giovedì 25 aprile 2024

Amos Oz, “Contro il fanatismo” (2002)

 


Classici della saggistica


Amos Oz, “Contro il fanatismo” (2002)


«Il più delle volte il fanatico riesce a contare solo fino a uno, perché due è un’entità troppo grande per lui. Al tempo stesso i fanatici sono quasi sempre degli incorreggibili romantici, preferiscono il sentimento al pensiero, e sono affascinati dalla loro stessa morte. Disprezzano questo mondo e lo barattano volentieri in cambio del “cielo”. Il loro cielo, a ogni buon conto, è normalmente concepito in maniera non dissimile dal lieto fine di un brutto film.»


«Il mantra d’obbligo per i movimenti ideologici nella prima metà del secolo era “il domani sarà migliore – facciamo sacrifici oggi”, e imponiamo anche sacrifici agli altri oggi, così che i nostri figli ereditino un paradiso nel futuro. Più o meno intorno alla metà del secolo, tale convincimento è stato sostituito da quello della felicità istantanea, non tanto il famoso diritto di lottare per la felicità, piuttosto quell’illusione così diffusa oggigiorno di trovare la felicità in bella mostra sui banchi, per cui non c’è altro da fare che diventare ricchi abbastanza da potersi permettere la felicità, a colpi di portafoglio. La nozione di “felicemente per l’eternità”, l’illusione di una felicità durevole, è in realtà un ossimoro. O calma piatta o vetta. La felicità eterna non è tale, proprio come un orgasmo perenne non è affatto un orgasmo.»


« Ogni estremismo, ogni crociata oltranzista, ogni forma di fanatismo, in Shakespeare si conclude in una tragedia o in una commedia. Il fanatico non è mai più felice o più appagato, alla fine: o è morto o diventa una burla. Questo è un buon coadiuvante. Anche Gogol’ può risultare utile: Gogol’ rende noi lettori grottescamente consapevoli di quanto poco sappiamo, anche quando siamo convinti di avere ragione al cento per cento. Gogol’ ci insegna che il naso può diventare un nemico acerrimo, un nemico financo fanatico, e che ti puoi ritrovare fanaticamente in caccia del tuo stesso naso. Una lezione niente affatto male, mi pare. Kafka è un buon educatore a tale proposito, per quanto sono sicuro che egli stesso non abbia mai pensato di avere in sé un potenziale contro il fanatismo; e tuttavia Kafka ci dimostra che c’è buio e c’è mistero e c’è scherno anche quando siamo convinti di non avere fatto nulla di male. E questo serve.»


Ci sono letture che ho incontrato a un certo punto della mia esistenza, che sono state, non solo rivelatrici, che hanno contribuito ad aiutarmi a squarciare il velo che ricopre i miei occhi, ma vanno anche oltre, è come se fosse destino che io le abbia incontrate in quel preciso istante. Ed è quello che è accaduto anche con la lettura di “Contro il fanatismo”.


È difficile rimanere indifferenti di fronte a questo piccolo saggio di Amos Oz, uomo di grande sensibilità umana e di alto profilo intellettuale e letterario. La sua battaglia contro il fanatismo è assai coinvolgente. È una battaglia che trovo personalmente molto significativa, una delle poche che vale la pena di intraprendere, e che si può praticare anche individualmente, anzi, la sfera individuale è forse quella più coinvolta. La si può praticare anche partendo dal combattere il fanatismo che si trova dentro ognuno di noi.


Il libro riporta tre lezioni tenute a gennaio del 2002 sul fanatismo e sulle tante implicazioni legate a questo aspetto del carattere umano.

Mentre le prime due lezioni appaiono strettamente collegate ad una dimensione esistenziale, che trascende i luoghi e i tempi, la terza è relativa all'azione da intraprendere per favorire il processo di pace in Israele, in Palestina e, più in generale, nel Medio Oriente, ed è, quindi, più specificatamente politica e molto strettamente legata a quel preciso contesto storico. 


Purtuttavia, anche se è percepibile una “frattura” con le altre due lezioni, a quel tempo, in fondo, ne era anche l’evidente e inevitabile logica prosecuzione, tenuto conto soprattutto del particolare tipo di pacifismo in cui credeva Amos Oz, sicuramente più pragmatico che idealista.


Sono passati ventidue anni da allora e la terza lezione è ovviamente assai datata: lo scrittore israeliano non poteva sapere cosa sarebbe effettivamente accaduto, un ventennio in cui il processo di pace è degenerato, culminato con l’orrendo pogrom di Hamas del 7 ottobre e il conseguente tremendo bombardamento di Gaza. I suoi timori peggiori, che si leggono tra le righe hanno avuto conferma, e il suo ottimismo è stato purtroppo smentito. Conserva però tutta la sua attualità. Il suo messaggio resta intatto.


Resta però ancora da capire se la pace e la convivenza tra i due popoli da lui auspicata sia ancora possibile. Una cosa è certa: la sua morte nel 2018 ci ha lasciato un grande vuoto. E queste tre lezioni, nonostante l’inevitabile contestualizzazione, possono insegnarci molto. Per quanto mi riguarda, molte delle sue argomentazioni hanno fatto breccia nella mia mente e nel mio cuore.

Oz deve molto del suo pensiero e della sua formazione culturale, alla sua storia personale: era nato in seno a una famiglia ebrea dalla grande cultura, che si sentiva profondamente europea, e che fu costretta ad emigrare in Palestina tra gli anni venti e gli anni trenta.


Credo che, comunque, anche se le tre lezioni siano inscindibili, l’aspetto più interessante del saggio, e che ha un significato universale, applicabile a ogni contesto storico e geografico, sia l'analisi che Oz fa in senso più generale del fanatismo come fenomeno tout court.

Il ragionamento dello scrittore ha origine da un semplice e autentico sentimento di identificazione: l’abitudine, che gli deriva proprio dalla sua attività di scrittore, di osservare e mettersi nei panni degli altri, non necessariamente di giustificarli, ma nel riuscire a vedere dal loro punto di vista. Una qualità che, nell'applicazione della vita quotidiana, può tramutarsi in scelta etica.


Amos Oz si dice convinto che ogni situazione conflittuale può essere risolta col compromesso. Quando parla di compromesso non intende capitolazione, né porgere l’altra guancia all’avversario. Ma un atto necessario, un atto purtroppo doloroso, ma appunto necessario.

«Intendo incontrare l’altro, più o meno a metà strada. Comunque non esistono compromessi felici: un compromesso felice è una contraddizione. Un ossimoro.»


Quindi, praticare il compromesso vuol dire dare forma concreta alla battaglia contro il fanatismo, non relegarla solo in una sfera astratta dell’eticità, ma conferirle la concretezza del realismo, perché tale battaglia diventa un conflitto tra fanatismo e pragmatismo, tra fanatismo e pluralismo, tra fanatismo e tolleranza. Perché la vita viene prima di ogni altra cosa. È più preziosa delle fedi, dei valori, delle convinzioni e persino del vago e relativo concetto di giustizia. Perché è loro parte integrante. Cosa sono tutte queste cose prive di tolleranza e pluralismo?


Un'osservazione mi pare più che lecita a questo punto, un'osservazione che anticipi alcune scontate obiezioni, per esempio di chi ha un approccio superficiale ai conflitti: e cioè che tutto ciò può apparire conforme alla banale logica delle ovvie e formali relazioni e convenzioni sociali, e che il compromesso in fondo sia funzionale al potere dominante. Ed è invece quanto di meno conforme, di ovvio, di più eretico e di più ardito vi possa essere, in un mondo in cui domina quasi incontrastato il fanatismo. Quanto siano impopolari oggi questi principi, lo sappiamo benissimo, in un mondo in cui le posizioni vengono estremizzate, accompagnate da un’enfasi piena di retorica.


E infatti: «Siamo invece di fronte alla consueta pretesa del fanatismo: visto che secondo me qualcosa è male, la elimino insieme a ciò che le sta intorno. Il fanatismo è più antico dell’islam, del cristianesimo, dell’ebraismo, più antico di ogni stato o governo, d’ogni sistema politico, più antico di tutte le ideologie e di tutte le confessioni del mondo. Il fanatismo è, disgraziatamente, una componente onnipresente della natura umana; un gene perverso, se volete chiamarlo così.»


Il fanatismo e la disperazione sono spesso due compagni inseparabili, costituiscono una forma di reazione violenta all’umiliazione e alla sottomissione. E con i disperati è forse impossibile generare speranza, ma se non lo si può fare con i fanatici, occorre farlo coi moderati, perché Oz è giustamente convinto che i moderati presenti all’interno di ogni società siano in grado di arginare i fondamentalismi. 


Ne consegue ovviamente, che solo l’Islam moderato possa fermare quello fondamentalista. 

Questo, a mio parere, è un punto chiave di tutto il ragionamento di Oz: il fondamentalismo trae, infatti, linfa vitale dal fanatismo. Per ottenere questo cambiamento bisogna comunque dare speranza e fornire un’alternativa alle persone affinché sia possibile intravedere una vita migliore. 


Di eccellente acume la disamina che lo scrittore israeliano fa del concetto di tradimento, che condivido assolutamente. Ovviamente non si tratta del tradimento meschino, quello di cui vergognarsi, da nascondere. Ma di una particolare forma di tradimento. È il caso in cui il tradimento, che tale appare agli occhi degli altri, non è affatto il contrario dell’amore, ma solo un diverso modo di esprimerlo. Il traditore viene definito tale perché cambia e non resta rigidamente fisso su un'idea. Evolve. 


È colui il quale, cambiando, diventa inviso a chi non riesce a cambiare e resta bloccato nelle sue certezze, si attira per questo il risentimento e persino l’odio del fanatico, che non ha nessuna intenzione di cambiare, ma pretenderebbe di cambiare gli altri. È un po' la caratteristica principale di ogni fanatico quella di cercare di cambiare gli altri, di fare "proselitismo" e di renderli migliori.

Il fanatico vuole il nostro bene, recita la parte dell'altruista, cerca di redimerci, così come i fondamentalisti islamici stanno cercando di convertire i moderati.


Il fanatismo è ovunque ed è anche dentro ognuno di noi, è diffuso nella banalità della vita quotidiana. È l'intolleranza di chi ritiene di essere in possesso di comportamenti virtuosi e condannerebbe alla gogna chi non si vergogna dei suoi peccati. Lo sappiamo bene oggi, quanti moralisti si trovano sui social.

Quanti moralisti dello scientismo, del progresso, del pacifismo, dell’antirazzismo, del veganesimo, dell'animalismo, del terzomondismo, della democrazia; oppure del tradizionalismo, del giustizialismo, del bigottismo, del moralismo dei costumi sessuali. Tutti fanatici pronti a puntare il dito contro di te e i tuoi peccati.


Amos Oz, pur affermando che le proprie opinioni vanno difese con convinzione, alzando perfino la voce, ritiene che queste non possano essere confuse col fanatismo della rettitudine inflessibile, piaga di molti secoli.

Conformismo, uniformità, bisogno di appartenere a qualcosa, idolatria, culto della personalità sono tutte forme di fanatismo o prodotti del fanatismo, di quello che lo scrittore definisce con efficacia: asilo globale.


L’umorismo è la vera cura contro il fanatismo dice Oz: i fanatici sono privi di senso dell’umorismo, si prendono troppo sul serio, non sanno ridere di se stessi, non riescono a vedere quanto sia buffo e infantile chi si atteggia a integerrimo. Non stiamo parlando di sarcasmo che il fanatico scambia per umorismo, il sarcasmo è rivolto sempre verso gli altri, mentre l’umorismo è anche autoironia. È vedere così come potrebbe vederti il prossimo.


In sostanza, Amos Oz ci esorta a tenere sempre vivo lo spirito critico e lo spirito autocritico, a osservarci come potrebbero vederci gli altri, a conservare la capacità di ridere di noi stessi. La vita non è una gara, oserei aggiungere, ma un’avventura da vivere in armonia con gli altri. Un immaginarci a vicenda.

E invece oggi spesso ci si riduce squallidamente al ruolo di tifosi, ad annullare ogni spirito critico e autocritico.


«Non posso fare a meno di pensare, e molto spesso, al fatto che sarebbe bastata una minima variante nei miei geni, e nelle circostanze di vita dei miei genitori, per far sì che io fossi lui o lei. Sarei potuto essere un ebreo della Cisgiordania, un estremista ultraortodosso, un ebreo orientale venuto dal Terzo mondo, chiunque altro. Sarei potuto essere uno dei miei nemici. Immaginare tutto questo è una pratica sempre utile.»


Prendendo spunto da John Donne, lo scrittore usa la metafora dell’isola e della penisola. Alla celebre frase “nessun uomo è un’isola”, aggiunge che siamo tutti penisole, legati per metà alla terraferma (famiglia, amici, cultura, tradizione, nazione, sesso…), e per metà vòlti verso l’oceano, soli verso la libertà e l’indipendenza.


Con la terza lezione ci troviamo improvvisamente catapultati nella dimensione politica del conflitto israelo-palestinese. Una cosa assolutamente condivisibile scriveva Oz: che questo è un conflitto tra due diritti, tra due legittime rivendicazioni, non è un guerra religiosa, né tra due culture. 


Anche se ognuna delle due parti, aggiungo io, dovesse credere che non sia così, perché ha più diritto a stare lì e ritiene di aver subito più torti, deve sforzarsi di adottare il punto di vista dell’altra. È questo invece il modo migliore per risolvere il problema del conflitto e arrivare ad una pace: comprendere le necessità e le ragioni del nemico. Ognuno di noi un’idea ce l’ha su diritti e colpe, anche io stesso, ma ripeterla in continuazione rigidamente, nel momento in cui si cerca una conciliazione, diventa sterile e non porta da nessuna parte.


Dove però Oz mostrava eccessivo ottimismo, era sulla convinzione che proprio per questo si potesse arrivare facilmente a una soluzione. Il problema si è radicalizzato, purtroppo, quando sono intervenuti in maniera determinante diversi attori, fondamentalisti islamici in testa, ma non solo, che hanno inteso trasformarlo proprio in un conflitto religioso e culturale, e in una contesa tra chi avesse diritto e chi no.


«Gli europei benpensanti, gli europei di sinistra, gli intellettuali europei, gli europei liberali, com’è noto, hanno sempre bisogno di sapere per prima cosa chi sono i “buoni” e chi i “cattivi” in un film.»

Non è invece così facile. Questo è uno schematismo da rigettare. Non è un film e non ci sono buoni e cattivi, né una lotta tra il bene e il male, ma appunto uno scontro tra due diritti entrambi sacrosanti ad avere una patria.


 «I palestinesi hanno loro malgrado cercato di vivere in altri paesi arabi. Sono stati respinti, talvolta persino umiliati e perseguitati dalla cosiddetta “famiglia araba”. Nel modo più doloroso, sono diventati consapevoli della loro “palestinesità”: sono stati malvoluti come libanesi, siriani, egiziani, iracheni. Hanno imparato brutalmente che sono palestinesi e che questo è l’unico paese sul quale possono contare. 


Stranamente, il popolo ebraico è come se avesse un’esperienza storica parallela a quella del popolo palestinese. Gli ebrei sono stati espulsi dall’Europa, i miei genitori sono stati letteralmente cacciati dall’Europa circa settant’anni fa. Così come i palestinesi sono stati cacciati dapprima dalla Palestina e poi da tutti i paesi arabi, o quasi. Quando mio padre era ragazzino in Polonia, le vie d’Europa erano coperte di scritte quali “Ebrei, andatevene in Palestina” quando non di formule ancora meno gentili quali “Maledetti ebrei, tornatevene in Palestina”. Quando mio padre è tornato in Europa, circa cinquant’anni dopo, i muri erano coperti di “Ebrei, fuori dalla Palestina”.»


Non esiste nessun malinteso, ognuno vuole la sua patria nella stessa terra, questo secondo Oz avrebbe dovuto garantire una perfetta comprensione tra le parti. Ma sappiamo che non è così, o almeno non è così facile. Sicuramente, e qui sono d’accordo con quanto diceva lo scrittore israeliano, questo dà la misura di una terribile tragedia. 

Quindi, qui torna il sacrosanto tema di un più che necessario compromesso, un compromesso che non sia capitolazione da parte di nessuna delle due parti.


Il problema vero purtroppo è il reciproco riconoscimento, Oz se ne rendeva benissimo conto, ma oggi le cose sono altresì peggiorate. Ed è precisamente questo il centro dell’intera questione.

Tuttavia, tendeva a precisare che lui non era pacifista nel senso romantico del termine, perché se il suo paese fosse stato minacciato di essere cancellato e il suo popolo massacrato, avrebbe giustamente combattuto di nuovo, nonostante l’età. Ma solo per questo. Ribadiva in maniera chiara e netta il sacrosanto diritto di Israele a difendere se stesso, la sua esistenza. Ed è qui che sta la nota dolente purtroppo. Oz non poteva sapere quanto si sarebbe estesa l’idea mostruosa della cancellazione di Israele.


«Ora, questo può determinare un certo iato fra me e il tipico pacifista europeo, secondo cui il male assoluto nel mondo è la guerra. Nel mio vocabolario la guerra è terribile, tuttavia il male assoluto non è la guerra, bensì l’aggressione. Se nel 1939 il mondo intero, Germania a parte, avesse ritenuto che la guerra è la cosa più tremenda che ci sia, oggigiorno Hitler sarebbe il sovrano del mondo. Pertanto, quando si riconosce l’aggressione bisogna combatterla, ovunque tragga origine. Ma solo per la vita e la libertà, non per del territorio in più o per risorse in più.»


E qui di nuovo subentra il realismo di Amos Oz, definendo un intruglio romantico quello di pace, amore e fratellanza. La gente è convinta che basterebbe fare a meno delle armi per far diventare il mondo un luogo fantastico. L’amore non è adatto a risolvere problemi di carattere internazionale. 

Abbiamo bisogno di senso di giustizia, di immaginazione e di empatia, di compromesso e di metterci nei panni degli altri, però è bene ricordare che «a volte dobbiamo fare sacrifici e concessioni, ma non per questo dobbiamo commettere un suicidio in nome della pace.»


Proprio perché l’opposto della guerra è la pace (e non l’amore, la fratellanza, o la pietà) due popoli vicini debbono poter vivere in pace, e imparare a farlo, senza odio, violenza e massacri. Non è necessario l’amore per far sì che ciò si realizzi.

Sono due popoli con una storia comune, una storia parallela di oppressione, due vittime, e questo dovrebbe bastare, ma non basta. 

Tuttavia, «Non è detto che due figli di un medesimo crudele genitore si amino a vicenda. Il più delle volte, invece, ciascuno vede nell’altro l’immagine dell’odiato genitore.»


Detto questo, però Amos Oz denuncia con altrettanta passione l’esistenza di stereotipi reciproci, alimentati anche da una parte della certa letteratura propagandistica, un prodotto catastrofico dell’ignoranza, che ha contribuito alla crescita dell’odio e alla mancata capacità di mettersi nei panni dell’altro. Il resto lo ha fatto il mancato riconoscimento, anche questo reciproco, del diritto alla stessa terra.


Di conseguenza ribadisce il sostegno alla soluzione binazionale, che oggi risulta essere invecchiata male, ma nasce da un presupposto sacrosanto: che Israele è la patria degli ebrei israeliani, e la Palestina è la patria dei palestinesi. Sappiamo però oggi quanti passi indietro in questi vent’anni siano stati fatti, purtroppo proprio su questo, e quanto sia diventata popolare anche nel mondo occidentale l’idea ignominiosa che Israele “l’entità sionista” debba essere cancellata, di conseguenza quanto si stia diffondendo di nuovo l’antisemitismo (gli insulti e le aggressioni del 25 aprile nei confronti della Brigata ebraica e degli ebrei in genere ne sono una delle tante espressioni), nonostante il crimine terribile del 7 ottobre. 


Dall’altra parte forze politiche, chiuse nel proprio identitarismo apocalittico, stanno conquistando l’egemonia, credendosi convinte che l’unica soluzione del conflitto passi attraverso una costante dimostrazione muscolare di distruttiva supremazia militare, passando anche sopra il sacrificio di numerose vite, non escluse quelle israeliane. 


Io so, come lo sapeva meglio di me Amos Oz, che Israele è l’unica vera democrazia del Medio Oriente, è una delle prime società al mondo per integrazione tra culture, etnie e religioni diverse. 

Voglio quindi raccogliere l’ottimismo di Amos Oz e sperare che gli israeliani e i palestinesi trovino al più presto la pace e il riconoscimento che meritano.


Anche oggi, nonostante tutto, non esiste altra soluzione che il compromesso. È necessario mettere in campo tutta l'intelligenza e la fantasia possibili affinché ciò possa finalmente realizzarsi. E ovviamente con classi politiche adeguate, dall’una e dall’altra parte e non certo coi fondamentalisti, coi terroristi o gli estremisti religiosi.

Nessun commento:

Posta un commento

Ogni commento, prima di essere pubblicato, verrà sottoposto ad autorizzazione. Grazie

Fëdor Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo” (1864)

Classici Fëdor Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo” (1864) «Sia l’autore delle memorie che le «Memorie» stesse sono, ovviamente, immaginari...