mercoledì 15 maggio 2024

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

 


Cinema

Cult movie


“Otello” (1951)

regia di Orson Welles


con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier.


«Fosse piaciuto al cielo

Di mettermi alla prova col dolore,

Di far piovere sul mio capo nudo

Ogni sorta di piaghe e di abomini,

Di sprofondarmi nella povertà

Fino a sopra le labbra, incarcerarmi

Con tutte le mie più alte speranze,

Avrei sempre trovato in qualche angolo

Dell’anima una goccia di pazienza.

Ma trasformarmi in una cifra fissa

Su cui punta il suo lento dito immobile

Questo tempo di scherno!

Avrei però potuto sopportare

Molto bene anche questo.

Ma essere scacciato dal granaio

In cui avevo riposto tutto il cuore,

Dal luogo dove vivere o morire,

Dalla sorgente da cui la mia linfa

Scorre o si inaridisce! Rinunciarvi,

O mantenerla come un pozzo osceno

In cui luridi rospi si aggrovigliano

Moltiplicandosi! Cambia volto, Pazienza,

Giovane cherubino dalle labbra di rosa,

Ed assumi l’aspetto dell’inferno.»


Vidi questo film per la prima volta una trentina di anni fa.

Rivederlo oggi, mi fa un effetto molto particolare, come se percepissi una maggiore intensità e riuscissi a individuare collegamenti narrativi del tutto inediti. 

Anche se le sensazioni sono simili, è inevitabile una certa sfasatura non solo temporale, ma anche nella sostanza del dramma, di cui sono fatti appunto i sogni shakespeariani, e di cui sono fatti anche i miei.


La tragedia umana in questi trent'anni ho avuto modo di conoscerla più approfonditamente, così come le relazioni di potere.

Lo vidi allora in originale sottotitolato, durante una notte da Fuori Orario in tutti i sensi. Adesso, invece, doppiato in italiano, ma, caso raro, doppiato in maniera pregevole.


Orson Welles diede vita ad una versione molto rigorosa nella trama, anche se assai personale. Tanto da rendere quasi nulla una distinzione con la struttura narrativa originale. I tempi e il testo, ovviamente, sono abbreviati a beneficio della dilatazione delle immagini. Il cinema è cinema e non è teatro, e non lo è neanche quando lo sussume, lo assorbe. Le suggestioni della regia di Welles, comunque sia, rendono un grande servizio al capolavoro shakespeariano.


L'uso del bianco e nero, abbinato alla recitazione, è più che appropriato, conferisce all’opera teatrale un accento espressionista che esalta i contrasti. La penombra, i chiaroscuri, il mare tempestoso che si infrange sulla scogliera di Cipro, il maniero con quei suoi sotterranei da cripta da film horror, rendono perfettamente l'idea delle passioni e della trappola che si chiude lentamente su tutti i protagonisti. 


E poi, c'è il ritmo. Un ritmo incessante, che mozza il respiro. Un ritmo dell’inevitabilità della tragedia.

È il dramma per eccellenza dell’intrigo, dell'inganno, della gelosia, dell'odio, del pregiudizio e dell'autodistruttività. Una delle mie tragedie preferite del Bardo.

Iago, prigioniero di un odio che lo consuma, è un ragno che tesse la sua tela, dove sarà destino che debba finire lui stesso.


Tuttavia, non è Iago l'unico colpevole. È il capovolgimento del pregiudizio, che subisce e modella la personalità di Otello, misto al potere che ottenebra la mente. Le visioni prospettiche, che si allungano per poi accorciarsi fino ai primi piani, mettono in maggior risalto tutto ciò.


È l'inettitudine stessa delle altre figure sulla scena, il moralismo delle convenzioni sociali che pervade l’animo dei carnefici che li contamina e che inevitabilmente li condanna insieme alle vittime innocenti: Desdemona ed Emilia. Questi aspetti nella pellicola di Orson Welles si enfatizzano e, contemporaneamente, si disperdono nelle onde del mare, nei recessi oscuri del castello. È un po' un “Ivan il Terribile” in salsa shakespeariana la versione della tragedia che ci offre il regista americano.


La recitazione è straordinaria: Orson Welles è un maestoso e fosco Otello e Michael MacLiammoir è un agghiacciante e viscido Iago.

L'inizio cupo e ineluttabile della sequenza del funerale, mi porta emotivamente a fare anche oggi, come allora, al tempo della prima visione, accostamenti forse non appropriati coi film di Bergman, Dreyer, Ėjzenštejn, Murnau e Lang. Ma, si sa, le suggestioni soggettive nelle arti visive si nutrono di catalogazioni arbitrarie, e il cinema di Welles vive di molte connessioni con certo cinema europeo.

domenica 12 maggio 2024

Azar Nafisi, “Leggere Lolita a Teheran” (2003)

 


Classici 


Azar Nafisi, “Leggere Lolita a Teheran” (2003)


«I personaggi e le vicende descritti nel libro differiscono in parte da quelli reali; ciò nell’intento di sottrarre le persone coinvolte non solo alle maglie della censura, ma anche alla curiosità morbosa di coloro che leggono racconti come questo per scoprire chi è chi e chi ha fatto cosa a chi, e che per supplire al vuoto della propria esistenza si immischiano in quelle altrui. I fatti qui raccontati sono veri, almeno nella misura in cui possono esserlo i ricordi; tuttavia, ho cercato con ogni mezzo di proteggere amici e studenti, dando loro nomi diversi e confondendo i dettagli delle loro vite, sino a renderli irriconoscibili anche a se stessi, in modo da porne al sicuro i segreti.»


«A differenza della passata generazione di scrittori e intellettuali, quelli con cui ero cresciuta e di cui ora facevo parte, le mie ragazze non erano interessate alle ideologie o alla politica. Invece erano attratte, quasi irretite dalle opere che sia il regime sia gli intellettuali rivoluzionari censuravano e mettevano all’indice. Prima della rivoluzione non era così; adesso invece gli «scrittori non rivoluzionari», quelli con la S maiuscola, erano i più amati dai giovani: James, Nabokov, Virginia Woolf, Bellow, Jane Austen e Joyce erano venerati come gli ambasciatori di quel mondo proibito che ai nostri occhi appariva più puro e dorato di quanto non fosse realmente.»


«Solo attraverso la letteratura ci si può mettere nei panni di qualcun altro, comprenderlo negli aspetti più reconditi e contraddittorii del suo carattere ed evitare così di emettere condanne troppo severe. Al di fuori della sfera letteraria, di una persona si riesce a cogliere soltanto la superficie. Ma se si arriva a capire davvero qualcuno, a conoscerlo, non è facile mandarlo al patibolo …»


«Ma questo è un paese islamico!» replicò Nyazi con foga. «E questa è la legge, e chiunque...».

«La legge?» si intromise Vida. «Arrivate voi e le cambiate, le leggi. Anche portare la stella gialla nella Germania nazista era legge. E gli ebrei dovevano star zitti e obbedire solo perché lo diceva quello schifo di legge?».

«Oh,» esclamò Zarrin, sarcastica «lascia perdere. Di sicuro per lui erano tutti sionisti che hanno avuto quello che si meritavano».


«La mia fantasia ricorrente è che alla Carta dei Diritti dell’Uomo venga aggiunta la voce: diritto all’immaginazione. 

Ormai mi sono convinta che la vera democrazia non può esistere senza la libertà di immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri e desideri; bisogna che il tuo mondo privato possa sempre comunicare col mondo di tutti. Altrimenti, come facciamo a sapere che siamo esistiti?

I fatti concreti di cui parliamo non esistono, se non vengono ricreati e ripetuti attraverso le emozioni, i pensieri e le sensazioni».


«Vivere nella Repubblica islamica dell’Iran è come fare sesso con un uomo che ti disgusta».


Dopo aver parlato di Marjane Satrapi, non si può non ricordare Azar Nafisi, un’altra famosa scrittrice esule iraniana e non si può non ricordare il suo capolavoro “Leggere Lolita a Teheran”, uscito nello stesso periodo di “Persepolis”, e che è esattamente autobiografico come lo è quello della Satrapi, anche se prende forma dai ricordi della vita di una donna già matura, e comincia, più o meno, nell’anno in cui “Persepolis” si era interrotto, nel 1995. 


Questo romanzo è l’espressione più viva dell’erompere della libertà in una coscienza tormentata e oppressa dal regime totalitario iraniano.

È un libro molto utile a ricostruire l’origine di un percorso che ha portato la società iraniana al livello di spossessamento attuale della propria identità culturale, a favore di un regime oscurantista, ma anche all’alta conflittualità degli ultimi anni in opposizione all’islamismo da parte di despoti, completamente ciechi a ogni firma di tolleranza. L’arco di tempo è ristretto, e la narrazione si ferma ai primissimi anni del nuovo millennio, ma non è difficile capire e immaginare quanto valga anche per la situazione odierna.


“Leggere Lolita a Teheran” non è solo un tributo a Nabokov e alle sue opere, è un inno alla letteratura, a quanto possa essere determinante il suo ruolo nell’esistenza, a quanto peso abbia non solo come semplice rifugio, ma anche come strumento per coltivare lo spirito di ribellione allo status quo; soprattutto quando diventa essenziale per la consapevolezza della propria condizione umana, sia nei panni dello scrittore, che in quello del lettore, oppure, ancora, in quelli del lettore/scrittore, come nel caso della Nafisi.


Ciò assume un valore intrinseco ancora più potente in un regime con una censura che superava i limiti del paradosso e che non dava alcuna importanza alla letteratura, a meno che non svolgesse un ruolo di propaganda a favore dell’ideologia degli Ayatollah. Ogni gesto, anche quello più intimo, banale della vita quotidiana doveva essere interpretato attraverso le lenti deformate del fanatismo religioso.

È la storia della graduale costruzione di un’ideologia totalitaria, insieme al collaborazionismo di tanti piccoli Eichmann e alla formazione di varie tipologie di opposizione.


La scrittrice torna anche indietro più volte nel tempo a cominciare da lei bambina, passando per l'arresto del padre, il più giovane sindaco di Teheran, fino al ritorno nel 1979. Aveva lasciato l’Iran a tredici anni, e vi era tornata diciassette anni dopo. Lo lascerà poi definitivamente nel 1997.

Narra della sua gioventù “rivoluzionaria” negli USA, con poche certezze, tante perplessità e molte delusioni.

Era tornata proprio nel 1979, quell’anno così sconvolgente, quando, poco dopo il rientro, le fu affidata una cattedra all'università.


Non è solo un romanzo storico che racconta minuziosamente un pezzo della storia dell’Iran, e non solo un romanzo sui libri, un'affascinante analisi di critica letteraria, è anche uno straordinario romanzo sul senso della vita, sulla vita privata di Nazar e delle sue straordinarie allieve.

Il libro è diviso in quattro parti: la prima si intitola “Lolita” ed è ispirata a Vladimir Nabokov, la seconda “Gatsby”, a Francis Scott Fitzgerald, la terza “James”, a Henry James, la quarta “Austen”, ovviamente, a Jane Austen.


Le parti così divise, anche se intenzionalmente dominate dalle figure dei quattro scrittori, non vanno intese come strettamente dedicate esclusivamente a loro. 

La narrazione, è in questo senso assai fluida, si passa da un autore all’altro, così come si parla di molti altri autori. Questi quattro però dominano in qualche modo la scena, e offrono alla scrittrice la possibilità di mettere un ordine logico al racconto di fatti, storie, abusi e soprusi sotto il regime della Repubblica islamica e, nello specifico, della sottomissione delle donne.


Il romanzo narra dell’esperienza della Nafisi come insegnante di letteratura inglese a Teheran, della scelta di tenere un seminario, tramite lezioni settimanali, a casa sua a sette ragazze, dopo la decisione di interrompere l’insegnamento universitario, a causa delle pressioni subite dal regime, nonostante “Allameh Tabatabai” fosse considerata l’università più “liberale” di tutto l’Iran.

Tuttavia, le lezioni non si limitarono solo al periodo del seminario. Erano iniziate già anni prima all’università e il romanzo parla anche di queste, quando la Nafisi si volge verso il passato. 


La scrittrice cerca di ricordare come avvenne che Khomeini e i fondamentalisti presero il potere, nel confuso contesto “rivoluzionario”, delle illusioni di cambiamento delle altre forze politiche, messe in poco tempo fuori legge, della stolta complicità iniziale della sinistra. 

Nel frattempo, la banalità del male avanzava a grandi passi. E una notte di incubo si stava stendendo sull’Iran.

Racconta inoltre della lunga guerra con l’Iraq, di quanto fosse difficile vivere in quella realtà sconvolgente, aggravata dalla atmosfera oppressiva creata dal regime islamista.


Scegliere “Lolita” non atteneva però al fatto che il romanzo di Nabokov poteva essere letto come una precisa critica metaforica alla Repubblica islamica, ma perché era «una denuncia dell’essenza stessa di ogni totalitarismo».

La Nafisi per motivare ciò, offre un’interpretazione di “Lolita” molto suggestiva e particolareggiata, piena di fascino. 

Lei e le sue allieve sono dalla parte della vittima Lolita. Nabokov aveva reso perfettamente il punto di vista del malvagio che cerca di sedurre e di suscitare simpatia, perfino empatia. È un'analisi assai minuziosa, del tutto originale, insolita, per dei versi anche inedita. Non mi è mai capitato di leggerne un’altra altrettanto puntuale e significativa, di una linearità disarmante.


Gli episodi di intolleranza all’interno dell’università colpivano maggiormente le studentesse, sottoposte, per ogni minima violazione del comportamento conforme alla morale della Repubblica, al supplizio delle punizioni e delle ammende, ecco quindi, il più preciso parallelismo con “Lolita”. Tuttavia, ce n’è anche un altro: quello mostruoso delle spose bambine, che rappresenta l’apice della violenza maschile sul sesso femminile.


Sotto il nume tutelare di Nabokov, perennemente presente in spirito, le sette ragazze più la loro insegnante si andavano trasformando un po' alla volta in novelle Sharazad. Questo seminario si potrebbe definire, infatti, proprio come una sorta di rito che celebra lo sposalizio letterario tra Nabokov e la narratrice delle Mille e una Notte.


La scelta di Nabokov come autore centrale di queste riunioni stava nel fatto che lo scrittore russo aveva capito benissimo che cosa significasse vivere in una società totalitaria, quindi l'analogia con la loro situazione all'interno della Repubblica Islamica dell'Iran, era chiarissima. Di conseguenza, era apparsa fondamentale la soluzione che prospettava una libertà senza limiti attraverso l'ausilio della letteratura. 


Il regime era in mano a maschi misogeni patologicamente malati di sesso, sessuofobi, e, contemporaneamente, sessuomani, come è ovvio che accada. Era consentito il matrimonio con bambine di nove anni, e contemporaneamente lapidare le adultere. Il potere della Repubblica Islamica aveva contribuito a esaltare i loro arbitrii e, quindi, i loro turpi desideri violenti: i morigerati guardiani barbuti, si lasciavano andare spesso a molestie nei luoghi affollati. 


Le donne erano diventate il prodotto sottomesso di un sogno di qualcun altro, che aveva deciso che andava dispoticamente recuperato del tutto un illusorio passato. 

Il giovedì nel soggiorno dell'insegnante quindi significava avere la possibilità di uno spazio liberato da questa orribile realtà. 

Il desiderio di bellezza le esortava ad andare oltre le appartenenze ideologiche per riscoprire l’essenza ultima, autentica, la forza e l’energia più intensa della letteratura. Avevano bisogno di libertà e non di dogmi.


Purtroppo, quelli che avrebbero dovuto capire cosa stava accadendo, cioè le forze politiche più avanzate, si dimostrarono i più ciechi condividendo il delirio totalitario di una minoranza che avrebbe, secondo loro aiutato anche le componenti marxiste a tenere a bada le forze imperialiste occidentali.

La Nafisi ritrovò nei giovani studenti iraniani lo stesso suo fanatismo ideologico, quello di diversi anni prima, e gli stessi errori. Era come se in quei momenti conducesse un dialogo con se stessa. Posso capirla benissimo. È un dialogo che ho condotto anch’io con me stesso svariate volte.


Tuttavia, la nemesi dei fanatici è di finire torturati e uccisi da altri fanatici. E per i comunisti stalinisti, si presentò nei panni di un ayatollah.

Tutto il libro della Nafisi gira attorno proprio a due modi di concepire le opere della narrativa: il romanzo come semplice opera di fantasia, a volte, come critica e analisi della realtà e dell’esistenza umana, ma traendo sempre piacere semplicemente nel raccontare storie; e il romanzo come modello morale, come strumento di indottrinamento e di propaganda.


La generazione precedente aveva conosciuto la libertà individuale e l’aveva perduta. Loro cosa avevano? Non avevano nessuno che gli insegnasse a pensare con la propria testa. Non potevano certo comprendere la concretezza del gioco ambiguo di scrittori non conformi alle regole della Repubblica islamica.

Liquidavano ogni aspetto per loro incomprensibile come frutto della decadenza dell’Occidente. 

Il silenzio era diventato l’unico modo di opporsi, il silenzio e la riflessione. Il rifiutarsi di partecipare a ogni manifestazione o espressione di consenso, sottraendosi per mezzo del silenzio.


La sorveglianza e la manipolazione del regime erano entrati nell’anima stessa dei singoli iraniani, spezzandoli definitivamente e confondendo la sfera politica con quella privata. Nulla era più privato, tutto doveva essere pubblico e politicamente allineato, visto che il regime non lasciava in pace le persone, erano le stesse persone che lo aiutavano nel controllo, rassegnandosi e abituandosi al ruolo di vittima.


Lo spazio liberato dell’immaginazione era l’alternativa, il modo migliore per opporsi. Trovare nella letteratura questo spazio e mostrarlo agli altri, fuori dalla gabbia della politica, nella vera realtà che l’ideologia distorceva. In questo caso, Nazar poteva mostrarlo alle sue allieve, e cambiare le cose, rivendicando nell’atto stesso della critica letteraria la strada per la sovversione e il diritto alla felicità.  


E tutti i romanzi di quegli autori: Austen, Nabokov, James, Fitzgerald e altri ancora erano più sovversivi di romanzi e saggi ideologicamente connotati.

La capacità di far vedere il male, di evidenziare l'assenza di empatia, di identificarsi negli altri. Questo è uno dei meriti della grande letteratura. E questo è appunto assai sovversivo in una società totalitaria dove la sfera pubblica domina tutto e annichilisce quella privata. E così sempre e dappertutto.

giovedì 9 maggio 2024

Primo Levi, “La tregua” (1963)

 


Classici


Primo Levi, “La tregua” (1963)


«Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.»


«Venne l’8 maggio: giorno di esultanza per i russi, di diffidente vigilia per i polacchi, per noi di gioia venata di nostalgia profonda. Da quel giorno, infatti, le nostre case non erano piú proibite, nessun fronte di guerra piú ce ne separava, nessun ostacolo concreto, solo carte e uffici; sentivamo che il rimpatrio ci era ormai dovuto, e ogni ora passata in esilio ci pesava come piombo; anche di piú ci pesava l’assoluta mancanza di notizie dall’Italia.»


«Non mi feci riconoscere da Flora, per carità verso di lei e verso me stesso. Di fronte a quei fantasmi, al me stesso di Buna, alla donna del ricordo ed alla sua reincarnazione, mi sentivo cambiato, intensamente «altro», come una farfalla davanti a un bruco. Nel limbo di Staryje Doroghi mi sentivo sporco, stracciato, stanco, greve, estenuato dall’attesa, eppure giovane e pieno di potenze e rivolto verso l’avvenire: Flora, invece, non era cambiata. Viveva ora con un ciabattino bergamasco, non coniugalmente, ma come una schiava. Lavava e cucinava per lui, e lo seguiva guardandolo con occhi umili e sottomessi; l’uomo, taurino e scimmiesco, sorvegliava ogni suo passo, e la picchiava selvaggiamente ad ogni ombra di sospetto. Di qui i lividi di cui era coperta: era venuta in infermeria di nascosto, e ora esitava a uscire incontro alla collera del suo padrone.»


«Avevamo resistito, dopo tutto: avevamo vinto. Dopo l’anno di Lager, di pena e di pazienza; dopo l’ondata di morte seguita alla liberazione; dopo il gelo e la fame e il disprezzo e la fiera compagnia del greco; dopo le malattie e la miseria di Katowice; dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l’ozio e la nostalgia acerba di Staryje Doroghi, eravamo in risalita, dunque, in viaggio all’in su, in cammino verso casa. Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva riacquistato vigore e valore, lavorava nuovamente per noi, e questo poneva fine al torpore della lunga estate, alla minaccia dell’inverno prossimo, e ci rendeva impazienti, avidi di giorni e di chilometri.»


Per un certo periodo di tempo, fatte le dovute proporzioni e differenze, ho coltivato il desiderio di scrivere anch'io un romanzo simile a questo grande libro di Primo Levi, non su basi autobiografiche ovviamente, ma semplicemente biografiche, dedicandolo a mio padre.

Dovete sapere che papà ha vissuto, pur non essendo ebreo, un'analoga odissea del ritorno a casa, attraversando l'Europa devastata dalla Seconda Guerra Mondiale. 


Era stato deportato in un campo di lavoro e di prigionia a Stettino, in Polonia, prelevato, dopo l’8 settembre, da una caserma del nord Italia dove stava facendo il servizio militare, destino simile a quello di molti altri giovani italiani dell’epoca.

Era fuggito poi con un commilitone, approfittando della smobilitazione del campo da parte dei nazisti, da quel che ricordo, tra la fine del ‘44 e l’inizio del ‘45, aiutati da una ragazza polacca.


Quando rivado, alla mia infanzia e alla mia adolescenza mi tornano alla mente alcuni frammenti dei suoi racconti. Mio padre si era ripromesso di scriverci un libro appena fosse andato in pensione, ma uno stupido e impietoso infarto se lo portò via a cinquantanove anni. E io allora, diversi anni dopo, provai a dar corpo al suo desiderio. Ma dovetti desistere.


L’impresa era troppo grande per le mie possibilità e per i miei oggettivi limiti: avevo a disposizione ben pochi frammenti nella mia memoria, e pur volendo lavorare molto di fantasia, il lavoro di documentazione andava ben aldilà dei miei sforzi e del tempo a disposizione. Non si può scrivere un serio romanzo storico senza documentarsi adeguatamente. È forse l’impresa letteraria più ardua per un romanziere. E non potevo certo scrivere una copia molto sbiadita de “La tregua” di Primo Levi.


Tuttavia, leggendo questo romanzo, è stato per me facile ritrovare molte delle suggestioni ed emozioni che provavo ascoltando mio padre. Ed è a lui che dedico almeno questa recensione.

So benissimo quale sia la differenza tra un campo di sterminio come Auschwitz e un campo di lavoro per prigionieri di guerra. L’analogia non va rintracciata in questo, ma nel viaggio attraverso l’Europa. E mi chiedo chissà se in quel loro peregrinare fossero mai venuti a incontrarsi.


La narrazione di Primo Levi riprende dove era stata lasciata nel precedente “Se questo è un uomo”, a gennaio del 1945. “La tregua” ne è infatti il naturale seguito; e riprende dal campo di lavoro di “Buna”, che si trovava nei pressi del “Campo Grande”, quello di Auschwitz. Buna era stato abbandonato dai tedeschi, pochi giorni prima dell’arrivo dei russi, ed era ormai ridotto quasi a un mostruoso cimitero, con pochi sopravvissuti.


“La tregua” è un romanzo corale, pieno di una moltitudine di personaggi, nel corso della recensione ricorderò una parte di loro, quelli che, a mio parere, sono i più significativi. Ma è un’opera piena soprattutto di episodi drammatici, commoventi e spassosi, persino comici.

Lo scrittore è davvero bravo nella definizione dei personaggi, ne rende i contorni netti, i profili estremamente colorati e diversificati. Non siamo più nel predominante buio, nel regno della morte, ma in un universo vivacissimo, abitato da esseri unici e irripetibili. Eppure, il romanzo è sempre in bilico tra il giorno e la notte, tra un vitale ottimismo e l’oscurità del male. Si guardi, infatti, il controverso finale.


Con l’arrivo dei sovietici, il grande campo passò nelle loro mani, ma la vita misera e precaria continuò, soprattutto per gli scarsi mezzi a disposizione, necessari a fare fronte a cure e nutrimento. C’era gente di tutti i tipi, pure ex kapò destituiti di ogni potere, o in cerca di un nuovo ruolo. Un’umanità variegata si anima grazie alla penna dello scrittore: vivace, spettrale, malata, triste, felice o debole che sia, ma tutti in preda alla ritrovata libertà. Ci sono quindi, come è naturale che sia, anche racconti di gente che non ce l’aveva fatta. Troviamo bambini e ragazzini, protagonisti di un’infanzia non solo negata, ma anche annichilita.


Lo stesso Levi quando arrivarono i russi era ammalato di scarlattina, fu quella malattia che lo salvò, perché abbandonato dai nazisti in fuga tra i malati del campo, e fu costretto a farsi un mese di letto fino a febbraio. E durante un trasferimento, in cui si rese conto della metamorfosi gentile dei pochi tedeschi rimasti, intimoriti dai nuovi padroni sovietici, incontrò Mordo Nahum, il Greco, un soggetto assai pittoresco, a cui dedica un intero capitolo.

Legarono subito, unici mediterranei del gruppo, riuscivano a capirsi immediatamente, ma si resero anche conto che quella libertà che avevano sognato, non aveva niente di mitico e per ora corrispondeva ad una pianura desertica, arida e brulla.


Dopo l’incontro con il greco, personaggio dalle mille sfaccettature, il libro si trasforma quasi in un vibrante romanzo d’avventura, dove i due, separandosi dal gruppo originario, iniziarono un sorta di esplorazione del mondo circostante, occupati in una molteplicità di faccende anche poco lecite. E fu così che si misero a fare affari a Cracovia. 

La vita cominciava di nuovo a scorrere anche se in mezzo a un caos pazzesco.

La guerra in quei primi mesi non era ancora finita, in Polonia serpeggiava un odio per i tedeschi, e lui aveva ancora difficoltà e timore a dichiararsi ebreo, tutti sapevano solo che era italiano. 


Con sguardo divertito, tenero e ironico descrive la popolazione del campo di Bogucice, sobborgo di Katowice, quasi fossero dei bozzetti: la sentinella sovietica era un mongolo gigantesco con baffi alla Stalin; i russi refrattari all’organizzazione razionale del campo, sensibili però al fascino della burocrazia fine a se stessa; il coraggioso medico Leonardo, uscito per miracolo anche lui da Buna; l’energica infermiera russa Marja; Galina, la vivace e improvvisata interpreta ucraina diciottenne. Levi divenne aiutante di Leonardo col quale si occupò dell’infermeria.

Il libro assume, quindi, una forma del tutto diversa da “Se questo è un uomo”. Non è fatto solo di bianco, nero e grigio, non ci troviamo più di fronte all'abisso. 

Il cambiamento, però, è anche di carattere qualitativo: si percepisce chiaramente che lo scrittore torinese è maturato dal punto di vista dello stile letterario.


Ogni tanto però, Primo Levi si costringe a tornare nel passato, a gettare uno sguardo nell’orrore dell'universo concentrazionario, a riportare alla mente l'inferno di tanfo, di sangue e di feci. È costretto a farlo per evitare che la sua narrazione sulla ritrovata libertà possa risultare in qualche modo monca, forzata; e lo fa anche quando ci introduce al personaggio del romano Cesare, un tipo assai folkloristico che parlava solo in romanesco e nel gergo del ghetto ebraico di Roma. Era sopravvissuto anche lui a Buna, e Primo lo ritrovò lì, due mesi dopo, a Bogucice. Cesare è l'altro grande personaggio, insieme al Greco, e sicuramente il personaggio di maggior rilievo dal punto di vista letterario.


Nonostante i segni di morte fossero ancora dappertutto, si avvertiva che le cose stavano cambiando in meglio e che la città e i sopravvissuti stavano riprendendo vita, dopo anni di incubo.

Un Cesare cialtrone anima il mercato di Katovice, divertente attore protagonista dei commerci. 

Levi, in una girandola di colorate immagini, ci mostra gente che circolava in continuazione, che andava e veniva, carri pieni di oggetti di tutti i tipi, e la gran confusione dell’Armata Rossa che tornava in patria. 


Era la vita stessa che si metteva di nuovo in circolazione. E con essa arrivò finalmente la fatidica fine di aprile del ‘45 e, qualche giorno dopo, la fine della guerra.

Veniamo a conoscenza anche di  un uomo straordinario, di grande ingegno e abilità, e di discreta umanità: il dottor Gottlieb, che partendo dal lager, in breve tempo, divenne un medico stimato e facoltoso a Katowice; e del Moro di Venezia, un uomo anziano, ma di notevole altezza, che emanava nella sua quasi immobilità, una straordinaria energia e un’indomabile collera. Levi incontrò anche i “sognatori”, una serie di personaggi tra follia e lucidità che inventavano storie: truffatori, bugiardi patentati, visionari, ciarlatani. Ma tutti vivi, e, a loro modo, affascinanti.


Lui, Cesare, Leonardo e Gottlieb, insieme ad altri, partirono in treno con destinazione Odessa, da lì avrebbero dovuto imbarcarsi per tornare a casa. Così gli dissero. In realtà si rivelò un’illusione. Fu un viaggio di sofferenza e disagio, un incubo, prigionieri della burocrazia sovietica. 

Vagavano ridotti alla miseria, disperati che incontravano altri disperati, in un’Europa dell’est finita in macerie, millequattrocento italiani che viaggiavano portati da una trentina di carri merce, incrociando poveracci di altre nazioni, e alla fine arrivarono nella Russia Bianca, in Unione Sovietica.


«A Sluzk, nel luglio 1945, sostavano diecimila persone; dico persone, perché ogni termine piú restrittivo sarebbe improprio. C’erano uomini, ed anche un buon numero di donne e di bambini. C’erano cattolici, ebrei, ortodossi e mussulmani; c’erano bianchi e gialli e diversi negri in divisa americana; tedeschi, polacchi, francesi, greci, olandesi, italiani ed altri; ed inoltre, tedeschi che si pretendevano austriaci, austriaci che si dichiaravano svizzeri, russi che si dichiaravano italiani, una donna travestita da uomo, e perfino, cospicuo in mezzo alla folla cenciosa, un generale magiaro in alta uniforme, litigioso e variopinto e stupido come un gallo.»


Dopo dieci giorni ripartirono da Sluzk, verso un’apparente definitiva destinazione, in un altro campo sosta a settanta chilometri, nel piccolo villaggio di Staryje Doroghi (Vecchie Strade), settanta chilometri da percorrere a piedi, un viaggio allucinante in mezzo al nulla, ma sempre accompagnati da qualche singolare aneddoto. L’ultima parte fu percorsa su un carretto. La destinazione riservata agli italiani era un enorme edificio: la Casa Rossa, in avanzato stato di degrado.


Rimasero lì per tre mesi, e anche se il rancio era di pessima qualità, era abbastanza sufficiente, però vissero anche di espedienti, grazie soprattutto a Cesare, e nonostante tutto, furono mesi di ozio e di relativo benessere, ma proprio per questo colmi di nostalgia.

Fu come una lunga vacanza estiva allietata da cinema e teatro improvvisati, ma con un desiderio pungente e crescente di tornare a casa.


Dopo una serie di segnali contraddittori, gli fu annunciato che entro breve sarebbero sarebbero stati rimpatriati. Il 15 settembre finalmente partirono. Il viaggio in treno non fu facile e fu colmo di disagi, soprattutto per le pessime condizioni in cui si trovavano i convogli e le ferrovie, tuttavia, la felice disposizione d’animo lo rese senz’altro meno disagevole degli spostamenti precedenti. Ripercorsero a ritroso la prima parte del ritorno.


La seconda parte del romanzo, quella del ritorno, è, tuttavia, caratterizzata dalla foga di bruciare le tappe, molto più breve della prima. Si percepisce infatti l’ansia del rientro e per questo Levi velocizza la narrazione in maniera quasi febbrile, assai sintetica.

Fu un viaggio completamente disorganizzato e senza una logica apparentemente, pieno di incognite e di incertezze, come era di consueto nello stile dei russi.

Arrivarono così in Romania, passarono per le colline verdeggianti della Moldavia, lasciandosi alle spalle la steppa russa.


Si fermarono nella città rumena di Iasi dove cambiarono treno, dirigendosi verso l’Ungheria. Nel frattempo le scene si ripetevano uguali: ferrovie malandate, bivacchi, arte di arrangiarsi, episodi grotteschi e singolari.

“Ma in Ungheria, malgrado i nomi impossibili, ci sentivamo ormai in Europa, sotto l’ala di una civiltà che era la nostra, al riparo da allarmanti apparizioni quali quella del cammello in Moldavia.”


Il 7 ottobre arrivarono in Slovacchia e l'8 alla periferia di Vienna.

La desolazione e le rovine li accompagnarono dappertutto.

“ Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena piú ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione, greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei visceri dell’Europa e del mondo, seme di danno futuro.”


Nel campo di transito di St. Valentin, a soli trecento chilometri da Tarvisio, passarono tutti e millequattrocento nelle mani degli americani, sostarono lì per poche ore, giusto il tempo per essere lavati e disinfettanti.

Ma prima di passare il confine italiano, transitarono per Monaco, dovendo imbarcare altri italiani. La sensazione di essere sul suolo tedesco per la prima volta suscitò sentimenti contrastanti nel loro cuore. Passarono il Brennero il 17 ottobre, quel confine che avevano già varcato venti mesi prima.


“Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svaní in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento.”


lunedì 6 maggio 2024

Harold Bloom, “ Il Canone Occidentale - i libri e le scuole delle età” (1994)

 


Classici


Harold Bloom, “ Il Canone Occidentale - i libri e le scuole delle età” (1994)


«La difesa del Canone occidentale non è affatto una difesa dell’Occidente o di un’impresa nazionalistica. Se per multiculturalismo intendessimo Cervantes, chi potrebbe dissentire? I maggiori nemici dei criteri estetici e cognitivi sono sedicenti difensori che cianciano dei valori morali e politici della letteratura. Non viviamo secondo l’etica dell’Iliade né secondo la politica di Platone. Coloro che insegnano interpretazione hanno più cose in comune con i sofisti che con Socrate. Che cosa possiamo aspettarci che faccia Shakespeare per la nostra società quasi distrutta, se la funzione del teatro shakespeariano ha così poco a che fare con la virtù civica o la giustizia sociale?»


«Nell’Inghilterra elisabettiana, gli autori erano, per legge, simili a mendicanti e ad altri reietti, il che addolorava senza dubbio Shakespeare, che lavorò sodo per tornare a Stratford come gentiluomo. Ad eccezione di questo desiderio, non sappiamo quasi nulla delle concezioni sociali di Shakespeare, a parte ciò che possiamo dedurre dai drammi, dove tutte le informazioni sono ambigue. Essendo un attore e un drammaturgo, Shakespeare dipendeva necessariamente dal mecenatismo e dalla protezione degli aristocratici e la sua politica – se mai ne aveva una sul piano pragmatico – era adeguata al culmine della lunga Età aristocratica (in senso vichiano), che, come ho precisato, va da Dante fino al Rinascimento e all’Illuminismo, concludendosi con Goethe. La politica del giovane Wordsworth e di William Blake è quella della Rivoluzione francese e preannuncia l’età successiva, quella democratica, che raggiunge l’apoteosi in Whitman e nel Canone americano e acquista la sua espressione definitiva con Tolstoj e Ibsen. Alle origini dell’arte di Shakespeare troviamo, come postulato fondamentale, un senso aristocratico della cultura, benché il drammaturgo trascenda quel senso, come trascende ogni altra cosa.»


«L’assalto arriverà sicuramente, poiché i vari multiculturalisti avrebbero difficoltà a trovare un grande poeta più contestabile di Dante, il cui spirito indomito ed energico tocca i vertici della scorrettezza politica. Dante è il più aggressivo e polemico tra i massimi scrittori occidentali, capace, da questo punto di vista, di eclissare persino Milton. Come quest’ultimo, era un partito politico e una setta formata da un solo uomo. La sua intensità eretica è stata oscurata dai commenti degli eruditi, che, anche nei loro momenti migliori, lo trattano spesso come se la Divina Commedia fosse sostanzialmente una riduzione in versi di Sant’Agostino. È tuttavia meglio cominciare sottolineando la straordinaria audacia di Dante, che non ha eguali nell’intera tradizione della presunta letteratura cristiana, Milton compreso.»


«Allora perché la letteratura è così vulnerabile all’assalto degli idealisti sociali contemporanei? Una risposta pare essere l’illusione collettiva secondo cui, per la produzione o la comprensione della letteratura di fantasia (come la chiamavamo un tempo), sono necessarie meno conoscenza e meno capacità tecnica che per le altre arti.

Se tutti parlassimo in note musicali o in pennellate, suppongo che Stravinsky e Matisse potrebbero correre gli stessi peculiari rischi cui oggi sono soggetti gli autori canonici. Tentando di leggere molte delle opere elencate come alternative al Canone proposte dal risentimento, penso che questi aspiranti credano di aver parlato in prosa per tutta la vita o di aver già trasformato le loro passioni sincere in poesie che richiedono solo un poco di sovrascrittura. Passo ora le mie liste, sperando che i sopravvissuti eruditi trovino libri e autori in cui non si sono ancora imbattuti e raccolgano le ricompense offerte solo dalla letteratura canonica.»


“Il Canone Occidentale” è un libro uscito trent’anni fa, sul finire del XX secolo, è quindi questa la prima cosa da tenere in mente. È senz’altro un classico della saggistica ed è interessante non solo da un punto di vista puramente teorico - critico, ma oserei dire anche antropologico. 

Definire un canone in base al nome di ventisei protagonisti, vuol dire essenzialmente predisporsi a compilare un elenco. Questa compilazione rientrava senza ombra di dubbio nelle intenzioni di Harold Bloom, ma è una scelta che rispondeva a criteri abbastanza complessi.


Seconda cosa da tenere in mente è che se si intitola “Canone Occidentale” e non "Canone Mondiale", un motivo c'è ed è relativo alla rilevanza estetica del Canone stesso, che caratterizza specificatamente la cultura occidentale. Quell’estetica che ha contribuito a formare la letteratura europea e americana (nel senso più esteso, visto che comprende anche l’America Latina”). Un motivo per cui non vengono considerati grandi capolavori letterari come “Il Corano”, “Le Mille e una Notte", il “Bhagavadgītā”, il “Mahābhārata”, il “Tao Te Ching”, o “L’arte della guerra”. Quindi, ciò dovrebbe scongiurare ogni accusa di suprematismo e di colonialismo. Dovrebbe, ma in realtà non è così e già trent'anni fa non lo era. 


È un limite? Sì oggettivamente lo è. Perché una netta cesura tra Occidente e resto del mondo non c’è, guardiamo per esempio al caso della Russia, che Bloom  ingloba legittimamente nell’occidente. Tuttavia, come ricorda anche lui, dei limiti bisogna porseli nella definizione di un Canone, e in questo caso, rispettare i limiti è un atteggiamento tutt’altro che colonialista, anzi. Inoltre, questo pur essendo un saggio, è soprattutto un’opera sulla letteratura di immaginazione, e un margine all’immaginazione va concesso.


Harold Bloom è stato un celebrato critico letterario, e nonostante ci tenga a chiarire subito di non aver commesso alcun arbitrio nella scelta di questi nomi, cercando di spiegarne l’oggettività, lo ha comunque commesso.

Per il sottoscritto non è affatto un peccato, e non sarò certo io, misero e improvvisato recensore a contestarne la validità.

Anzi, a mio parere l’arbitrio in questi casi, è anche necessario, porta a confrontarci con chi lo ha commesso e a capirne i motivi, per rintracciare dentro ognuno di noi il proprio arbitrio. 


È bene precisare però subito che l’elenco non esaurisce l’intero Canone, ma ne rappresenta per Bloom solo un esempio di quella che dovrebbe esserne l’essenza.

Questo libro lo ha scritto per il Lettore Comune, non per gli accademici, per quel lettore che continua a leggere e che accoglie sempre volentieri consigli di lettura, per colui che legge “per dilatare un'esistenza solitaria”. Quella categoria di lettori che l’accademia multiculturalista, dell’impegno politico o della tutela della tradizione disprezza, perché non leggerebbe per uno scopo sociale.


La schema storico da cui parte Bloom è quello postulato da Giambattista Vico nei “Princìpi della scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni”, ed è basato sul ciclo di quattro fasi: teocratica (età degli dei), aristocratica (età degli eroi), democratica (età degli uomini); queste tre fasi verrebbero poi seguite dal caos, da un’età caotica, dalla quale sarebbe alla fine emersa una nuova età teocratica.


Bloom omette di occuparsi nel dettaglio della fase teocratica, se non per usarla come generico punto di riferimento per le altre fasi. Tuttavia, non la omette poi del tutto, pone sostanzialmente in rilievo opere inserite nel contesto di tale fase e  evidenzia la fondamentale importanza per le fasi successive.

Inizia quindi da Dante e termina con Samuel Beckett, pur non seguendo un ordine strettamente cronologico, dato che apre formalmente l’età aristocratica con Shakespeare.

Proprio Shakespeare e Dante sono, secondo il saggista americano, al vertice del suo Canone Occidentale. Nessun elenco può fare a meno  di loro. Tuttavia, colui che è il primo centro letterario di tutto il canone è lo scrittore di Stratford.


L’autore provocatoriamente ipotizza che sia proprio il XX secolo l’inizio del periodo caotico, ben rappresentato da Freud, Proust, Joyce e Kafka.

Per Bloom non è tanto la grandezza, quanto la singolarità, un tipo di originalità letteraria, ad essere la qualità discriminante per entrare a fare parte del Canone; che poi definisce come misteriosità, capacità di fare sentire il lettore  a casa sua. Mentre, al contempo, ritiene che Shakespeare dia anche l’impressione opposta: quella di farci sentire a casa all’estero, ed è forse questo che determina la sua ineguagliabile grandezza. La sua universalità.


Eviterò accuratamente, in questo mio post di riprodurre l'elenco proposto da Bloom, anche se dei nomi è inevitabile che vengano comunque fuori. 

Quella di Bloom è un’esegesi puramente estetica, estranea alle analisi politicamente determinate: neomarxiste, neostoriciste o femministe.

Ci tiene a sottolineare che la sua difesa dei canoni è estranea sia a certo tradizionalismo di destra e ai suoi presupposti “valori morali”, sia avversa a chi i canoni li vuole distruggere al fine di promuovere vaghi programmi di cambiamento sociale.


Si potrebbe dire che già all’epoca, Bloom stesse anticipando la critica alle due opposte tendenze politico-dogmatiche: quella reazionario-tradizionalista e quella della cosiddetta cancel culture. Afferma, di conseguenza, che il suo libro non ha affatto l’intenzione di essere un’elegia del canone occidentale. È in sostanza un affascinante esercizio di retorica letteraria.

È il cosiddetto J (Jeovah), l’autore singolo o collettivo della Bibbia ebraica, e insieme a Omero, l’autore originario del canone, e che Bloom ipotizza in maniera ardita essere Betsabea la madre ittita di Salomone, e moglie di Davide.


Immagina, facendo riferimento al suo precedente saggio “Il libro di J”, che la sua versione biblica sia stata censurata, per poi essere rimaneggiata da revisionisti fino ad arrivare agli scribi dell’esilio babilonese. 

Nel suo intento ironico di demolire la tradizione, Bloom, educato da ebreo ortodosso in una famiglia di Odessa dove si parlava in yiddish, si diverte e diverte, irridendo alcuni aspetti delle religioni monoteiste.


Stigmatizza il politicamente corretto che intende riparare i torti storici, tramite l’allargamento del Canone, a soggetti letterari che non possiedono alcuna singolarità, ma solo risentimento e che vengono elevati in base al sentimento di identità. Criteri assolutamente estranei a quelli puramente letterari. Il risultato è che vengono abbandonati i criteri di misura estetica, in nome di un generico idealismo utopista che preferirebbe promuovere l’armonia sociale e le diversità, sottostando quindi a fattori sfacciatamente ideologici.


Ironizza su quella che definisce Scuola del risentimento, che rifiuta la cosiddetta ansia da influenza letteraria, ansia che colpirebbe solo i Maschi Europei Bianchi e Morti, mentre si agita al fine di promuovere ossessivamente l’originalità assoluta di donne e “multiculturalisti”. Rifiuta un aspetto necessario del Canone: la necessità dell’ansia da influenza, non solo come debito alla tradizione, ma come conflitto tra genio passato e attuale aspirazione.


«Le poesie, i racconti, i romanzi e le opere teatrali nascono in risposta a poesie, racconti, romanzi e opere teatrali precedenti, e quella risposta dipende da atti di lettura e interpretazione compiuti dagli scrittori successivi, atti che sono identici alle nuove opere.»


Così facendo, nei confronti dei precursori non si produce solo un atto apprezzativo, ma anche difensivo e alla fine di ripudio e di rifiuto. Ma il riconoscimento è palese non è negato. Quindi necessario per il Canone.

La letteratura è fatta di influenza e di contaminazione ed è necessario esserne consapevoli, non si nasce increati, purtuttavia, o si è singolari, o non si entra nel Canone.


Quindi, la domanda principale resta: cosa oggi dovrebbe scegliere un lettore che abbia ancora desiderio di leggere? Ovviamente, è un “oggi” in senso esteso, che vale anche per il nostro tempo, trent’anni dopo, nonostante Bloom già allora prevedesse che l’obnubilamento causato dalla correttezza politica sarebbe continuato col nuovo millennio, forse, però, non lo immaginava anche così particolarmente intenso, insensato e demenziale. 

D’altronde era perfettamente conscio che l’amore per il senso estetico non si può trasmettere e a nulla vale litigare in suo favore.


L'intento di questa presupposta “etica sociale” è quello di ridurre l’estetica a fatto politico, ideologico, snaturando anche il senso della poesia, che dovrebbe restare poesia e basta. Bloom quindi sollecita a preservare la poesia nella sua pienezza e nella sua purezza contro l’attacco del moralismo “multiculturalista”, anche nella consapevolezza che chi vuole mantenere una continuità con l’estetico, oggi è perdente, ma non per questo deve mollare.


Il Canone non viene escogitato e promosso, come pensano i summenzionati ideologi della Scuola del risentimento, in base a ben congeniate campagne di propaganda, Bloom ribadisce, invece, che il Canone dovrebbe sempre avere come base una pura scelta estetica, argomento che è divenuto attualmente difficilmente sostenibile a causa della pesante politicizzazione.

Lo scrittore si oppone a questa politicizzazione e di conseguenza sostiene che la scelta del Canone non appartiene a chi ne enfatizzi le componenti ideologiche, ma a critici completamente estranei a questo tipo di logica, a prescindere dalla loro classe di appartenenza e dalle loro idee politiche.


Però ricorda anche che il Canone non lo fanno i politici, gli accademici e nemmeno i critici, il Canone lo fanno gli scrittori stessi, gettando un ponte temporale gli uni con gli altri. E per entrare nel Canone ci vuole almeno qualche generazione, quando altri scrittori ne riconoscono l’influenza come precursori. Ci si entra quindi spesso da morti e sempre dopo svariato tempo. Devono essere opere che resistono al tempo.

Per questo non è necessario compilare un catalogo, ma sarebbe utile che ognuno inventasse un elenco di libri da isola deserta.


È vero che la capacità e la libertà di cogliere l’estetico può anche derivare dal conflitto di classe, ma nessuna forza del denaro riuscirà mai a promuovere questioni di supremazia estetica. Non si riuscirà quindi mai, per esempio, a negare la supremazia canonica di Shakespeare e la sua centralità.

Bloom si dice però d’accordo con la critica marxista sul fatto che nella forte scrittura, sia presente conflitto, ambivalenza, contraddizione. Dove però diverge dai marxisti è sulle origini del conflitto.


«Da Pindaro ai giorni nostri, lo scrittore che lotta per la canonicità può lottare per una classe sociale, come fece Pindaro per gli aristocratici, ma soprattutto ogni scrittore ambizioso scende in campo solo per se stesso e non di rado tradirà o trascurerà la sua classe per promuovere i propri interessi, che si incentrano interamente sulla sua individuazione. Dante e Milton sacrificarono entrambi molto per quello che consideravano un orientamento politico spiritualmente esuberante e giustificato, ma nessuno dei due sarebbe stato disposto a sacrificare il suo grande poema per una causa. La loro soluzione fu identificare la causa con il poema anziché il poema con la causa. Così facendo, crearono un precedente che oggi non è molto seguito dalla marmaglia accademica impaziente di legare lo studio della letteratura alla ricerca del cambiamento sociale.»


Il Canone Occidentale non può essere riempito né di valori tradizionali, né di valori sociali, democratici. È intrinsecamente sovversivo e amorale. Leggere in nome dell'ideologia, di qualsiasi ideologia, vuol dire non saper leggere. Le opere del Canone non vanno lette per curare i valori morali, allora sarebbe meglio non leggere proprio. I grandi autori sanno essere anche immorali, blasfemi, violenti, razzisti, schiavisti, misogini, antisemiti, islamofobi, guerrafondai, omofobi, ma anche rivoluzionari, riformisti, democratici, pacifisti, etici, avere buoni sentimenti, amare la rettitudine morale, oppure fregarsene di tutto ciò. Sanno far emergere il loro lato oscuro, accanto a quello gioioso e amorevole, senza curarsi minimamente del politically correct. Il Canone non ha e non deve avere una funzione pedagogica, né propagandistica.


L'uso che si può fare della grande letteratura non è quello di aiutare a diventare migliori. Ma di imparare a dialogare con se stessi in profondità e non ha nulla di sociale. È un confronto con la propria individualità, con la propria solitudine e la propria mortalità. Il Canone non è il lacchè della classe sociale dominante, ma il messaggero della morte. Il tempo è limitato, la nostra vita è breve, possiamo leggere poco, avendo poco tempo a disposizione, e il tempo non va sprecato, per cui abbiamo bisogno del Canone, che non può in alcun modo essere allargato in modo illimitato. Può essere aperto, ma non in maniera illimitata. Ha dei limiti, e questi non sono né politici, né morali.


È chiaro che il Canone ha bisogno del potere mondano, senza questo non possono esistere capolavori. Poi, non è detto che non si possano creare anche romanzi sociali, dalla parte degli ultimi, ma non è il sociale a motivare la presenza nel Canone, è il rifiuto a essere inscatolato in un contenitore ideale, in un mezzo messo al servizio del cambiamento sociale e della propaganda.

Il timore di Bloom, già allora, era che si stavano distruggendo i metri di misura estetici per valutare le opere letterarie nelle discipline umanistiche e nelle scienze sociali con il metro della “giustizia sociale”. Questo lo scriveva trent’anni fa. E purtroppo i risultati di questa continua distruzione sono davanti ai nostri occhi.


Bloom ribadisce una semplice verità che sfugge ai più, e cioè che tutti i canoni sono elitari, compresi i “controcanoni” già allora in voga, e che nessun canone secolare può essere mai chiuso: una semplice ovvietà. Tuttavia, allo stesso tempo, nonostante la teorica inclusività di un canone, è molto difficile che una vita umana possa permettere la lettura esauriente di tutto il Canone Occidentale, che già annoverava potenzialmente nel 1994 secondo lo scrittore ben oltre tremila libri.


Inoltre, il Canone non è una struttura stabile. Nessuno ha l’autorità di dire che cosa sia o non sia Canone. Men che meno l’autore di questo saggio ha tale ambizione. Sostiene che il suo è solo un elenco, un elenco come chiunque altro è legittimato a compilare.

Il vero discrimine è la mortalità o l’immortalità delle opere letterarie. Opere che sono sopravvissute nei secoli a un intenso conflitto sociale, ma che poco ha a che vedere con la lotta di classe. È proprio questo che fa di Shakespeare un autore universale, che trascende la storia. 


Bloom arriva alla conclusione sostenendo che, vista la “sovrappopolazione” di libri e di autori, e che pochi leggono oramai, con l’avvento dell’era della televisione e del virtuale, la domanda fondamentale non dovrebbe essere che cosa si deve leggere, ma che cosa non bisognerebbe curarsi di leggere.

Questo saggio è veramente straordinario anche nella sua contraddittorietà, nelle sue eccessive ripetizioni, nel suo quasi ossessivo delirio shakespeariano e merita di entrare di sicuro nel Canone Occidentale, per l’indiscutibile valore estetico, e probabilmente questo era il desiderio di Harold Bloom.

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