, ai meritevoli vengono accordati dei privilegi.

È basata sulle stesse dinamiche insite nell'imposizione della Carta Verde.

Inoltre, è funzionale al progressivo affermarsi della tecnocrazia.

Che poi sia una meritocrazia che premia i mediocri, non è una contraddizione. In quanto, la meritocrazia si fonda sulla mediocrazia, che non sono affatto due poteri incompatibili. Perché i mediocri assicurano complicità, continuità, omologazione. Ai meritevoli è richiesto di rinunciare allo spirito critico, di trasformarsi in moralmente mediocri, di usare il proprio talento, anche fuori dagli schemi, ma solo ai fini della riproduzione del sistema dominante.

Al contrario delle storielle sulla corruzione, quella sulla meritocrazia è molto più pervasiva, anche se la prima si fonda sul senso di colpa, che ben sappiamo essere uno dei massimi strumenti per la diffusione e per la riproduzione del totalitarismo. Tuttavia, in fondo, ognuno può essere e può sentirsi vittima innocente del giustizialismo (come il Josef K. del "Processo" di Kafka), ognuno è costretto dal sistema ad avere sempre qualcosa da temere, anche se poi è convinto che i corrotti siano sempre gli altri, o lo siano di più.

L'assenza di meritocrazia è invece ingiustizia pura e "mi" colpisce preferendo chi non lo merita. Ognuno di noi sente di essere più meritevole di altri e l'unica solidarietà che crea è una distorsione di questo valore: sono apparentemente solidale solo nei confronti di quei soggetti (pochissimi) che ce l'hanno fatta e in cui possa riconoscermi, ma che finisco comunque per invidiare.

giovedì 16 febbraio 2023

China Mièville "Perdido Street Station" (2000)


CONSIGLI DI LETTURA

China Mièville

"Perdido Street Station" (2000)

La città di New Crobuzon potrebbe, in via teorica, appartenere al nostro futuro? Questa è una domanda che può venir in mente spesso, durante la lettura del primo capitolo della trilogia che China Mièville, scrittore inglese, dedica al continente immaginario di Bas-Lag. "Perdido Street Station" è, in tutta evidenza, un romanzo dal grande respiro epico, un fantastico caleidoscopio di immagini e di colori, una cupa novella ambientata in un universo non ben definito, un misto di bolgia infernale horror da grand guignol e dimensione da fiaba science fantasy steampunk. Un romanzo che rientra nel sottogenere della narrativa fantastica denominato new weird.

Un universo di delirio ipertecnologico e, nello stesso tempo, un mondo arrugginito, dove la costante erosione e consunzione entrano nel sangue e nelle viscere dei protagonisti. Un paesaggio tossico e malato che però sembra esistere autonomamente e parallelamente rispetto ai suoi abitanti, che riescono, grazie all'adattamento e all'abitudine, a vivere e a sopravvivere senza troppi traumi.

La violenza, la sopraffazione e la crudele repressione del dissenso ne fanno un luogo orwelliano. Ma più che Orwell e il suo mondo grigiamente tirannico, l'opera di Mieville richiama alla mente altri universi, ben più allucinati e meno classificabili: il "Blade Runner" cinematografico; così come dal cinema è indubbia l'ispirazione a "Brazil" e alle sue ossessioni da stato di polizia.

E poi c'è perfino un po' di Jorge Luis Borges, con la sua zoologia fantastica. New Crobuzon è un "bioparco" dove convivono esseri senzienti dalle molteplici caratteristiche, delle vere e proprie razze accanto a quella umana. Esseri con un vago antropomorfismo di base, sul quale si innestano le specificità classiche di insetti, anfibi, uccelli e persino piante. Accanto a queste razze ben definite, troviamo i "rifatti", tristi esperimenti della crudeltà umana istituzionalizzata.

Ma la cosa che stupisce di più è la semplicità con cui lo scrittore affronta i temi di vita quotidiana: la dimestichezza con cui descrive i processi mentali dei protagonisti alle prese con il loro microcosmo, tanto da rendercelo paradossalmente familiare. L'esplicita mostruosità degli individui, dei luoghi e delle situazioni assume i contorni della normalità, smette di essere qualcosa di estraneo, non solo per i protagonisti stessi, ma anche per il lettore, entra a far parte dell'immaginario, tanto da far pensare che New Crobuzon esista veramente da qualche parte.

È questa in definitiva quella che dovrebbe essere la forza evocativa del fantasy, quella che il più delle volte va a farsi benedire, quando ci troviamo al cospetto di opere mediocri e ridicole, dove i clichè abbondano e garantiscono solo una noia mortale. E' la stessa forza evocativa, per esempio, fatte le dovute proporzioni, che appartiene a Tolkien e Lovecraft, nelle cui opere la mitologia di luoghi e personaggi è uno dei fattori fondamentali e che riserva a questo genere letterario un ruolo fondamentale nella narrativa.

Ma per tornare alla domanda iniziale, chiari sono i riferimenti alla società attuale, talmente chiari e molteplici da diluirsi in un calderone incredibile. Sembrerebbe quindi, in apparenza, che Mièville abbia messo troppa carne al fuoco, da non riuscire più il lettore a comprendere che senso avrebbe l'uso della metafora in alcune immagini e in molte situazioni. Però il tutto funziona splendidamente. 

Tutto in questo "Perdido Street Station" si incasella a dovere e la narrazione procede fluida senza particolari intoppi.

mercoledì 15 febbraio 2023

Eduardo De Filippo "Le voci di dentro" (1948)


Eduardo De Filippo

"Le voci di dentro" (1948)

"Le voci di dentro" nella produzione eduardiana prefigura un punto di svolta decisivo. Vi è una sorta di tetralogia, posta tra l'approssimarsi della fine della Seconda Guerra Mondiale e l'immediato dopoguerra, che segna duramente il teatro di Eduardo De Filippo. Una tetralogia che inizia con la disperazione "risanata" di "Napoli Milionaria", passa attraverso l'eccellente commedia nera di "Questi fantasmi" e il sublime dramma familiare di "Filumena Marturano", per concludersi con la tragedia assoluta a tinte fosche di "Le voci di dentro".

Non è un caso che questo periodo segna uno dei migliori momenti di Eduardo, queste quattro commedie racchiudono in loro una visione di un mondo in disfacimento, che era partito dalla povertà morale e fisica di "Napoli Milionaria", illuminata però dal fatidico «Ha da passà 'a nuttata», e si conclude con la cruda disperazione di "Le voci di dentro". Da un urlo di accorata speranza ad un gesto muto di rassegnazione senza fine.

Questa commedia-tragedia esaspera alcune caratteristiche fondamentali del teatro del grande autore napoletano, primo tra tutti l'elemento onirico, che qui si lega perfettamente al senso di spaesamento che tutti i personaggi vivono dall'inizio alla fine. Ci si trova infatti di fronte ad un mondo le cui regole sembrano dettate dalla casualità e dall'imprevedibilità, in cui le tragiche figure si muovono a stento, improvvisando di volta in volta le loro azioni. A tratti assumono le sembianze di marionette senza vita né anima.

Un mondo, dove si è completamente smarrito il senso dell'esistenza umana, nel quale appunto il silenzio è l'unica strada da seguire. Un silenzio vissuto come astensione, ultimo atto di ribellione, da questa triste esistenza, dove i valori sono solo dei fantasmi, buoni esclusivamente per la propria convenienza.

E' naturale, viste le premesse, che Eduardo rendesse con questa sua opera un omaggio ad una delle sue fonti di ispirazione e cioè a quel Pirandello, che spesso si aggira anche lui come un fantasma tra le visioni del più importante dei De Filippo. Pirandello assume le sembianze di un'ossessione e ancor più in questa commedia, dove la citazione è palese.

Ma Eduardo tratta questo materiale di ispirazione con l'esclusiva originalità che gli è propria. E non è certo la napoletanità che lo rende diverso, ma la capacità di porgere alla perfezione il costante rapporto che lega il messaggio delle sue creazioni al contesto sociale. Aspetto che nel teatro di Pirandello sfumava e si sublimava nella concezione filosofica anche astratta, dove l'incubo, l'ipocrisia e l'alienazione erano insiti nella natura umana, più che nella condizione sociale, anche se questa contribuiva ad aggravarne i vizi.

La struttura della commedia funziona come un meccanismo perfetto, dall'inizio alla fine. Fatti, situazioni e personaggi si incastrano e si eludono a vicenda in un caleidoscopio giocoso, comico e tragico di rara efficacia, comprendendo anche un coupe de theatre, geniale nella sua scontatezza, che permette ad Alberto Saporito di concludere con un monologo agghiacciante, che sfuma nell'ancora più agghiacciante silenzio finale.

Oggi, avremmo bisogno di un altro "De Filippo" che ci narri del nostro "nuovo mondo" in disfacimento. Ma dove trovarlo? Quel mondo lì, aveva dalla sua, menti eccelse. Nei nostri tempi farseschi, abbiamo a disposizione solo mediocri fantasmi asserviti.

lunedì 13 febbraio 2023

Emilio Salgari


LETTERATURA

Protagonisti

Emilio Salgari

Nella mia storia personale Salgari ha un piccolo grande merito, quello di avermi introdotto più di altri all'amore per la letteratura. Ricordo ancora con nostalgia quei volumi per ragazzi con illustrazioni coloratissime, che ogni tot di pagine interrompevano la lettura, poste a richiamare le fasi più importanti delle vicende narrate. Nulla ovviamente avevano a che vedere con la più recente ristampa dell'opera omnia dello scrittore, proposta anni fa dai Fratelli Fabbri Editori. All'interno di questi volumi, infatti, erano di nuovo presentate le tavole dell'epoca illustrate da quegli autori, ai quali erano state commissionate dallo stesso Salgari.

Invece, i disegni delle opere salgariane della mia infanzia erano ben poca cosa, ma nell'immaginario di un bambino erano tutto. Un Sandokan coloratissimo in cima a una montagna diventava l'archetipo dell'eroe ideale. Le tigri, dall'aspetto improbabile e a dir poco gigantesco, popolavano i miei sogni e i miei incubi. Il Corsaro Nero era la personificazione del mistero e dell'ambiguità. E poi tutti gli altri: Marianna, Yanez, Kammamuri, Tremalnaik, Jolanda, Carmaux, Wan Stiller, Honorata. Un pantheon di dei, più che di eroi.

Non ho problemi ad affermare che, per quanto riguarda la pagina scritta, per me tutto iniziò dai suoi magici libri e da quelli di Alexander Dumas e di Charles Dickens. Rivivo spesso momenti in cui giacevo malato nel mio lettino e il mio papà seduto ai miei piedi che leggeva le imprese degli eroi salgariani, una passione condivisa, una passione che sarebbe cresciuta con me.

Oggi, è di gran lunga lo scrittore di cui posseggo più libri, come forma di riconoscenza, credo sia il minimo.

Salgari, autore assai prolifico, negli ambienti dell'accademia culturale è da sempre snobbato e liquidato come appartenente alla cosiddetta paraletteratura, al massimo alla letteratura popolare. La stessa cosa è accaduta a Dumas, prolifico anche lui, considerato per lungo tempo autore di second'ordine, e un po' in genere a molto feuilleton, identica sorte è toccata per esempio anche al grande Luigi Natoli, e a molti altri. Si pensi solo ai giallisti e agli scrittori di fantascienza.

Oggi, lo scrittore veronese è stato "sdoganato", forse. Bontà loro. E può anche darsi che tra un po' di anni, chissà quando, avrà l'onore di apparire stabilmente nelle antologie scolastiche al fianco di nomi considerati più illustri, cancel culture permettendo.

Il merito di Salgari, ci tengo però a sottolinearlo, non può e non deve essere relegato, né nell'ambito della letteratura di genere, né in quella per ragazzi. 

Salgari ha creato degli universi fantastici di portata epocale, attraverso l'ideazione di storie, personaggi e luoghi, e ha contribuito non poco alla storia e allo sviluppo del Cinema. Ha in una parola dimostrato che la letteratura, prima di essere puro esercizio artistico, a volte estremamente astratto, è fatta della sostanza dei sogni e con i sogni dei lettori deve convivere.

Inoltre, basterebbe ricordare quanto e come abbia enormemente condizionato e ispirato la letteratura e non solo quella di genere, citando innumerevoli autori e non solo italiani, a cominciare dai suoi stessi contemporanei. Ha saputo plasmare, nonostante abbia viaggiato molto poco, servendosi del genere avventuroso, una forma e una sostanza che potessero parlare ai lettori di cose concrete, allo stesso tempo lontane e vicine al lettore stesso, e che permettessero per mezzo della semplice magia della lettura di viaggiare e di aprire l'orizzonte ristretto in cui ognuno di noi è costretto a vivere. In una parola ha liberato, rendendola concreta, la fantasia stessa.

domenica 12 febbraio 2023

"Amore e Guerra" (1975)

CULT MOVIE

"Amore e Guerra" (1975)

Regia e sceneggiatura di Woody Allen

Con Woody Allen (Boris), Diane Keaton (Sonja), Harold Gould, Olga Georges-Picot, Jessica Harper.

A mio parere, "Amore e Guerra" è il film più geniale di Woody Allen, e sicuramente uno dei suoi migliori. Il più geniale per originalità, per ironia, per i fulminanti ed esilaranti dialoghi, per la surreale "ambientazione storica" e per la costruzione dei personaggi, caricaturali maschere gogoliane.

È il personale tributo del regista alla letteratura russa, in particolare a Dostoevskij, Tolstoj, Gogol e Pasternak. Tuttavia, non solo letteratura, visto le musiche sono di Prokofiev. Un omaggio dovuto, riconoscendo quanto questa abbia influenzato la sua cinematografia. Lui stesso in svariate occasioni ha ammesso esplicitamente il suo debito nei confronti della cultura europea, non solo alla narrativa (non solo i russi, anche Kafka), al teatro, con Shakespeare, ma anche soprattutto al cinema: Fellini, Bergman, l'esistenzialismo, l'espressionismo tedesco.

"Amore e Guerra" fa parte di quello che io chiamerei il filone onirico di Allen, insieme ad altri suoi film: "Il dormiglione", "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso", "Ombre e nebbia", "Una commedia sexy in una notte di mezza estate", "La rosa purpurea del Cairo", "Zelig", "La dea dell'amore", l'episodio "Edipo relitto" di "New York Stories". In quel particolare contesto, nel quale il suo cinema si muove tra sogno, suggestioni visionarie, dialoghi surreali, parodia, comicità e tragedia.

In "Amore e Guerra" c'è qualcosa di più: la parodia come atto di amore nei confronti della letteratura e del cinema del passato ("Guerra e Pace", "Dottor Zivago", "La corazzata Potemkin", "Il settimo sigillo"), fatto con tocco delicato, ironia, ma, soprattutto dai "dialoghi filosofici" con quella che è di gran lunga la sua partner cinematografica migliore: Diane Keaton, attrice di gran talento, che non solo ben si adatta allo spirito ironico alleniano, ma dà un contributo originale determinante, con la sua personalissima ed espressiva recitazione, ma mai sopra le righe. D'altronde Woody stesso l'ha definita "il più grande amore della sua vita".

Un'ultima curiosità: la Keaton e Allen, si dividono equamente le parti della credente e dello scettico ateo, così come avviene nella realtà. 

E ora, un po' di "filosofia":

«a) Socrate è un uomo; b) tutti gli uomini sono mortali; c) tutti gli uomini sono Socrate, quindi tutti gli uomini sono omosessuali.» (Boris)

«Amare è soffrire. Se non si vuol soffrire, non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire, e soffrire è soffrire. Essere felice è amare: allora essere felice è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici. Pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità. Io spero che tu prenda appunti.» (Sonja)

Sonja: «L’immoralità è oggettiva»

Boris: «Sì, ma la soggettività è oggettiva»

Sonja: «Non negli schemi percettivi razionali»

Boris: «La percezione è irrazionale e implica imminenza»

Sonja: «Ma il giudizio di ogni sistema o relazione prioritaria dei fenomeni esiste in ogni contraddizione razionale o metafisica o, almeno, epistemologica per concetti astratti o empirici come essere, esistere o accadere nella cosa stessa o della cosa stessa»

Boris: «Sì, questo è vero. Anch’io lo dico sempre»

Boris: «Sonja, e se Dio non esistesse?»

Sonja: «Boris Dimitrovic, stai scherzando?»

Boris: «E se fossimo solo un branco di gente assurda che corre intorno senza nesso o ragione?»

Sonja: «Ma se non esiste Dio la vita non avrebbe alcun significato, perché dovremmo continuare a vivere? Perché allora non suicidarsi?»

Boris: «Be', non facciamo gli isterici, potrei sbagliare. Io oggi mi uccido e domani "lui" concede un'intervista!»

Sonja: «Io credo... di essere mezza santa e mezza vacca.

Boris: Scelgo la metà che dà latte.»

sabato 11 febbraio 2023

"Anarchismo" e criminalizzazione del dissenso

"Anarchismo" e criminalizzazione del dissenso

È arrivato di nuovo il momento di diffamare e criminalizzare l'anarchismo. Perché serve una nuova strategia della tensione. Perché devono trovare un ulteriore modo di terrorizzare. Tutti. Da destra a sinistra. 

L'anarchismo si presta, perché è l'unico pensiero dignitoso, in mezzo a ideologie di merda che hanno fallito. Tutte legate alla presa del potere o alla sua gestione, alla beatificazione del collettivismo, dell'elitarismo, dell'uomo forte o del mercato, ecco perché fallimentari. 


Perché prima di parlare di dittatura sanitaria, bisognerebbe capire che cosa l'ha resa possibile.

Sono stati i milioni di morti causati dall'imperialismo, dalle ideologie otto-novecentesche, dall'ortodossia religiosa, dal giustizialismo. Insomma, dal pensiero desiderante del potere, in tutte le sue declinazioni. Il potere è malthusiano. Sempre.


L'anarchia non è un'ideologia, è un modo di essere, di pensare, è un comportamento che esiste da millenni, contro il potere costituito, qualsiasi potere. 

Sfugge a ogni catalogazione, perché non ha un partito, non soggiace a un pensiero unico: esistono tanti "anarchismi", per cui è facile da strumentalizzare. È facile far ricadere la colpa su generici anarchici. 


Periodicamente nella Storia, escono fuori gli anarchici, da fustigare e da accusare di ogni crimine, così come una volta, c'erano gli eretici. 

E molti di voi ci stanno cascando. Complimenti! 

Bevetevi la propaganda, che sia di destra o di sinistra. Ma bevetevela. 

Mi raccomando! 

Io non amo definirmi, ma oggi sono anarchico e ne vado fiero. Perché sto sempre coi reietti.


Detto questo, il problema non è alimentare la divisione. La divisione è iniziata mesi fa su tante piccole cose. A cominciare da quella che poi una piccola cosa non lo era poi tanto: la scelta elettorale, con insulti pesanti e infamità reciproche, soprattutto, ma non solo, tra votanti e  astensionisti.


Oggi è arrivata al suo culmine, non sul 41 bis, che sarebbe poca cosa, ma sulle radici stesse della lotta allo stato d'emergenza. Sono venute fuori posizioni inconciliabili con la mia stessa persona, con la mia storia. E non sto parlando di una vaga identità anarchica. Identità che mi interessa il giusto. Sto parlando della difesa dei diritti della persona. Sempre. Non solo sull'obbligo di terapie. 


È una battaglia che dura da decenni per il garantismo. Sono talmente vecchio che ho passato tante temperie. Avrei diritto anche di essere stanco. Ma non è neanche questo il punto. Ho dovuto subire tanti processi mediatici e non, come estremista, autonomo, untorello, fascista rosso, fiancheggiatore, sovranista psichico, rossobruno, negazionista, novax e, più volte, come anarchico.


Il fronte attuale cosiddetto antisistema è esistito veramente per lo spazio di qualche anno (al massimo). Ha mostrato di essere qualcosa di effimero. Perché le crepe e le fratture sono su tanti temi. Temi troppo importanti. E questo: la concezione e il rifiuto della logica dell'emergenza è fondamentale. Non si comprende quello che è successo veramente se non si fa un'analisi su quello che è l'autoritarismo dello Stato nel suo complesso, e nella Storia. 


Sì, c'è una studiata e raffinata volontà di dividerci, c'è stata fin dall'inizio. Ma è bastato poco, a dare conferma che ci fosse ben poco di solido. È bastato poco per fare emergere scheletri nell'armadio.

Io che sono arrivato ad avere una posizione soprattutto individuale, mia personale, su tutte le battaglie, e non ho un'appartenenza collettiva, non ne faccio un particolare dramma. Ero consapevole già prima di cosa fossero molti compagni di strada. 


Questi tre anni hanno rafforzato la mia consapevolezza anche su questo, e non nutrivo particolari illusioni. In questo periodo, ho aperto e chiuso collaborazioni con almeno un paio di esperienze politiche, che mi hanno fatto giungere definitivamente a certe conclusioni. E non sono conclusioni da poco. 


Tuttavia, se ci sarà di nuovo l'occasione di fare battaglie insieme su qualsiasi cosa, perché non è certo finita qui, non mi ritrarrò in nessun caso schifato.

Anche perché "circondarsi solo di persone che la pensano come te" è una grande inquietante stronzata, che prevede il raggiungimento di una condizione un bel po' distopica. Perché, così facendo, si formano delle piccole isole totalitarie; e in più, si fa un grande favore al sistema nella creazione di ghetti.


mercoledì 8 febbraio 2023

Grado G. Merlo "Eretici ed eresie medievali" (1989)

CONSIGLI DI LETTURA

Grado G. Merlo

"Eretici ed eresie medievali" (1989)


Grado G. Merlo è uno dei maggiori esperti italiani di Storia della Chiesa medievale. Questo piccolo manuale, nonostante la sinteticità, ma forse proprio grazie a questa, si rivela qualcosa di essenziale per la comprensione e lo studio di una materia più complessa di quanto si possa credere.

L'autore porta infatti a termine un lavoro di notevole difficoltà, sistematizzando e cercando di delineare razionalmente quelle eresie che hanno caratterizzato un periodo storico ben preciso, periodo che va dalla metà dell'XI secolo fino al 1307. Non è un caso che la scelta cada appunto su questo lasso di tempo. È infatti, dall'inizio della Riforma cattolica, che poi assunse il nome di gregoriana, alla fine dell'utopia dolciniana che i movimenti eterodossi e pauperistici assunsero quel ruolo di grande cambiamento per la cristianità e la società medievale.

Merlo dedica a ogni eresia un capitolo, lasciando sempre aperto lo sviluppo della trattazione, e senza porre la parola fine ad una ricerca che ancora oggi si arricchisce di nuove interpretazioni e scoperte. Non si può in effetti non tenere conto che il manuale è stato scritto nel 1989 e da allora nella medievistica, come d'altronde qualsiasi altro settore della conoscenza storica, si sono fatte strada nuove teorie.

L'autore è consapevole di ciò e ricorda più volte nelle pagine del libro che la complessità e la contraddizioni insite nella materia pongono problemi considerevoli allo studio e alla sua sistemazione razionale e logica. Ma, nonostante questo, riesce più che efficacemente a esporre teorie ed eventi con una trattazione limpida, lineare e di semplice fruizione.

"Eretici ed eresie medievali" si rivela appunto per quello che era negli intendimenti di Merlo: un manuale sintetico che offre una panorama generale, ma nel contempo preciso, di un fenomeno storico affatto marginale, ponendosi come base iniziale per successivi approfondimenti. Proprio per questo l'appendice del volume è dedicata alla bibliografia, strutturata e divisa alla stessa maniera dei singoli capitoli, in modo tale da fornire indicazioni, ancora una volta, precise e fruibili a chi volesse continuare nello studio e nell'approfondimento.

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

  Cinema Cult movie “Otello” (1951) regia di Orson Welles con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier. «Fosse pia...