Classici
Primo Levi, “La tregua” (1963)
«Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.»
«Venne l’8 maggio: giorno di esultanza per i russi, di diffidente vigilia per i polacchi, per noi di gioia venata di nostalgia profonda. Da quel giorno, infatti, le nostre case non erano piú proibite, nessun fronte di guerra piú ce ne separava, nessun ostacolo concreto, solo carte e uffici; sentivamo che il rimpatrio ci era ormai dovuto, e ogni ora passata in esilio ci pesava come piombo; anche di piú ci pesava l’assoluta mancanza di notizie dall’Italia.»
«Non mi feci riconoscere da Flora, per carità verso di lei e verso me stesso. Di fronte a quei fantasmi, al me stesso di Buna, alla donna del ricordo ed alla sua reincarnazione, mi sentivo cambiato, intensamente «altro», come una farfalla davanti a un bruco. Nel limbo di Staryje Doroghi mi sentivo sporco, stracciato, stanco, greve, estenuato dall’attesa, eppure giovane e pieno di potenze e rivolto verso l’avvenire: Flora, invece, non era cambiata. Viveva ora con un ciabattino bergamasco, non coniugalmente, ma come una schiava. Lavava e cucinava per lui, e lo seguiva guardandolo con occhi umili e sottomessi; l’uomo, taurino e scimmiesco, sorvegliava ogni suo passo, e la picchiava selvaggiamente ad ogni ombra di sospetto. Di qui i lividi di cui era coperta: era venuta in infermeria di nascosto, e ora esitava a uscire incontro alla collera del suo padrone.»
«Avevamo resistito, dopo tutto: avevamo vinto. Dopo l’anno di Lager, di pena e di pazienza; dopo l’ondata di morte seguita alla liberazione; dopo il gelo e la fame e il disprezzo e la fiera compagnia del greco; dopo le malattie e la miseria di Katowice; dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l’ozio e la nostalgia acerba di Staryje Doroghi, eravamo in risalita, dunque, in viaggio all’in su, in cammino verso casa. Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva riacquistato vigore e valore, lavorava nuovamente per noi, e questo poneva fine al torpore della lunga estate, alla minaccia dell’inverno prossimo, e ci rendeva impazienti, avidi di giorni e di chilometri.»
Per un certo periodo di tempo, fatte le dovute proporzioni e differenze, ho coltivato il desiderio di scrivere anch'io un romanzo simile a questo grande libro di Primo Levi, non su basi autobiografiche ovviamente, ma semplicemente biografiche, dedicandolo a mio padre.
Dovete sapere che papà ha vissuto, pur non essendo ebreo, un'analoga odissea del ritorno a casa, attraversando l'Europa devastata dalla Seconda Guerra Mondiale.
Era stato deportato in un campo di lavoro e di prigionia a Stettino, in Polonia, prelevato, dopo l’8 settembre, da una caserma del nord Italia dove stava facendo il servizio militare, destino simile a quello di molti altri giovani italiani dell’epoca.
Era fuggito poi con un commilitone, approfittando della smobilitazione del campo da parte dei nazisti, da quel che ricordo, tra la fine del ‘44 e l’inizio del ‘45, aiutati da una ragazza polacca.
Quando rivado, alla mia infanzia e alla mia adolescenza mi tornano alla mente alcuni frammenti dei suoi racconti. Mio padre si era ripromesso di scriverci un libro appena fosse andato in pensione, ma uno stupido e impietoso infarto se lo portò via a cinquantanove anni. E io allora, diversi anni dopo, provai a dar corpo al suo desiderio. Ma dovetti desistere.
L’impresa era troppo grande per le mie possibilità e per i miei oggettivi limiti: avevo a disposizione ben pochi frammenti nella mia memoria, e pur volendo lavorare molto di fantasia, il lavoro di documentazione andava ben aldilà dei miei sforzi e del tempo a disposizione. Non si può scrivere un serio romanzo storico senza documentarsi adeguatamente. È forse l’impresa letteraria più ardua per un romanziere. E non potevo certo scrivere una copia molto sbiadita de “La tregua” di Primo Levi.
Tuttavia, leggendo questo romanzo, è stato per me facile ritrovare molte delle suggestioni ed emozioni che provavo ascoltando mio padre. Ed è a lui che dedico almeno questa recensione.
So benissimo quale sia la differenza tra un campo di sterminio come Auschwitz e un campo di lavoro per prigionieri di guerra. L’analogia non va rintracciata in questo, ma nel viaggio attraverso l’Europa. E mi chiedo chissà se in quel loro peregrinare fossero mai venuti a incontrarsi.
La narrazione di Primo Levi riprende dove era stata lasciata nel precedente “Se questo è un uomo”, a gennaio del 1945. “La tregua” ne è infatti il naturale seguito; e riprende dal campo di lavoro di “Buna”, che si trovava nei pressi del “Campo Grande”, quello di Auschwitz. Buna era stato abbandonato dai tedeschi, pochi giorni prima dell’arrivo dei russi, ed era ormai ridotto quasi a un mostruoso cimitero, con pochi sopravvissuti.
“La tregua” è un romanzo corale, pieno di una moltitudine di personaggi, nel corso della recensione ricorderò una parte di loro, quelli che, a mio parere, sono i più significativi. Ma è un’opera piena soprattutto di episodi drammatici, commoventi e spassosi, persino comici.
Lo scrittore è davvero bravo nella definizione dei personaggi, ne rende i contorni netti, i profili estremamente colorati e diversificati. Non siamo più nel predominante buio, nel regno della morte, ma in un universo vivacissimo, abitato da esseri unici e irripetibili. Eppure, il romanzo è sempre in bilico tra il giorno e la notte, tra un vitale ottimismo e l’oscurità del male. Si guardi, infatti, il controverso finale.
Con l’arrivo dei sovietici, il grande campo passò nelle loro mani, ma la vita misera e precaria continuò, soprattutto per gli scarsi mezzi a disposizione, necessari a fare fronte a cure e nutrimento. C’era gente di tutti i tipi, pure ex kapò destituiti di ogni potere, o in cerca di un nuovo ruolo. Un’umanità variegata si anima grazie alla penna dello scrittore: vivace, spettrale, malata, triste, felice o debole che sia, ma tutti in preda alla ritrovata libertà. Ci sono quindi, come è naturale che sia, anche racconti di gente che non ce l’aveva fatta. Troviamo bambini e ragazzini, protagonisti di un’infanzia non solo negata, ma anche annichilita.
Lo stesso Levi quando arrivarono i russi era ammalato di scarlattina, fu quella malattia che lo salvò, perché abbandonato dai nazisti in fuga tra i malati del campo, e fu costretto a farsi un mese di letto fino a febbraio. E durante un trasferimento, in cui si rese conto della metamorfosi gentile dei pochi tedeschi rimasti, intimoriti dai nuovi padroni sovietici, incontrò Mordo Nahum, il Greco, un soggetto assai pittoresco, a cui dedica un intero capitolo.
Legarono subito, unici mediterranei del gruppo, riuscivano a capirsi immediatamente, ma si resero anche conto che quella libertà che avevano sognato, non aveva niente di mitico e per ora corrispondeva ad una pianura desertica, arida e brulla.
Dopo l’incontro con il greco, personaggio dalle mille sfaccettature, il libro si trasforma quasi in un vibrante romanzo d’avventura, dove i due, separandosi dal gruppo originario, iniziarono un sorta di esplorazione del mondo circostante, occupati in una molteplicità di faccende anche poco lecite. E fu così che si misero a fare affari a Cracovia.
La vita cominciava di nuovo a scorrere anche se in mezzo a un caos pazzesco.
La guerra in quei primi mesi non era ancora finita, in Polonia serpeggiava un odio per i tedeschi, e lui aveva ancora difficoltà e timore a dichiararsi ebreo, tutti sapevano solo che era italiano.
Con sguardo divertito, tenero e ironico descrive la popolazione del campo di Bogucice, sobborgo di Katowice, quasi fossero dei bozzetti: la sentinella sovietica era un mongolo gigantesco con baffi alla Stalin; i russi refrattari all’organizzazione razionale del campo, sensibili però al fascino della burocrazia fine a se stessa; il coraggioso medico Leonardo, uscito per miracolo anche lui da Buna; l’energica infermiera russa Marja; Galina, la vivace e improvvisata interpreta ucraina diciottenne. Levi divenne aiutante di Leonardo col quale si occupò dell’infermeria.
Il libro assume, quindi, una forma del tutto diversa da “Se questo è un uomo”. Non è fatto solo di bianco, nero e grigio, non ci troviamo più di fronte all'abisso.
Il cambiamento, però, è anche di carattere qualitativo: si percepisce chiaramente che lo scrittore torinese è maturato dal punto di vista dello stile letterario.
Ogni tanto però, Primo Levi si costringe a tornare nel passato, a gettare uno sguardo nell’orrore dell'universo concentrazionario, a riportare alla mente l'inferno di tanfo, di sangue e di feci. È costretto a farlo per evitare che la sua narrazione sulla ritrovata libertà possa risultare in qualche modo monca, forzata; e lo fa anche quando ci introduce al personaggio del romano Cesare, un tipo assai folkloristico che parlava solo in romanesco e nel gergo del ghetto ebraico di Roma. Era sopravvissuto anche lui a Buna, e Primo lo ritrovò lì, due mesi dopo, a Bogucice. Cesare è l'altro grande personaggio, insieme al Greco, e sicuramente il personaggio di maggior rilievo dal punto di vista letterario.
Nonostante i segni di morte fossero ancora dappertutto, si avvertiva che le cose stavano cambiando in meglio e che la città e i sopravvissuti stavano riprendendo vita, dopo anni di incubo.
Un Cesare cialtrone anima il mercato di Katovice, divertente attore protagonista dei commerci.
Levi, in una girandola di colorate immagini, ci mostra gente che circolava in continuazione, che andava e veniva, carri pieni di oggetti di tutti i tipi, e la gran confusione dell’Armata Rossa che tornava in patria.
Era la vita stessa che si metteva di nuovo in circolazione. E con essa arrivò finalmente la fatidica fine di aprile del ‘45 e, qualche giorno dopo, la fine della guerra.
Veniamo a conoscenza anche di un uomo straordinario, di grande ingegno e abilità, e di discreta umanità: il dottor Gottlieb, che partendo dal lager, in breve tempo, divenne un medico stimato e facoltoso a Katowice; e del Moro di Venezia, un uomo anziano, ma di notevole altezza, che emanava nella sua quasi immobilità, una straordinaria energia e un’indomabile collera. Levi incontrò anche i “sognatori”, una serie di personaggi tra follia e lucidità che inventavano storie: truffatori, bugiardi patentati, visionari, ciarlatani. Ma tutti vivi, e, a loro modo, affascinanti.
Lui, Cesare, Leonardo e Gottlieb, insieme ad altri, partirono in treno con destinazione Odessa, da lì avrebbero dovuto imbarcarsi per tornare a casa. Così gli dissero. In realtà si rivelò un’illusione. Fu un viaggio di sofferenza e disagio, un incubo, prigionieri della burocrazia sovietica.
Vagavano ridotti alla miseria, disperati che incontravano altri disperati, in un’Europa dell’est finita in macerie, millequattrocento italiani che viaggiavano portati da una trentina di carri merce, incrociando poveracci di altre nazioni, e alla fine arrivarono nella Russia Bianca, in Unione Sovietica.
«A Sluzk, nel luglio 1945, sostavano diecimila persone; dico persone, perché ogni termine piú restrittivo sarebbe improprio. C’erano uomini, ed anche un buon numero di donne e di bambini. C’erano cattolici, ebrei, ortodossi e mussulmani; c’erano bianchi e gialli e diversi negri in divisa americana; tedeschi, polacchi, francesi, greci, olandesi, italiani ed altri; ed inoltre, tedeschi che si pretendevano austriaci, austriaci che si dichiaravano svizzeri, russi che si dichiaravano italiani, una donna travestita da uomo, e perfino, cospicuo in mezzo alla folla cenciosa, un generale magiaro in alta uniforme, litigioso e variopinto e stupido come un gallo.»
Dopo dieci giorni ripartirono da Sluzk, verso un’apparente definitiva destinazione, in un altro campo sosta a settanta chilometri, nel piccolo villaggio di Staryje Doroghi (Vecchie Strade), settanta chilometri da percorrere a piedi, un viaggio allucinante in mezzo al nulla, ma sempre accompagnati da qualche singolare aneddoto. L’ultima parte fu percorsa su un carretto. La destinazione riservata agli italiani era un enorme edificio: la Casa Rossa, in avanzato stato di degrado.
Rimasero lì per tre mesi, e anche se il rancio era di pessima qualità, era abbastanza sufficiente, però vissero anche di espedienti, grazie soprattutto a Cesare, e nonostante tutto, furono mesi di ozio e di relativo benessere, ma proprio per questo colmi di nostalgia.
Fu come una lunga vacanza estiva allietata da cinema e teatro improvvisati, ma con un desiderio pungente e crescente di tornare a casa.
Dopo una serie di segnali contraddittori, gli fu annunciato che entro breve sarebbero sarebbero stati rimpatriati. Il 15 settembre finalmente partirono. Il viaggio in treno non fu facile e fu colmo di disagi, soprattutto per le pessime condizioni in cui si trovavano i convogli e le ferrovie, tuttavia, la felice disposizione d’animo lo rese senz’altro meno disagevole degli spostamenti precedenti. Ripercorsero a ritroso la prima parte del ritorno.
La seconda parte del romanzo, quella del ritorno, è, tuttavia, caratterizzata dalla foga di bruciare le tappe, molto più breve della prima. Si percepisce infatti l’ansia del rientro e per questo Levi velocizza la narrazione in maniera quasi febbrile, assai sintetica.
Fu un viaggio completamente disorganizzato e senza una logica apparentemente, pieno di incognite e di incertezze, come era di consueto nello stile dei russi.
Arrivarono così in Romania, passarono per le colline verdeggianti della Moldavia, lasciandosi alle spalle la steppa russa.
Si fermarono nella città rumena di Iasi dove cambiarono treno, dirigendosi verso l’Ungheria. Nel frattempo le scene si ripetevano uguali: ferrovie malandate, bivacchi, arte di arrangiarsi, episodi grotteschi e singolari.
“Ma in Ungheria, malgrado i nomi impossibili, ci sentivamo ormai in Europa, sotto l’ala di una civiltà che era la nostra, al riparo da allarmanti apparizioni quali quella del cammello in Moldavia.”
Il 7 ottobre arrivarono in Slovacchia e l'8 alla periferia di Vienna.
La desolazione e le rovine li accompagnarono dappertutto.
“ Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena piú ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione, greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei visceri dell’Europa e del mondo, seme di danno futuro.”
Nel campo di transito di St. Valentin, a soli trecento chilometri da Tarvisio, passarono tutti e millequattrocento nelle mani degli americani, sostarono lì per poche ore, giusto il tempo per essere lavati e disinfettanti.
Ma prima di passare il confine italiano, transitarono per Monaco, dovendo imbarcare altri italiani. La sensazione di essere sul suolo tedesco per la prima volta suscitò sentimenti contrastanti nel loro cuore. Passarono il Brennero il 17 ottobre, quel confine che avevano già varcato venti mesi prima.
“Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svaní in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento.”