lunedì 29 aprile 2024

Vladimir Nabokov, “Maria” [“Mašen'ka”] (1926)

 


Classici 


Vladimir Nabokov, “Maria” [“Mašen'ka”] (1926)


«Quel ponte era una continuazione delle rotaie che si vedevano dalla finestra di Ganin, il quale non riusciva mai a liberarsi della sensazione che ogni treno passasse, invisibile, attraverso la casa. Che entrasse dal lato opposto, che i suoi riverberi spettrali facessero tremare le pareti, che proseguisse il suo traballante cammino sul vecchio tappeto, che sfiorasse lo specchio di un lavabo e si dileguasse infine dalla finestra con un raggelante clangore, immediatamente seguito da una nuvola di fumo che si levava alta di là dei vetri; e che quando questa si fosse attenuata emergesse un treno dello Stadtbahn come secreto dalla casa; carrozze olivastre con una fila di scuri capezzoli di cani sui tetti e una piccola tozza locomotiva agganciata dalla parte sbagliata che procedeva allegramente all’indietro mentre trascinava le carrozze nella bianca lontananza tra quei muri anonimi, la cui nerezza fuligginosa emergeva a macchie o screziata dagli affreschi di scaduti cartelloni pubblicitari. Sembrava che nella casa soffiasse in continuazione una corrente di ferro.»



«Timoroso di commettere uno sbaglio, di smarrirsi nel vivido labirinto della memoria, ricreava il proprio passato con cautela e con amore, tornando indietro ogni tanto a ricuperare qualche futile particolare dimenticato ma senza mai procedere con fretta eccessiva. Vagando per Berlino in quel martedì di primavera, finì per ritrovare ogni cosa, provò di nuovo che significa alzarsi dal letto per la prima volta, risentì la debolezza delle sue gambe. Si guardò in ogni specchio. Gli abiti che indossava sembravano insolitamente puliti, singolarmente larghi e leggermente estranei. Percorse lentamente il largo viale che dal terrazzo sul giardino conduceva nelle profondità del parco. Ogni tanto il terreno, imporporato dall’ombra delle foglie si spezzava in talpaie che parevano mucchi di vermi neri. Si era messo pantaloni bianchi e calzini lilla e sognava di incontrare qualcuno senza sapere ancora chi.»


«Sì, il chiosco. Sorgeva su pali in putrefazione sopra un burrone e vi si arrivava da entrambi i lati per due ponticelli inclinati, resi sdrucciolevoli da amenti di ontano e aghi d’abete.

Nelle sue piccole finestre a forma di rombo c’erano vetri di diversi colori; a chi, per esempio, guardava attraverso un vetro blu il mondo pareva congelato in una catalessi lunare; attraverso un vetro giallo, tutto appariva straordinariamente gaio; attraverso un vetro rosso, il cielo sembrava rosa e il fogliame scuro come il borgogna. Alcuni di questi vetri erano rotti e i loro orli frastagliati erano tenuti insieme da ragnatele. L’interno era intonacato; i villeggianti che venivano illegalmente a passeggiare nel parco della proprietà dalle loro dacie avevano scarabocchiato a matita le pareti e il tavolo pieghevole.»


“Maria”, uscito in Italia anche con il titolo originale di “Mašen'ka”, è in assoluto il primo romanzo di Vladimir Nabokov, e fu pubblicato nel 1926. 

Dopo aver letto “Lolita” e “Ada o ardore”, sono andato intenzionalmente a cercare questo libro, essenzialmente per due motivi. Innanzitutto, perché mi incuriosiva andare alle origini di quello che è uno dei miei scrittori preferiti. 

Il suo essere completamente alieno da stereotipi ideologici e moralistici è una delle cose che me lo fa amare di più. La sua narrazione non esprime mai un’ansia di analisi sociologica. 


Il secondo motivo, che può apparire banale, ma non lo è, è che anche questo romanzo ha come titolo un nome di donna. L’universo femminile è fondamentale per Nabokov e anche “Maria” lo conferma. 

Mi riprometto, quindi, di compiere la vertiginosa “scalata” della lettura di più opere possibili dell’autore russo.


Nella prefazione all'edizione in inglese, Nabokov afferma di essere particolarmente legato a questa novella, nonostante le ingenuità che qualcuno vi potrebbe riscontrare. 

Il fatto che sia un romanzo di chiara e limpida linearità può indurre a intravedere una certa acerba ingenuità. Ma non è affatto così. È vero che è ancora abbastanza lontano dal suo superbo e ricercato stile, ma la sensazione di trovarci al cospetto di uno scrittore di grande spessore e originalità c’è già tutta. Credo che in molti pagherebbero per essere autori di un romanzo del genere.


L’avvio del racconto è immediatamente seducente. L’atmosfera claustrofobica all’interno di un ascensore, e poi, in un alquanto sinistra pensione di Berlino, dove avviene l'incontro in cui fanno conoscenza Alfiorov, marito di Maria, e Ganin, è un inizio di grande suggestione, con echi che rimandano a Kafka, a Gogol, a Poe e a Henry James.  

Il romanzo si colora di un tenue alone di grottesco, quando sfilano davanti al lettore i profili degli altri ospiti della pensione, nell’attesa da parte di qualcuno dei presenti del tanto agognato arrivo di Maria.


La vita di sette esuli russi si svolge in una cornice quasi fantastica, racchiusa in un arco di tempo che sembra non concludersi mai, quando invece sono solo una manciata di giorni. Il personaggio centrale è proprio Ganin, malinconico emigrante russo e reduce di guerra, sempre in bilico tra ricordi e nostalgia, impregnato di precarietà, di grigiore e di illusioni, costretto a lavori umili e umilianti. 


Ganin è la maschera tragica di questo breve dramma tristemente romantico, fotografata perfettamente nello squallido ambiente del set cinematografico dove lavora come comparsa; oppure nella tetraggine spettrale del grigio e tossico paesaggio berlinese, la sua vuota esistenza sembra avere solo il misero ruolo di un qualsiasi ingranaggio. Ganin è costantemente avvolto in una nebbia di depressione e banalità, dentro la quale coinvolge qualsiasi persona con cui viene a contatto.


Il rapporto con la fidanzata Liudmila lo vive come una sorta di ripugnante costrizione, un’altra prigione di cui è lui stesso l’artefice. È la proiezione di un'insoddisfazione crescente che va di pari passo con l’idealizzazione di Maria.

È ammirevole la capacità di Nabokov di descrivere le sensazioni di estraneità, di noia e di disgusto, ma anche di malinconica tenerezza, che si celano dietro la finzione della rappresentazione di una relazione ormai giunta al termine. 


Un altro tema, questa volta un po’ dostoevskiano, è l’attrazione che certi esuli russi provano per l’Europa, un’attrazione a volte ridicolmente compassata, piena di ammirazione per qualcosa di immaginato e che si conosce ben poco, con un'amore acritico per le modernità, di cui enfatizzano alcuni aspetti, giustificato ancor più a quell'epoca dal rifiuto per il regime sovietico. Nabokov proietta in queste pagine la sua condizione di esule, descrivendola con amara ironia.


Questo incubo tetro e grottesco viene squarciato improvvisamente da una luce che lo trasforma magicamente in un sogno, come un pugnale che squarcia un velo. Una gioia terribile, che tuttavia, finisce solo per tornare di nuovo a ferire.

D’improvviso tornano i ricordi, la nostalgia della Russia del passato riempie di colori il racconto. È lo è in particolar modo per Ganin. Un’esplosione di inebriante vividezza prende il posto del grigiore. Abbiamo bisogno di illusioni è solo questo che in fondo conta a prescindere della durata e di quanto siano effimere.


Un potere lo abbiamo. Siamo noi stessi a essere i creatori del nostro personale mondo di illusioni. Non ci serve altro che l'immaginazione. È possibile vivere ancora lo stesso sogno? Provare le stesse sensazioni? Far tornare il passato, come un dolce eterno ritorno? Si può dare una seconda possibilità alla Russia, oppure lo scrittore è destinato a lasciarla per sempre? 

Sono momenti di grande emozione quelli a cui dà sfogo Nabokov attraverso i ricordi del protagonista con la sua intensa capacità descrittiva di cose, paesaggi e stati d’animo.


L’estasi visionaria con cui sono dipinti i paesaggi russi, in contrapposizione al  grigiore berlinese, non solo dimostra l’amore irrisolto per la Russia, ma anche il contrasto tra stati d'animo opposti, che non sono solo di Ganin, ma anche di Nabokov stesso. I ricordi sono pieni di un mondo infinitamente più vivo di quello dello squallido presente. 

Tuttavia, quel mondo è destinato a essere respinto definitivamente dal Ganin/Nabokov. Non si può restare per sempre bloccati nel passato, in un sogno che non tornerà più.


Già in questa sua prima opera, Nabokov si rivela come cantore dell’assurdo, del dolore, del flusso ininterrotto dei ricordi del passato, delle trappole dell’esistenza e della coercizione, rivolta verso gli altri o verso se stessi. Quel particolare filo che lo lega agli scrittori nominati all’inizio, ma che, tuttavia, lo rende diverso, preso com'è a giocare con lo stile, con le parole e coi sentimenti, che tiene avvinto il lettore fino alla fine, in una crescente attesa addirittura carica di suspense.

giovedì 25 aprile 2024

Amos Oz, “Contro il fanatismo” (2002)

 


Classici della saggistica


Amos Oz, “Contro il fanatismo” (2002)


«Il più delle volte il fanatico riesce a contare solo fino a uno, perché due è un’entità troppo grande per lui. Al tempo stesso i fanatici sono quasi sempre degli incorreggibili romantici, preferiscono il sentimento al pensiero, e sono affascinati dalla loro stessa morte. Disprezzano questo mondo e lo barattano volentieri in cambio del “cielo”. Il loro cielo, a ogni buon conto, è normalmente concepito in maniera non dissimile dal lieto fine di un brutto film.»


«Il mantra d’obbligo per i movimenti ideologici nella prima metà del secolo era “il domani sarà migliore – facciamo sacrifici oggi”, e imponiamo anche sacrifici agli altri oggi, così che i nostri figli ereditino un paradiso nel futuro. Più o meno intorno alla metà del secolo, tale convincimento è stato sostituito da quello della felicità istantanea, non tanto il famoso diritto di lottare per la felicità, piuttosto quell’illusione così diffusa oggigiorno di trovare la felicità in bella mostra sui banchi, per cui non c’è altro da fare che diventare ricchi abbastanza da potersi permettere la felicità, a colpi di portafoglio. La nozione di “felicemente per l’eternità”, l’illusione di una felicità durevole, è in realtà un ossimoro. O calma piatta o vetta. La felicità eterna non è tale, proprio come un orgasmo perenne non è affatto un orgasmo.»


« Ogni estremismo, ogni crociata oltranzista, ogni forma di fanatismo, in Shakespeare si conclude in una tragedia o in una commedia. Il fanatico non è mai più felice o più appagato, alla fine: o è morto o diventa una burla. Questo è un buon coadiuvante. Anche Gogol’ può risultare utile: Gogol’ rende noi lettori grottescamente consapevoli di quanto poco sappiamo, anche quando siamo convinti di avere ragione al cento per cento. Gogol’ ci insegna che il naso può diventare un nemico acerrimo, un nemico financo fanatico, e che ti puoi ritrovare fanaticamente in caccia del tuo stesso naso. Una lezione niente affatto male, mi pare. Kafka è un buon educatore a tale proposito, per quanto sono sicuro che egli stesso non abbia mai pensato di avere in sé un potenziale contro il fanatismo; e tuttavia Kafka ci dimostra che c’è buio e c’è mistero e c’è scherno anche quando siamo convinti di non avere fatto nulla di male. E questo serve.»


Ci sono letture che ho incontrato a un certo punto della mia esistenza, che sono state, non solo rivelatrici, che hanno contribuito ad aiutarmi a squarciare il velo che ricopre i miei occhi, ma vanno anche oltre, è come se fosse destino che io le abbia incontrate in quel preciso istante. Ed è quello che è accaduto anche con la lettura di “Contro il fanatismo”.


È difficile rimanere indifferenti di fronte a questo piccolo saggio di Amos Oz, uomo di grande sensibilità umana e di alto profilo intellettuale e letterario. La sua battaglia contro il fanatismo è assai coinvolgente. È una battaglia che trovo personalmente molto significativa, una delle poche che vale la pena di intraprendere, e che si può praticare anche individualmente, anzi, la sfera individuale è forse quella più coinvolta. La si può praticare anche partendo dal combattere il fanatismo che si trova dentro ognuno di noi.


Il libro riporta tre lezioni tenute a gennaio del 2002 sul fanatismo e sulle tante implicazioni legate a questo aspetto del carattere umano.

Mentre le prime due lezioni appaiono strettamente collegate ad una dimensione esistenziale, che trascende i luoghi e i tempi, la terza è relativa all'azione da intraprendere per favorire il processo di pace in Israele, in Palestina e, più in generale, nel Medio Oriente, ed è, quindi, più specificatamente politica e molto strettamente legata a quel preciso contesto storico. 


Purtuttavia, anche se è percepibile una “frattura” con le altre due lezioni, a quel tempo, in fondo, ne era anche l’evidente e inevitabile logica prosecuzione, tenuto conto soprattutto del particolare tipo di pacifismo in cui credeva Amos Oz, sicuramente più pragmatico che idealista.


Sono passati ventidue anni da allora e la terza lezione è ovviamente assai datata: lo scrittore israeliano non poteva sapere cosa sarebbe effettivamente accaduto, un ventennio in cui il processo di pace è degenerato, culminato con l’orrendo pogrom di Hamas del 7 ottobre e il conseguente tremendo bombardamento di Gaza. I suoi timori peggiori, che si leggono tra le righe hanno avuto conferma, e il suo ottimismo è stato purtroppo smentito. Conserva però tutta la sua attualità. Il suo messaggio resta intatto.


Resta però ancora da capire se la pace e la convivenza tra i due popoli da lui auspicata sia ancora possibile. Una cosa è certa: la sua morte nel 2018 ci ha lasciato un grande vuoto. E queste tre lezioni, nonostante l’inevitabile contestualizzazione, possono insegnarci molto. Per quanto mi riguarda, molte delle sue argomentazioni hanno fatto breccia nella mia mente e nel mio cuore.

Oz deve molto del suo pensiero e della sua formazione culturale, alla sua storia personale: era nato in seno a una famiglia ebrea dalla grande cultura, che si sentiva profondamente europea, e che fu costretta ad emigrare in Palestina tra gli anni venti e gli anni trenta.


Credo che, comunque, anche se le tre lezioni siano inscindibili, l’aspetto più interessante del saggio, e che ha un significato universale, applicabile a ogni contesto storico e geografico, sia l'analisi che Oz fa in senso più generale del fanatismo come fenomeno tout court.

Il ragionamento dello scrittore ha origine da un semplice e autentico sentimento di identificazione: l’abitudine, che gli deriva proprio dalla sua attività di scrittore, di osservare e mettersi nei panni degli altri, non necessariamente di giustificarli, ma nel riuscire a vedere dal loro punto di vista. Una qualità che, nell'applicazione della vita quotidiana, può tramutarsi in scelta etica.


Amos Oz si dice convinto che ogni situazione conflittuale può essere risolta col compromesso. Quando parla di compromesso non intende capitolazione, né porgere l’altra guancia all’avversario. Ma un atto necessario, un atto purtroppo doloroso, ma appunto necessario.

«Intendo incontrare l’altro, più o meno a metà strada. Comunque non esistono compromessi felici: un compromesso felice è una contraddizione. Un ossimoro.»


Quindi, praticare il compromesso vuol dire dare forma concreta alla battaglia contro il fanatismo, non relegarla solo in una sfera astratta dell’eticità, ma conferirle la concretezza del realismo, perché tale battaglia diventa un conflitto tra fanatismo e pragmatismo, tra fanatismo e pluralismo, tra fanatismo e tolleranza. Perché la vita viene prima di ogni altra cosa. È più preziosa delle fedi, dei valori, delle convinzioni e persino del vago e relativo concetto di giustizia. Perché è loro parte integrante. Cosa sono tutte queste cose prive di tolleranza e pluralismo?


Un'osservazione mi pare più che lecita a questo punto, un'osservazione che anticipi alcune scontate obiezioni, per esempio di chi ha un approccio superficiale ai conflitti: e cioè che tutto ciò può apparire conforme alla banale logica delle ovvie e formali relazioni e convenzioni sociali, e che il compromesso in fondo sia funzionale al potere dominante. Ed è invece quanto di meno conforme, di ovvio, di più eretico e di più ardito vi possa essere, in un mondo in cui domina quasi incontrastato il fanatismo. Quanto siano impopolari oggi questi principi, lo sappiamo benissimo, in un mondo in cui le posizioni vengono estremizzate, accompagnate da un’enfasi piena di retorica.


E infatti: «Siamo invece di fronte alla consueta pretesa del fanatismo: visto che secondo me qualcosa è male, la elimino insieme a ciò che le sta intorno. Il fanatismo è più antico dell’islam, del cristianesimo, dell’ebraismo, più antico di ogni stato o governo, d’ogni sistema politico, più antico di tutte le ideologie e di tutte le confessioni del mondo. Il fanatismo è, disgraziatamente, una componente onnipresente della natura umana; un gene perverso, se volete chiamarlo così.»


Il fanatismo e la disperazione sono spesso due compagni inseparabili, costituiscono una forma di reazione violenta all’umiliazione e alla sottomissione. E con i disperati è forse impossibile generare speranza, ma se non lo si può fare con i fanatici, occorre farlo coi moderati, perché Oz è giustamente convinto che i moderati presenti all’interno di ogni società siano in grado di arginare i fondamentalismi. 


Ne consegue ovviamente, che solo l’Islam moderato possa fermare quello fondamentalista. 

Questo, a mio parere, è un punto chiave di tutto il ragionamento di Oz: il fondamentalismo trae, infatti, linfa vitale dal fanatismo. Per ottenere questo cambiamento bisogna comunque dare speranza e fornire un’alternativa alle persone affinché sia possibile intravedere una vita migliore. 


Di eccellente acume la disamina che lo scrittore israeliano fa del concetto di tradimento, che condivido assolutamente. Ovviamente non si tratta del tradimento meschino, quello di cui vergognarsi, da nascondere. Ma di una particolare forma di tradimento. È il caso in cui il tradimento, che tale appare agli occhi degli altri, non è affatto il contrario dell’amore, ma solo un diverso modo di esprimerlo. Il traditore viene definito tale perché cambia e non resta rigidamente fisso su un'idea. Evolve. 


È colui il quale, cambiando, diventa inviso a chi non riesce a cambiare e resta bloccato nelle sue certezze, si attira per questo il risentimento e persino l’odio del fanatico, che non ha nessuna intenzione di cambiare, ma pretenderebbe di cambiare gli altri. È un po' la caratteristica principale di ogni fanatico quella di cercare di cambiare gli altri, di fare "proselitismo" e di renderli migliori.

Il fanatico vuole il nostro bene, recita la parte dell'altruista, cerca di redimerci, così come i fondamentalisti islamici stanno cercando di convertire i moderati.


Il fanatismo è ovunque ed è anche dentro ognuno di noi, è diffuso nella banalità della vita quotidiana. È l'intolleranza di chi ritiene di essere in possesso di comportamenti virtuosi e condannerebbe alla gogna chi non si vergogna dei suoi peccati. Lo sappiamo bene oggi, quanti moralisti si trovano sui social.

Quanti moralisti dello scientismo, del progresso, del pacifismo, dell’antirazzismo, del veganesimo, dell'animalismo, del terzomondismo, della democrazia; oppure del tradizionalismo, del giustizialismo, del bigottismo, del moralismo dei costumi sessuali. Tutti fanatici pronti a puntare il dito contro di te e i tuoi peccati.


Amos Oz, pur affermando che le proprie opinioni vanno difese con convinzione, alzando perfino la voce, ritiene che queste non possano essere confuse col fanatismo della rettitudine inflessibile, piaga di molti secoli.

Conformismo, uniformità, bisogno di appartenere a qualcosa, idolatria, culto della personalità sono tutte forme di fanatismo o prodotti del fanatismo, di quello che lo scrittore definisce con efficacia: asilo globale.


L’umorismo è la vera cura contro il fanatismo dice Oz: i fanatici sono privi di senso dell’umorismo, si prendono troppo sul serio, non sanno ridere di se stessi, non riescono a vedere quanto sia buffo e infantile chi si atteggia a integerrimo. Non stiamo parlando di sarcasmo che il fanatico scambia per umorismo, il sarcasmo è rivolto sempre verso gli altri, mentre l’umorismo è anche autoironia. È vedere così come potrebbe vederti il prossimo.


In sostanza, Amos Oz ci esorta a tenere sempre vivo lo spirito critico e lo spirito autocritico, a osservarci come potrebbero vederci gli altri, a conservare la capacità di ridere di noi stessi. La vita non è una gara, oserei aggiungere, ma un’avventura da vivere in armonia con gli altri. Un immaginarci a vicenda.

E invece oggi spesso ci si riduce squallidamente al ruolo di tifosi, ad annullare ogni spirito critico e autocritico.


«Non posso fare a meno di pensare, e molto spesso, al fatto che sarebbe bastata una minima variante nei miei geni, e nelle circostanze di vita dei miei genitori, per far sì che io fossi lui o lei. Sarei potuto essere un ebreo della Cisgiordania, un estremista ultraortodosso, un ebreo orientale venuto dal Terzo mondo, chiunque altro. Sarei potuto essere uno dei miei nemici. Immaginare tutto questo è una pratica sempre utile.»


Prendendo spunto da John Donne, lo scrittore usa la metafora dell’isola e della penisola. Alla celebre frase “nessun uomo è un’isola”, aggiunge che siamo tutti penisole, legati per metà alla terraferma (famiglia, amici, cultura, tradizione, nazione, sesso…), e per metà vòlti verso l’oceano, soli verso la libertà e l’indipendenza.


Con la terza lezione ci troviamo improvvisamente catapultati nella dimensione politica del conflitto israelo-palestinese. Una cosa assolutamente condivisibile scriveva Oz: che questo è un conflitto tra due diritti, tra due legittime rivendicazioni, non è un guerra religiosa, né tra due culture. 


Anche se ognuna delle due parti, aggiungo io, dovesse credere che non sia così, perché ha più diritto a stare lì e ritiene di aver subito più torti, deve sforzarsi di adottare il punto di vista dell’altra. È questo invece il modo migliore per risolvere il problema del conflitto e arrivare ad una pace: comprendere le necessità e le ragioni del nemico. Ognuno di noi un’idea ce l’ha su diritti e colpe, anche io stesso, ma ripeterla in continuazione rigidamente, nel momento in cui si cerca una conciliazione, diventa sterile e non porta da nessuna parte.


Dove però Oz mostrava eccessivo ottimismo, era sulla convinzione che proprio per questo si potesse arrivare facilmente a una soluzione. Il problema si è radicalizzato, purtroppo, quando sono intervenuti in maniera determinante diversi attori, fondamentalisti islamici in testa, ma non solo, che hanno inteso trasformarlo proprio in un conflitto religioso e culturale, e in una contesa tra chi avesse diritto e chi no.


«Gli europei benpensanti, gli europei di sinistra, gli intellettuali europei, gli europei liberali, com’è noto, hanno sempre bisogno di sapere per prima cosa chi sono i “buoni” e chi i “cattivi” in un film.»

Non è invece così facile. Questo è uno schematismo da rigettare. Non è un film e non ci sono buoni e cattivi, né una lotta tra il bene e il male, ma appunto uno scontro tra due diritti entrambi sacrosanti ad avere una patria.


 «I palestinesi hanno loro malgrado cercato di vivere in altri paesi arabi. Sono stati respinti, talvolta persino umiliati e perseguitati dalla cosiddetta “famiglia araba”. Nel modo più doloroso, sono diventati consapevoli della loro “palestinesità”: sono stati malvoluti come libanesi, siriani, egiziani, iracheni. Hanno imparato brutalmente che sono palestinesi e che questo è l’unico paese sul quale possono contare. 


Stranamente, il popolo ebraico è come se avesse un’esperienza storica parallela a quella del popolo palestinese. Gli ebrei sono stati espulsi dall’Europa, i miei genitori sono stati letteralmente cacciati dall’Europa circa settant’anni fa. Così come i palestinesi sono stati cacciati dapprima dalla Palestina e poi da tutti i paesi arabi, o quasi. Quando mio padre era ragazzino in Polonia, le vie d’Europa erano coperte di scritte quali “Ebrei, andatevene in Palestina” quando non di formule ancora meno gentili quali “Maledetti ebrei, tornatevene in Palestina”. Quando mio padre è tornato in Europa, circa cinquant’anni dopo, i muri erano coperti di “Ebrei, fuori dalla Palestina”.»


Non esiste nessun malinteso, ognuno vuole la sua patria nella stessa terra, questo secondo Oz avrebbe dovuto garantire una perfetta comprensione tra le parti. Ma sappiamo che non è così, o almeno non è così facile. Sicuramente, e qui sono d’accordo con quanto diceva lo scrittore israeliano, questo dà la misura di una terribile tragedia. 

Quindi, qui torna il sacrosanto tema di un più che necessario compromesso, un compromesso che non sia capitolazione da parte di nessuna delle due parti.


Il problema vero purtroppo è il reciproco riconoscimento, Oz se ne rendeva benissimo conto, ma oggi le cose sono altresì peggiorate. Ed è precisamente questo il centro dell’intera questione.

Tuttavia, tendeva a precisare che lui non era pacifista nel senso romantico del termine, perché se il suo paese fosse stato minacciato di essere cancellato e il suo popolo massacrato, avrebbe giustamente combattuto di nuovo, nonostante l’età. Ma solo per questo. Ribadiva in maniera chiara e netta il sacrosanto diritto di Israele a difendere se stesso, la sua esistenza. Ed è qui che sta la nota dolente purtroppo. Oz non poteva sapere quanto si sarebbe estesa l’idea mostruosa della cancellazione di Israele.


«Ora, questo può determinare un certo iato fra me e il tipico pacifista europeo, secondo cui il male assoluto nel mondo è la guerra. Nel mio vocabolario la guerra è terribile, tuttavia il male assoluto non è la guerra, bensì l’aggressione. Se nel 1939 il mondo intero, Germania a parte, avesse ritenuto che la guerra è la cosa più tremenda che ci sia, oggigiorno Hitler sarebbe il sovrano del mondo. Pertanto, quando si riconosce l’aggressione bisogna combatterla, ovunque tragga origine. Ma solo per la vita e la libertà, non per del territorio in più o per risorse in più.»


E qui di nuovo subentra il realismo di Amos Oz, definendo un intruglio romantico quello di pace, amore e fratellanza. La gente è convinta che basterebbe fare a meno delle armi per far diventare il mondo un luogo fantastico. L’amore non è adatto a risolvere problemi di carattere internazionale. 

Abbiamo bisogno di senso di giustizia, di immaginazione e di empatia, di compromesso e di metterci nei panni degli altri, però è bene ricordare che «a volte dobbiamo fare sacrifici e concessioni, ma non per questo dobbiamo commettere un suicidio in nome della pace.»


Proprio perché l’opposto della guerra è la pace (e non l’amore, la fratellanza, o la pietà) due popoli vicini debbono poter vivere in pace, e imparare a farlo, senza odio, violenza e massacri. Non è necessario l’amore per far sì che ciò si realizzi.

Sono due popoli con una storia comune, una storia parallela di oppressione, due vittime, e questo dovrebbe bastare, ma non basta. 

Tuttavia, «Non è detto che due figli di un medesimo crudele genitore si amino a vicenda. Il più delle volte, invece, ciascuno vede nell’altro l’immagine dell’odiato genitore.»


Detto questo, però Amos Oz denuncia con altrettanta passione l’esistenza di stereotipi reciproci, alimentati anche da una parte della certa letteratura propagandistica, un prodotto catastrofico dell’ignoranza, che ha contribuito alla crescita dell’odio e alla mancata capacità di mettersi nei panni dell’altro. Il resto lo ha fatto il mancato riconoscimento, anche questo reciproco, del diritto alla stessa terra.


Di conseguenza ribadisce il sostegno alla soluzione binazionale, che oggi risulta essere invecchiata male, ma nasce da un presupposto sacrosanto: che Israele è la patria degli ebrei israeliani, e la Palestina è la patria dei palestinesi. Sappiamo però oggi quanti passi indietro in questi vent’anni siano stati fatti, purtroppo proprio su questo, e quanto sia diventata popolare anche nel mondo occidentale l’idea ignominiosa che Israele “l’entità sionista” debba essere cancellata, di conseguenza quanto si stia diffondendo di nuovo l’antisemitismo (gli insulti e le aggressioni del 25 aprile nei confronti della Brigata ebraica e degli ebrei in genere ne sono una delle tante espressioni), nonostante il crimine terribile del 7 ottobre. 


Dall’altra parte forze politiche, chiuse nel proprio identitarismo apocalittico, stanno conquistando l’egemonia, credendosi convinte che l’unica soluzione del conflitto passi attraverso una costante dimostrazione muscolare di distruttiva supremazia militare, passando anche sopra il sacrificio di numerose vite, non escluse quelle israeliane. 


Io so, come lo sapeva meglio di me Amos Oz, che Israele è l’unica vera democrazia del Medio Oriente, è una delle prime società al mondo per integrazione tra culture, etnie e religioni diverse. 

Voglio quindi raccogliere l’ottimismo di Amos Oz e sperare che gli israeliani e i palestinesi trovino al più presto la pace e il riconoscimento che meritano.


Anche oggi, nonostante tutto, non esiste altra soluzione che il compromesso. È necessario mettere in campo tutta l'intelligenza e la fantasia possibili affinché ciò possa finalmente realizzarsi. E ovviamente con classi politiche adeguate, dall’una e dall’altra parte e non certo coi fondamentalisti, coi terroristi o gli estremisti religiosi.

mercoledì 24 aprile 2024

Azar Nafisi e il fanatismo


C'è molto di me in quello che scrive l'iraniana Azar Nafisi in questi passi di "Leggere Lolita a Teheran", le stesse sensazioni, soprattutto nell'ultima citazione. Ma anche nel resto, nelle battaglie per la libertà contro lo stato d'eccezione, condotte più recentemente, molto concrete e non più così "indefinite". Poi, c'è anche la volontà di combattere ancora, anche individualmente, contro il fanatismo dalle mille facce.

Purtroppo quella consapevolezza in me è molto più vecchia e non la provo solo nei confronti dei più giovani, ma anche nei confronti di quelli che lo sono meno, e non solo nei confronti di quelli di sinistra. I compagni di strada negli ultimi anni sono stati anche altri. 

In ogni caso, anche per me vale la considerazione che è un po' come se parlassi a un altro me stesso, come se mi confrontassi costantemente con lui, senza più mistificazioni consolatorie, né illusioni.

«Gli eventi che si susseguirono quell’anno, tra l’autunno del 1979 e l’estate del 1980, cambiarono il corso della rivoluzione e della nostra vita. Si combatterono e si persero diverse battaglie, in particolare per i diritti delle donne, alle quali fin dall’inizio il governo aveva dichiarato guerra...

... quel giorno sarei andata contro ai miei princìpi, e avrei rimandato la lezione per partecipare a un corteo di protesta contro il tentativo del governo di imporre il velo alle donne e di limitarne i diritti. Per quella causa si erano già tenute diverse manifestazioni, anche molto importanti, a cui ero mancata, e non intendevo perderne altre...

...Era qualcosa di diverso dalla militanza politica del periodo universitario; allora lottavo in nome di una entità indefinita, le cosiddette «masse oppresse»; questa invece era una battaglia personale. Al tempo stesso, mi concedevo forme di ribellione ancora più private; per esempio, passavo ore e ore a leggere...

...Non avevo nessuna voglia di impelagarmi in una discussione con Mahtab e i suoi amici, la cui organizzazione marxista si era implicitamente schierata con il governo, denunciando quelle proteste come fuorvianti, perché generavano divisioni interne e facevano il gioco degli imperialisti...

... Le lotte per i diritti femminili erano roba da borghesi individualisti, e facevano solo il loro gioco...

... Purtroppo li conoscevo bene, quei ragionamenti – erano stati anche i miei, poco tempo prima.

Discutendo con i miei studenti di sinistra, avevo quasi l’impressione di parlare con una me stessa più giovane, e il luccichio che coglievo nei loro sguardi, estranei eppure familiari, mi metteva paura...»

lunedì 22 aprile 2024

Niccolò Ammaniti "Come Dio comanda" (2006)

 


Niccolò Ammaniti

"Come Dio comanda" (2006)


«Svegliati! Svegliati, cazzo!» Cristiano Zena aprì la bocca e si aggrappò al materasso come se sotto ai piedi gli si fosse spalancata una voragine.

Una mano gli strinse la gola. «Svegliati! Lo sai che devi dormire con un occhio solo. È nel sonno che t'inculano.

«Non è colpa mia. La sveglia...» farfugliò il ragazzino, e si liberò dalla morsa. Sollevò la testa dal cuscino.

Ma è notte, pensò.

Fuori dalla finestra era tutto nero tranne il cono giallo del lampione in cui affondavano fiocchi di neve grossi come batuffoli di cotone.

«Nevica» disse a suo padre, in piedi al centro della stanza.

Una striscia di luce s'infilava dal corridoio e disegnava la nuca rasata di Rino Zena, il naso a becco, i baffi e il pizzo, il collo e la spalla muscolosa. Al posto degli occhi aveva due buchi neri. Era a petto nudo.»


«Dio si accanisce sui più deboli. Tu sei medico e questo lo devi sapere. È importante, Enrico. Il male è attratto dai più poveri e dai più deboli. Quando Dio colpisce, colpisce il più debole.»


«Solo chi ha paura muore facendo stronzate come camminare su un ponte. Se a te di morire non te ne frega niente puoi stare tranquillo che non cadi. La morte se la piglia con i paurosi.»


«Aveva ripetuto "Ammazzami, ammazzami" per fargli capire che si sentiva in colpa, ma non lo voleva davvero: dentro, mai come in quel momento, aveva desiderato vivere.

Vivere. Vivere dopo aver ucciso. Vivere comunque. Vivere con il peso della colpa. Vivere in una prigione per il resto della sua vita. Vivere picchiato e disprezzato fino alla fine dei suoi giorni.

Non importava come, ma vivere.»


Nessuna particolarità sociale può essere ricondotta facilmente ad una tipologia umana classica, e neanche ad una classe economica precisa, così per come le si è conosciute storicamente. La complessità e la frammentazione del tessuto sociale è oramai cosa fatta e compiuta. Ideologia e politica, rimaste affezionate a vecchie categorie, non sono più in grado di trovare il bandolo della matassa. Inoltre la politica, per quella sua degenerazione elitista, mostra di voler comunicare per lo più solo attraverso un linguaggio opportunistico e autoreferenziale, che l'ha condannata da tempo ad essere lontana dalla società.


Detto questo, appare tutt'altro che agevole il compito di quella letteratura che intenda parlare di questioni sociali senza cadere nel luogo comune, nel clichè rassicurante, nella monotonia intimista o nello standard televisivo. C'è chi ha scelto la forma del noir o delle indagini poliziesche, con esiti diversi a seconda della fonte. Parlare di delitti può aiutare a semplificare e, parlarne nell'ambito di un'indagine più o meno perfetta, in cui i protagonisti siano isolati investigatori "don chisciotte", può aiutare ancora di più.


Ma è la letteratura di strada quella che in qualche modo viene a mancare, se si eccettua quel filone che si rifà alla storia criminale del nostro paese e che quindi è rivolto al passato, a cui però sono già in pochi a dedicarsi. Così come sono pochissimi quelli che si avventurano nella grande letteratura drammatica, se vogliamo, sociologica, sociale, quella sull’individuo solo di fronte al moloch delle varie manifestazioni del potere. Quel tipo di letteratura che ha avuto nell'ottocento esponenti quali Dickens e Dostoevskij e nel novecento, qui da noi, giganti come Kafka e Pasolini. Paragoni ingenerosi è ovvio, ma che servono a rendere l'idea.


Però c’è qualcuno che anche in Italia che questa strada in un passato recente l’aveva già tentata, mediante un respiro più ampio, la capacità di stringere sul particolare e sulle vicende individuali, è stato il Niccolò Ammaniti di alcuni romanzi, non conosco la sua produzione più recente, sono fermo a ”Io e te” del 2010. Ma a me interessa circoscrivere un periodo, solo quello, e specificatamente parlare di questo anomalo e interessante romanzo. Non ho visto il film che ne ha tratto Salvatores nel 2008, quindi qui parlerò esclusivamente del libro.


Lo scrittore Ammaniti, però, purtroppo, è oggetto di un equivoco fondamentale. Buona parte dei critici e dei lettori vedono nella sua produzione letteraria una continuità che non esiste più da molto tempo, quella della “Gioventù Cannibale”, denominazione che un ridicolo equivoco ha prodotto recentemente sui social in questa nostra disgraziata epoca da neo-moralismo stile anni cinquanta, abituati a leggere solo i titoli degli articoli o solo le copertine dei libri.


È bene, invece, saper distinguere in modo categorico tra quella che è stata la prima parte di questa produzione, quella rappresentata dai libri "Branchie" e "Fango" e quella dei tre romanzi usciti tra il 1999 e il 2006, quella che io chiamerei della trilogia sociale, come se veramente fossero scritti fa un altro scrittore.


Pur se una continuità logica può essere rintracciata in alcuni aspetti dello stile e nella vena crudelmente satirica di Ammaniti, a fine anni novanta, con l'uscita del romanzo "Ti prendo e ti porto via", ha luogo una rottura definitiva. La "Gioventù Cannibale" e la letteratura pulp non sono più luoghi a cui far riferimento, per questo diventano privi di senso logico ragionamenti riferiti a tali contesti letterari.


Lo scrittore romano si era affrancato da tempo da un certo mondo.

Se l'affermazione non risultasse preda, a sua volta di ulteriori, ridicoli equivoci, direi che Ammaniti aveva progredito e fatto il salto nella grande letteratura. Addirittura, proprio il riconoscimento massimo gli arrivò nel 2007 e proprio per questo romanzo, dall’”Olimpo” dell’alta letteratura con il Premio Strega, che ogni tanto ci azzeccava ancora. Ma tutto sommato, non è neanche questo il punto. La verità è che con i tre romanzi ("Ti prendo e ti porto via", "Io non ho paura" e "Come Dio comanda") aveva creato un universo letterario di notevole potenza narrativa.


Se, però, ho parlato di trilogia è perché vedo una continuità, non solo qualitativa e letteraria, in quanto ogni romanzo ha dei punti di contatto con gli altri due, ma perfino per elementi molto più logici e da un punto di vista strettamente legati ai meri contenuti narrativi.

Esistono delle correlazioni tra luoghi, personaggi, eventi, simboli che ne stabiliscono contorni non così definiti e che non si esauriscono all'interno dello stesso libro.


Se ne possono individuare alcune in maniera decisamente chiara.

La prima è il contesto geografico. Luoghi non ben definiti, per lo più di fantasia, in cui si inseriscono, però, elementi certi, che ne restituiscono ben definita l'ambientazione: Centro Italia in "Ti prendo e ti porto via", Sud in "Io non ho paura" e Nord in "Come Dio comanda". 


Inoltre lo sguardo prescinde dalle grandi città, dedicando attenzione alla dimensione rurale, al piccolo centro urbano e alla provincia. E questo rende ancor più scottante il senso panico di alienazione, dato che il microcosmo, come si sa, amplifica e spesso destruttura di più.


Il secondo riguarda il mondo dell'infanzia. In tutti e tre i romanzi, il protagonista è un bambino, prossimo o già nella pubertà. Un'infanzia violata, ma che non ha i tratti dell'innocenza, e che vive in contesti di emarginazione e brutalità. Da qui deriva uno degli aspetti centrali delle vicende: il rapporto padre figlio, che nell'ultimo romanzo assume connotati ancora più decisi e per nulla scontati.


La caratterizzazione nel grottesco di molte delle figure (sarei tentato di dire di tutte), fatti salvi i bambini stessi. Grottesco che assume aspetti al limite del realistico e che spesso, per fortuna, sfuma nel fantastico quando è riferito ad emarginati e borderline. Situazioni che, non solo alternano tragedia e commedia, ma che mischiano tragedia e commedia all'interno della stessa descrizione. 


Qui viene alla mente chiaro e forte il nome di Joe Lansdale, a cui Ammaniti stesso ha spesso tributato più di qualche elogio. E di conseguenza il rifiuto della letteratura da pseudo neo-realismo piccolo borghese progressista, tanto in voga nel nostro Paese.


Detto così, lo schema sembrerebbe semplificato assai, peccato e per fortuna che l'estro dello scrittore romano in queste tre opere aveva dalla sua parte la capacità di descrivere la complessità senza semplificare. Questo è forse il merito maggiore che gli va ascritto. Non c'è ansia di sintesi a tutti i costi. Anzi, non è presenta nessuna velleità a voler fare sociologia spicciola o ideologia e ciò lo salva dalla sconfitta a cui facevo riferimento all'inizio.


Personaggi quali "Quattro Formaggi", Danilo e Rino Zena, nelle loro particolari caratteristiche, non esistono nella realtà, non perchè prodotti di fantasia, ma perchè sono unici e irripetibili, come sono unici e irripetibili tutti gli "attori" della vita quotidiana, i quali attraverso le loro storie, la loro sofferenza e le loro esperienze, non possono essere ridotti a nessuna categoria nello specifico. 


Vite che sono frutto anche di un'atomizzazione del tessuto sociale, che ha prodotto solitudine e alienazione in gradazioni diverse e a secondo del livello di emarginazione. Questo in fondo è l'unico elemento, per così dire, sociologico certo e che in qualche modo potrebbe avere valenza assoluta.


In "Come Dio comanda" tutti questi elementi si trovano a convergere, estremizzati dall'elemento ultimo, rappresentato da una delle espressioni, tutt'altro che minoritaria, dello spirito religioso della nostra epoca, che bene faremmo a chiamare con il suo nome: delirio mistico, il cui sommo sacerdote è la televisione. 


Una televisione non solo pervasiva, ma che perde anche di significato razionale, acquisendo quello di entità metafisica volta alla trasformazione antropologica, della quale non hanno più importanza i messaggi in quanto tali, ma la loro fruizione in termini di passività assoluta. 


E tutto questo quando ancora non c’erano i social, che come sappiamo hanno dato il loro contributo, come amplificatori della TV, nonostante le comiche e grottesche dichiarazioni di molti suoi frequentatori che non ne usufruirebbero mai, quindi sarebbero salvi dal suo mefistofelico influsso, mentre nessuno, dato l’effetto amplificativo, può definirsi salvo.


Un nuova frontiera della comunicazione quindi, che prescinde dalla ragione e si affida al trascendente, facendo quasi da mediatore per l'ultima possibilità umana, quella dell'individuo che resta da solo con la sua personale idea di Dio, pregna di superstizione, e, come dicevo, degenerata fino al puro delirio, alienato, lontano da Dio stesso.


Il taglio tragicomico e la farsa grottesca fanno da ulteriore corollario a storie di "ordinaria disperazione", seppure il mondo infantile cerca di proporre un'alternativa di lucida speranza, anche se possiede la sola intensità di un piccolo lieve lumicino.


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