domenica 25 febbraio 2024

Inge Scholl, “La Rosa Bianca” (1952 - 2006)


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Classici 


Inge Scholl, “La Rosa Bianca” (1952 - 2006)


«Per un popolo civile non vi è nulla di più vergognoso che lasciarsi «governare», senza opporre resistenza, da una cricca di capi privi  di scrupoli e dominati da torbidi istinti.»


«Ma possiamo veramente chiamarli eroi? Non hanno fatto nulla di sovraumano. Hanno difeso una cosa semplice, sono scesi in campo per una cosa semplice: per i diritti e la libertà dei singoli, per la loro libera evoluzione e per il loro diritto a una vita libera. Non si sono sacrificati per un’idea fuori del comune, non perseguivano grandi scopi. Ciò a cui aspiravano era che gente come te e me potesse vivere in un mondo umano. E la cosa grande è forse proprio questa, che hanno difeso, mettendo a repentaglio la vita, una cosa così semplice, che hanno avuto la forza di difendere, con suprema dedizione, i diritti più elementari dell'uomo.»


«”Libertà” era stato scritto a grandi lettere sui muri dell'università, “Abbasso Hitler” sulle strade. Erano stati lanciati di notte dai volantini incitanti alla resistenza, e la città ne era rimasta sconvolta come da un terremoto. Tutto era sì ancora in piedi come prima, la vita continuava come sempre; ma qualcosa era segretamente cambiato.»


«Se ognuno aspetta che sia l'altro a dare il via, i messi della Nemesi vendicatrice si avvicineranno irresistibilmente sempre più e anche l'ultima vittima sarà stata gettata assurdamente nelle fauci dell'insaziabile dèmone. Perciò ogni singolo, cosciente della responsabilità che gl’incombe come membro della civiltà cristiana e occidentale, deve difendersi più che può in quest'ora estrema, deve opporsi al flagello dell'umanità, al fascismo e ad ogni sistema simile di stato assoluto. Fate resistenza passiva, resistenza, ovunque vi troviate…»


“Non abbiamo grandi possibilità di scelta. Disponiamo di un mezzo solo: la resistenza passiva.

Il senso è il fine della resistenza passiva consistono nel far cadere il regime nazionalsocialista. In questa lotta non dobbiamo esitare davanti a nessuna strada, a nessuna, a nessuna azione; in qualunque campo si trovino.”


Pochi giorni fa, il 22 febbraio, ricorreva l'anniversario della morte dei fratelli Scholl, Hans e Sophie, e del loro amico Christoph Probst (tutti e tre ritratti da sinistra a destra nella foto sulla copertina di questo libro). In quel giorno del 1943 furono assassinati dai nazisti. Furono barbaramente giustiziati, successivamente, sempre quell’anno, anche altri loro amici della "Rosa Bianca”, tutti giovani dai 21 (Sophie) ai 25 anni, e il professore Kurt Huber di 49 anni. Tutti tedeschi.


“La Rosa Bianca” era un gruppo, sorto spontaneamente, di opposizione e resistenza al nazismo, composto da un piccolo nucleo di attivisti, ma tutti molto determinati e agguerriti. Operarono per lo più a Monaco.

Questo libro, preziosissimo documento storico, biografico e autobiografico, assai commovente, da conservare gelosamente e lasciare come testimonianza ai posteri, porta la firma della sorella degli Scholl, Inge, che lo scrisse dopo la guerra, per lo più negli anni cinquanta, come tributo e memoria ai fratelli e agli amici morti.


Inge, infatti, all'epoca non fu coinvolta nel loro progetto clandestino.

Ne porterà il peso per tutta la sua esistenza, e sentì come un dovere renderne testimonianza, tenendo vivo per sempre l’esempio di quei giovani e del professor Huber. 

Erano giovani di estrazione cristiana: cattolica, luterana e ortodossa.

Sul nome Rosa Bianca circolano diverse ipotesi, ciò che si sa di quasi certo è che Hans amasse molto i fiori e che il bianco doveva probabilmente simboleggiare la purezza d'animo.


Non dovrebbe essere difficile immaginare quanto questo piccolo gruppo di ragazzi abbia avuto coraggio in un contesto di generale sottomissione, paura e consenso diffuso verso il regime nazista, durante il quale ben poche espressioni di resistenza vi furono. Ed è facile capire perché divennero un modello a cui far riferimento anche per le generazioni future. 

Le memorie scritte da Inge aiutarono molto la trasmissione del loro esempio.


Il vincolo che univa questo gruppo era innanzitutto un vincolo affettivo, erano già amici da prima. Erano cresciuti insieme, oppure si erano incontrati come accade ad anime gemelle, non fu un immediato vincolo politico che li tenne insieme. Avevano condiviso scelte, passioni, percorsi scolastici. Alcuni di loro, come i fratelli Scholl, avevano fatto parte della Gioventù Hitleriana.


Infatti, Inge, raccontando della famiglia, scrive che inizialmente avevano vissuto tutti con grande entusiasmo e speranza l’avvento del nazionalsocialismo, erano giovani e volevano sentirsi parte di un gran disegno.

Avevano subito, equivocando, il fascino di promesse di riscatto e libertà, per loro c’era anche la novità del gruppo in cui potersi riconoscere e fare nuove amicizie. Sentire un’identità di anime e prospettive di un mondo nuovo che apriva grandi possibilità. Ma non ci volle molto a capire che era tutta un’illusione, e che era solo un modo per irreggimentare e omologare le giovani generazioni.


Il padre aveva da subito espresso grandi riserve: «Non credete a tutto quello che dicono; sono dei lupi e dei ciarlatani, e abusano terribilmente del popolo tedesco». Anche lui venne chiuso in prigione per qualche mese solo per aver espresso un’opinione su Hitler in una breve frase: «gran flagello mandato da Dio all’umanità». 

Hans disse al fratello Werner che la detenzione del padre doveva essere considerata “un onore”, anche se era un duro fardello da sopportare.


Vivevano nell’organizzazione giovanile tra censure, obblighi e coercizioni, l'esatto contrario della libertà che vivevano in famiglia. Cominciarono a trapelare anche le notizie di abusi e di crimini. E allora i dubbi divennero indignazione.

Si rifugiarono nel calore familiare e nell’aria di libertà dei gruppi giovanili semi clandestini della Jugenschaft, che teoricamente era già proibita, e fu soppressa poi definitivamente dalla Gestapo operando anche una serie di arresti. 


La famiglia, queste esperienze, gli studi e alcuni incontri decisivi con persone speciali e con le teorie del vescovo von Galen, furono assai formativi per Hans e Sophie e per quello che avverrà dopo: per la scelta chiara e netta di opporsi al dispotismo. Ma l'incontro in un certo senso determinante fu col professor Huber, insegnante di filosofia di Sophie, che già si considerava uno di loro.


Quando tornarono dal fronte russo, Hans e i suoi amici erano ancor più determinati ad opporsi.

Tuttavia, non erano i fratelli Scholl i soli a tenere in piedi questo gruppo. Erano in pochi ma ben organizzati. Come lo dimostrarono anche i volantinaggi fatti in diverse città.  Molto lo si dovette anche ad Alexander Schmorell, a Christl Probst e a Willi Graf. Hans e Alex furono i più attivi, una sorta di leader.


Riscoprirono anche lo spirito più intimo del cristianesimo, non quello dei vertici ecclesiastici, ormai compromessi con il regime, ma quello dei semplici fedeli. Molti cristiani, infatti, si erano avvicinati spontaneamente alla resistenza. Quindi ci fu parallelamente un processo di avvicinamento anche alla fede, dal basso, non promosso dalla Chiesa. Un cristianesimo il loro che, come era naturale che fosse, divenne strumento di critica sociale.


Non è tanto quello che fecero che fu importante, in definitiva poche azioni, incentrate sulla diffusione dei volantini e di qualche scritta, ma perché lo fecero e come lo fecero in un arco di pochi mesi, facendo credere ai nazisti di essere molti e ben ramificati. I volantini non erano come li possiamo immaginare oggi, erano colmi di poetica, di richiami colti, erano veri e propri brevi trattati politico-filosofici, durissimi pamphlet che esortavano il popolo tedesco alla resistenza, lo scuotevano dall’apatia e lo mettevano di fronte alle sue gravi responsabilità. Fa tenerezza l’ingenuità e l’entusiasmo giovanile che li contraddistingue, ma stupisce anche l’acume di alcune analisi.


Tra le azioni strategiche proposte nei volantini, merita attenzione quella di resistenza passiva, intrecciata a quella di sabotaggio. Sono, in sostanza, semplicemente espresse in altro modo le tecniche di disobbedienza civile che possono essere messe in atto in svariati campi, da subito, con il rifiuto di partecipare a eventi, parate del partito, collette di beneficenza, resistenza nelle scuole e nelle università, nella ricerca scientifica, boicottaggio dei giornali e della raccolta dei materiali per uso bellico, aiuto agli oppressi, appoggio agli ebrei e ai lavoratori stranieri.


Avevano capito perfettamente che il modo migliore per mobilitare la gente in un regime come quello, era la disobbedienza civile o l’obiezione di coscienza. I piccoli gesti. Anche perché Hitler era ossessionato dal consenso.

E a ben vedere, sono tecniche che, mutati il contesto e le condizioni, dovrebbero valere sempre, in ogni situazione in cui ci troviamo a vivere di fronte a sistemi o a dispositivi totalitari.


Ci tenevano a precisare che loro non erano legati a nessuna forza politica o nazione esterna. Il loro messaggio nasceva in Germania e ai tedeschi era rivolto. Ma prima di qualsiasi redenzione, il popolo tedesco avrebbe dovuto riconoscere le proprie colpe e le proprie responsabilità nel sostegno non solo attivo al mostro, e doveva far seguire ciò da una lotta incondizionata, in tutte le sue forme.


Si dissero subito convinti di mettersi in gioco, perché anche se non avessero avuto successo, era loro dovere osare e testimoniare per amore della vita. Era duro dover augurare la sconfitta militare al proprio paese, ma era quella l'unica possibilità di liberarlo dal parassita.

Hans ad un certo punto si sarebbe potuto rifugiare in Svizzera, qualora il rischio di essere catturato potesse aumentare. Ma preferì restare per non mettere in pericolo amici e familiari. 


Il 18 febbraio, subito dopo un volantinaggio, Hans e Sophie furono arrestati. Andarono con serenità e coraggio verso la condanna a morte e si addossarono tutte le colpe, pur di salvare gli altri. Furono giudicati e condannati insieme a Christl Probst. I tre dimostrarono una grande dignità. Poco tempo dopo furono condannati a morte anche il professor Kurt Huber, Willi Graf e Alexander Schmorell.

Inge descrive con grande partecipazione il processo, le condanne e la cupa atmosfera di quel periodo, quando si accumulavano ingiustizie ad altre ingiustizie, in attesa che la Bestia cadesse.


Il libro, dopo l’introduzione di Tanja Piesch, curatrice di una mostra su “La Rosa Bianca, e dopo la parte più lunga scritta da Inge Scholl, contiene anche il testo dei volantini distribuiti dal gruppo; alcune annotazioni sugli scopi della Rosa Bianca, sempre a firma di Inge; il racconto di vari testimoni; e alcuni commenti sulla vicenda, tra cui quello di Ferruccio Parri e quello di Thomas Mann.


Di particolare interesse la testimonianza di Falk Harnack, fratello di Arvid Harnack, giustiziato il 22 dicembre del 1942 insieme alla moglie, sui tentativi di contatto tra Schmorell, i fratelli Bonhoeffer e il gruppo Schulze-Boysen e Harnack, in cerca di creare un collegamento con tutti i gruppi di opposizione, compresi gli studenti di Monaco della “Rosa Bianca”, per la creazione di un fronte antifascista al di sopra dei singoli partiti. Fu processato insieme a Huber, Graf e Schmorell, che furono condannati a morte, lui no, doveva tornare dalla Gestapo, ma riuscì a fuggire in Grecia, dove continuò la lotta antifascista.


giovedì 22 febbraio 2024

Henrik Stangerup, “L’uomo che voleva essere colpevole” (1973)

 


Consigli di lettura

Classici


Henrik Stangerup, “L’uomo che voleva essere colpevole” (1973)


«Se questa è la società cui, apparentemente, tutti aspiriamo, personalmente preferisco l’anarchia.»

Anthony Burgess 


«Aveva riletto velocemente Orwell, Huxley e Bradbury, ma non era il genere che cercava. Era troppo facile vedere il futuro così radicalmente in modo negativo, pensava, e sorrise fra sé perché, per un riflesso condizionato, automaticamente aveva catalogato 1984 nel futuro. Gli piacevano molto di più quei vari scrittori sconosciuti che avevano cercato di immaginare un domani molto più stimolante e migliore.»


«Doveva pensare solo a se stesso e forse un giorno avrebbe cominciato a scrivere quei famosi romanzi progettati in ospedale. Se anche nessuno voleva pubblicarli, poteva scriverli per sé, nella speranza che un domani, in una società diversa, la sua opera potesse uscire dall’anonimato e testimoniare che la fantasia creatrice dell’uomo sopravvive a tutto, anche a decenni di indottrinamento e di conformismo.»


«C’era qualcosa che somigliava alla pace. Lì poteva ancora illudersi che il mondo intorno non fosse fatto solo di cemento, di luci al neon e di prodotti chimici. Rimase seduto per un po’ su una panchina spostando la ghiaia con la punta delle scarpe e capì che non era importante dove fosse sepolta Edith, e neppure se era stata cremata e le sue ceneri sparse al vento: la cosa davvero importante era che né lo psichiatra né gli Assistenti del suo caseggiato, né gli psicologi, né gli educatori, né chiunque altro, riuscissero a fargliela dimenticare. Inutilmente avevano eliminato tutto ciò che poteva evocare il suo ricordo e manipolato documenti che gli proibivano di vedere. Edith era molto di più di una di quelle parole che facevano ogni giorno sparire dal vocabolario. Non sarebbe mai finita nell’oblio finché lui rimaneva libero e poteva fare ciò che voleva, almeno fino al giorno in cui non avrebbe più resistito e sarebbero riusciti a imporgli la loro volontà, qualunque questa fosse…»


In testa alle citazioni riportate in questa mia recensione trovate una breve frase di Anthony Burgess, autore di “Arancia Meccanica”, frase estrapolata proprio dalla conclusione alla sua postfazione del 1982 a questo romanzo.

Nessuno più degno di lui probabilmente poteva scriverla. È anche la sua una sorta di recensione, che ha affinità e differenze con la mia, fatte le dovute proporzioni, ovviamente. Nulla dirò del suo contenuto, lascio a chi si procurerà il romanzo, che vale assolutamente la pena di essere letto, il piacere di assaporare anche la postfazione di Burgess.


Dopo “Kallocaina”, romanzo del 1940 della scrittrice svedese Karin Boyle, continuano le pubblicazioni di racconti distopici scandinavi da parte della casa editrice Iperborea. Ora, è la volta del danese Henrik Stangerup, che fu appassionato studioso di Søren Kierkegaard, con il romanzo “L’uomo che voleva essere colpevole”, uscito per la prima volta nel 1973. 

E così continua anche il mio viaggio attraverso questo genere letterario. 

Il libro è inoltre anche un originale apologo sul senso di colpa e sul bisogno di espiazione.


L’autore fin dalle prime righe ci precipita in questo singolare mondo nuovo con gli incontri AA (Anti-Aggressività), finalizzati a sfogare violenza, sia fisica che verbale, su oggetti di varia natura, al fine di potersi liberare dalla rabbia e dall’impulso all’individualismo, e per poter essere pronti alla convivenza nelle supercomunità.

Premesso questo, sul romanzo aleggiano proprio “Arancia Meccanica” e “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley. Ma non solo. 


È questo un universo accecato dalla noia e dall’abitudine, in cui gli incontri AA sono in sostanza giochi di rieducazione al conformismo e all’annullamento di qualsiasi individualità, incontri non imposti obbligatoriamente, ma attraverso la persuasione manipolatoria. All’inizio del romanzo, all’improvviso, Torben, il protagonista, sotto i fumi dell'alcol, entra in corto circuito mentale e in un impeto di rabbia uccide la moglie Edith.


Nella realtà di Torben, è necessario dimostrare di essere socialmente conformi, aver riconosciuto la propria asocialità e il proprio egoismo, essersi disfatti dell'individualità, per poi sottoporsi al verdetto degli Assistenti, grigie figure burocratiche, preposte a vegliare sugli incontri AA e al controllo dei singoli. La piena conformità serve anche a ottenere il “certificato di procreazione”, che può però essere revocato in qualsiasi momento e i figli affidati a enti pubblici o a genitori adottivi mentalmente sani.


Torben è uno scrittore fallito, inserito in una realtà dove tediosi programmi televisivi servono a manipolare le coscienze, dove persino le fiabe dei Fratelli Grimm e di Hans Christian Andersen devono essere “revisionate” e riscritte, tagliando le parti che esaltano l’individualismo asociale, cancellando i “demoni” che agitano i sogni dei bambini, e che potrebbero turbare la grigia e placida educazione dell'infanzia, un vero e proprio esorcismo letterario. Il romanzo di Stangerup anticipa così anche altre tematiche: come la cancel culture di impostazione progressista e le tendenze della sfera pubblica a colonizzare ogni aspetto della vita privata.


Stangerup descrive una Danimarca distopica, arrivata al vuoto cosmico con un governo che avrebbe dovuto portare felicità e invece aveva portato la noia, l’alienazione e il conformismo. Il percorso esistenziale di Torben e della moglie, che da giovani avevano avuto un passato di impegno politico “rivoluzionario”, presto si era gradatamente trasformato in illusione, in estremismo settario e in paranoia. 

Un destino personale che lo scrittore ci presenta come legato a quello della nazione, simboleggiato dall'elevato numero di psichiatri che hanno in “cura” un intero popolo.


“L’uomo che voleva essere colpevole” non è solo narrativa, ma un’occasione per parlare di filosofia, politica ed etica, prendendo a pretesto una vicenda personale di psicosi, ma anche di consapevolezza, e in cui ci si trova immersi in una realtà fondata sul controllo sociale, con la scusa di “tutelare” il bene comune, dove è preclusa ogni via di fuga esistenziale, abolito ogni conflitto, ogni immaginazione. È la fine della Storia o la possibilità di un nuovo inizio?


Torben, preso dalla disperazione, viene spedito in terapia psichiatrica in un ospedale limitrofo ad un'area denominata “Parco della Felicità”, un esperimento terapeutico per i malati di mente, la ricostruzione di una società in miniatura, dove i pazienti hanno anche appartamenti privati. Si ha come la sensazione che lo scrittore qui abbia avuto l’intenzione di fare un parallelo satirico con la celeberrima comunità hippy di Christiania della città di Copenaghen, che veniva fondata all’epoca in cui Stangerup scrisse il romanzo. Una satira ben congeniata e dall’appropriato valore simbolico.


Anche la letteratura, i libri sono stati infettati dal conformismo, dalla propaganda dei buoni sentimenti progressisti. I libri hanno tutti la stessa struttura con una stessa morale, tranne un’esigua minoranza lasciata a chi vuol sentirsi diverso, ma fondamentalmente innocuo.

Copenaghen è una città morta senza più vita sociale e culturale. Una città spettrale.


Come nell’universo orwelliano e nel regime nazista, il sistema in cui vive Torben ha a cuore anche la riscrittura della lingua e dato che quello è un mondo progressista viene inventata la LINGPROG, nel cui vocabolario non può esserci un'espressione negativa che non possa prevedere il suo sinonimo positivo, e che poi lo sostituisca, come avviene in ogni sistema politically correct che si rispetti. Torben partecipa a estenuanti riunioni in cui si lavora per manipolare le parole e il loro significato. Così, per esempio, viene cambiato nome al “certificato di procreazione”, chiamandolo col meno burocratico “tessera di mammaepapà”, e non a caso con un mirato uso infantile del linguaggio.


I tentativi di ricondizionamento dolce sono lo strumento terapeutico per recuperare i “disagiati”, i marginali, e ricondurli verso “l'utopia” del “bene”. È previsto un trattamento con equipe di psichiatri e l'uso di esercizi collettivi di odio, un rito di massa contro personaggi immaginari, cui riversare la propria frustrazione.


All’improvviso a Torben viene annunciato da un medico che, nonostante abbia ucciso sua moglie, il suo percorso di riabilitazione è finito e, da quel momento in poi, è libero. Deve solo seguire delle indicazioni terapeutiche ben precise. Per l’uomo ha inizio una vicenda kafkiana al contrario, come un Josef K., disperatamente in cerca del suo processo e di una sentenza di condanna.

Ovviamente, non è mia intenzione anticipare l’espediente narrativo più importante.


Non è un caso che una parte della letteratura distopica successiva al filone originario, tragga ispirazione da Orwell, Kafka e Dostoevskij, oltre che, in questo caso, dai già citati Burgess e Huxley.

Il personaggio di Torben infatti riassume dentro di sé anche le figure di Josef. K, Raskolnikov e Winston, in una sintesi più consona al contesto in cui fu scritto il romanzo. 


Non è affatto uno scaltro espediente, ma la dimostrazione che un filone della letteratura distopica è basato sul rapporto col senso di colpa, per cui anche il ricorso, come fonti di ispirazione, a opere che non appartengono propriamente al genere, stanno a dimostrare che la crisi dell’individuo in rapporto alla sua identità, e al cospetto dello stato totalitario, possa prescindere dalle gabbie di una singola concezione, e scelga di essere rappresentata dall’ibridazione letteraria, assorbendo le più pregevoli linee narrative del passato.


Sul banco degli imputati di questo acuto romanzo si trova, poi, con tutta evidenza la società socialdemocratica e progressista scandinava dell’epoca, dei rischi che Stangerup percepiva potessero concretizzarsi con la degenerazione del suo modello politico sociale, colmo di depressione e insoddisfazione. Vedeva stagliarsi all’orizzonte il rischio di un totalitarismo dolce e della medicalizzazione del dissenso. E a ben vedere, lo scrittore danese non era affatto così lontano da quel processo di continua degenerazione democratica che si è verificato non solo in Danimarca, ma nell’intero continente europeo.


Mi pare interessante constatare, o quanto meno riconoscere, che la stessa critica sociale, dalla quale prende le mosse lo scrittore danese, è interna allo stesso campo culturale, alla stessa area politica. Si percepisce infatti che il soggetto che muove le accuse condivide origini di appartenenza con l’oggetto della satira. Non è un sentimento da conservatore, men che meno da reazionario, si potrebbe dire, semplificando, una critica che viene da sinistra, ma da una sinistra libertaria, ancora sensibile ai diritti individuali. Negli anni settanta era ancora così.


La vicenda è profondamente caratterizzata dalla fine delle illusioni, delle quali aveva fatto esperienza Torben stesso. Un percorso di decadimento, di degrado personale, che si specchia in quello della società danese così come viene rappresentata nella dimensione distopica.

Il capovolgimento kafkiano ha qualcosa di geniale, simboleggia l’eterogenesi dei fini di una cultura politica apparentemente libertaria e antiautoritaria, che nella presa del potere, si trasforma nel suo opposto.


È molto interessante anche la critica all’illusione di un uso alternativo dei mezzi di comunicazione di massa, dimostrandosi anticipatore anche in questo senso, riportando alla mia mente forse un azzardato collegamento letterario: quello del Norman Spinrad di “Jack Barron e l’eternità” (o “Jack Barron Show”), a cui dedicherò una mia prossima recensione.


Gli sforzi di Torben nel reclamare una punizione, che possa aprirgli le porte alla redenzione e all'espiazione, ben rappresentano la presa di coscienza di un ex sostenitore di quelle idee che hanno portato al loro stesso tradimento. È anche la disperata richiesta di perdono per aver contribuito all’edificazione di quel mostruoso sistema di potere.

In definitiva, questo è un romanzo che sollecita in maniera assai intelligente molteplici e diversi spunti di riflessione anche sull'epoca attuale.

lunedì 19 febbraio 2024

AA.VV., OCTE, a cura di Luca Marini, «Ecotruffa. Le mani sul clima» (2023)

 


Consigli di lettura


Saggistica 


AA.VV., OCTE, a cura di Luca Marini, «Ecotruffa. Le mani sul clima» (2023)


«Luca Marini insegna diritto internazionale e diritti umani alla Sapienza di Roma, dove ha insegnato a lungo anche diritto dell’Unione europea. Tra i più noti studiosi di bioetica e di biodiritto internazionale, è stato titolare della Cattedra Jean Monnet di biodiritto conferita “Ad Personam” dalla Commissione europea, nonché vice presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica. Attualmente presiede l’European Centre for Science, Ethics and Law (ECSEL). È autore di oltre 160 pubblicazioni, nonché autore, coautore e curatore di 16 volumi.»


«Utilizzare degli offset come mezzo per ridurre le emissioni di gas serra è come cercare di perdere peso pagando qualcun altro per fare la dieta, quindi sostenere che la perdita di peso (dell'altro) è la tua.»

«Il quadro che emerge è il tentativo di riorganizzare finanziariamente l'economia mondiale usando l'obiettivo "zero emissioni" come pretesto.

La finalità dell'ideologia climatica non è il benessere del pianeta e dei suoi abitanti, ma il benessere della grande finanza.»

Mario Giaccio


«Il più recente periodo caldo precedente al nostro - caldo quanto se non più di quello attuale - è stato quello che i geologi chiamano il periodo caldo medievale, occorso a livello globale…

…L'attuale periodo caldo non è iniziato circa 100 anni fa, cioè non è iniziato dopo l'emissione di CO² causate dalla rivoluzione industriale. È una condizione necessaria (sebbene non sufficiente) perché l'azione A sia la causa dell'azione B è che B debba seguire A. L’attuale periodo caldo è iniziato circa 400 anni fa, ben prima della rivoluzione industriale, al minimo di ciò che i geologi chiamano “la piccola era glaciale” intorno al 1690. Sorge allora la domanda: perché il clima iniziò a diventare più caldo 400 anni fa? Qualunque sia la risposta non può essere a causa della rivoluzione industriale.»

«Le tecnologie eoliche e fotovoltaiche sono inutili: il loro contributo alla curva di carico è praticamente nullo. Non è una questione di costi: se la torre eolica e i moduli fotovoltaici fossero gratis, sarebbero altrettanto inutili. Semplicemente non si adattano all'impianto elettrico. Se i tetti delle case europee fossero tutti ricoperti, per magia, da moduli fotovoltaici, avremmo ancora bisogno di tutti gli impianti convenzionali che abbiamo adesso.»

Franco Battaglia


Comunque la pensiate, questo è un libro indubbiamente prezioso, non il solito instant book propagandistico, è una raccolta di saggi che dà voce, in maniera assai documentata, all'opposizione alla grande truffa della Transizione Ecologica e del New Green Deal, la più grande operazione di greenwashing mai attuata fino ad ora dal Grande Capitale. E che nello spirito emergenziale dell'agenda 2030, offre uno sviluppo ancor più pervasivo nelle società umane a livello globale.


Ma è prezioso anche per i dati che pubblica, per il fatto che è minuziosamente documentato, in cui non vengono esposte solo teorie alternative, ma dove l'analisi dettagliata è davvero impressionante. 

La pubblicazione è curata dall'Osservatorio Contro la Transizione Ecologica (OCTE), un network accademico composto da diversi docenti di varia estrazione e tendenza, che per mezzo di contributi teorici, alcuni dei quali raccolti in questo volume, racconta un'altra storia.

La scelta dell'OCTE di restare fuori dai social media è in questo senso sicuramente apprezzabile. 


La costruzione scientifica che sta dietro al presunto riscaldamento globale di origine antropica è solo ed eminentemente politico ideologica.

In tutto questo, il ruolo che gioca l'Unione Europea, con una moneta senza stato, l'unica al mondo, è il solito: quello di favorire una feroce globalizzazione a scapito dei cittadini, e fare da laboratorio per un modello da estendere poi a livello mondiale.


Il mito del progresso e dello sviluppo sul quale si era fondata la coesione sociale nel dopoguerra, stava venendo meno nell'immaginario collettivo, quindi era necessario costruire un altro mito. Se ne comincerà a occupare il Club di Roma con la costruzione di un mito del catastrofismo ambientale. Quindi, si passò dall'ottimismo al pessimismo. 


I "benefici" del capitalismo estesi a tutta l'umanità non andavano più bene, e quindi, per salvaguardare il sistema, bisognava renderlo favorevole solo per una minoranza. Per far questo era necessaria una nuova ideologia sulla quale trovare il pieno consenso, e così il Club di Roma,  organismo sovranazionale,  atto a fare pressioni sugli stati, trovò l'inquinamento, il riscaldamento globale, l'esaurimento delle risorse, la fame, facendo leva sul senso di colpa, visto che la causa è antropica.


La mancata realizzazioni delle previsioni, rimandate di volta in volta, prima alla fine degli anni settanta, e poi di decennio in decennio, non influenzarono la riuscita del metodo. Infatti, come diceva Malthus, le previsioni catastrofiche vanno sempre bene, per qualsiasi periodo dell'umanità. Hanno sempre successo.

Dopo cinquant’anni nessuna di queste previsioni si è avverata, soprattutto quella sull'esaurimento delle risorse, eppure continuano ad avere successo.


Uno studio del Regno Unito, con un equipe di sociologi e psicologi ha condotto una ricerca in cui è emerso che la percezione dell'opinione pubblica è orientata più a credere al concetto di cambiamento climatico, che a quello di riscaldamento globale, in quanto il primo porta a giustificare qualsiasi evento estremo all'interno di una ben precisa cornice narrativa. La persuasione quindi verso un concetto più preciso e che non ammette dubbi, quindi non falsificabile (per questo di fatto non scientifico) ha un impatto maggiore, restando invariata la causa antropica, che al potere delle élite è quella che interessa di più promuovere.


Infatti, nell’ultima edizione del Forum di Davos è stata aggiornata la narrazione: tra i maggiori rischi a livello globale nel breve e nel lungo periodo, non c’è più il “global warming”, sostituito dalle espressioni “extreme weather events”, “critical change to Earth systems” e “natural resources shortage”.


È in atto in sostanza una grande operazione cosmetica di ristrutturazione capitalista.

Il centro di questa operazione non è l'ambiente, ma la speculazione economica tramite il trasferimento di ingenti somme di denaro in nuovi investimenti. E sono sempre più o meno gli stessi attori, gli stessi gruppi finanziari che prima investivano nel carbone e nel petrolio.


Il soggetto che forse ha più interesse a promuovere l'agenda verde nel WEF è Black Rock, la più grande società di investimento al mondo. L'amministratore delegato ha infatti "pubblicato una lettera indirizzata agli amministratori societari, promuovendo con enfasi gli investimenti climatici." (cit. Giaccio). È ovvio che questi investimenti saranno guidati da pochi gruppi finanziari. Questo tramite la richiesta alle aziende, su cui investe Black Rock, di rispettare la conformità all'ideologia "verde", dimostrando la loro sostenibilità che esclude i fossili.


E, soprattutto, è stata sottoscritta l'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile da ben 193 paesi (compresi i BRICS). Sostenibilità che non è richiesta solo a livello ambientale, ma anche a quello economico e sociale.

Le più influenti multinazionali e i più grandi investitori istituzionali supportano l'Agenda Verde e l'ideologia green per salvare il pianeta. Che c'è di strano?


Le attività umane non hanno nessun impatto sul clima, e pure se lo avessero, ridurre le emissioni di CO² metterebbe a rischio il benessere, la nostra civiltà e persino la nostra vita, mettendo in pericolo milioni di persone e condannandone miliardi alla povertà; non il clima, ma garantire l’energia è il vero problema dell’umanità; e infine non è creando energia che si creano posti di lavoro, ma consumandola, il risparmio energetico è una truffa, così come le energie alternative.

Ridurre la CO² nell’obiettivo che ci si era prefissati, inoltre, è risultato impossibile, come dimostrano i fallimenti di ben ventotto Conferenze sul clima (COP).


Gli autori coinvolti in questo saggio, oltre a Luca Marini sono: Alfio Barbato, dottore commercialista; Franco Battaglia, docente presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia; Gianluigi De Mare, docente presso l’Università di Studi di Salerno; Alessandro Fraleoni Morgera, dell’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti - Pescara; Mario Giaccio, preside della facoltà di economia dell’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti - Pescara; Chiara Madaro, ricercatrice indipendente; Marco Mamone Capra, docente dell’Università degli Studi di Perugia; Nicola Scaletta, docente dell'Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Fabio Vighi, docente presso l’Università di Cardiff.


Molto preziosa anche l’Appendice, che contiene cinque pareri dell’Osservatorio: 1) sul piano “Fit for 55” dell’Unione Europea, 2) sulla pretesa emergenza idrica (congiunto OCTE-CIEB), 3) sull’agenda climatica e il culto delle pale eoliche, 4) sul “bleaching” della grande barriera corallina e la mistificazione dell’emergenza climatica, 5) sulla distopia della “Città dei 15 minuti”.


Tutti gli articoli meritano allo stesso modo la lettura e lo studio, per cui torno a consigliare calorosamente questo libro. Da segnalare in modo particolare l'articolo di Mario Giaccio “Follow the money” sulle implicazioni finanziarie e quello di Franco Battaglia “L'Europa in bolletta” sugli andamenti climatici, sul concetto di risparmio ed efficienza energetica e sull’inutilità delle rinnovabili.


Come dice Luca Marini, nel suo articolo introduttivo, il libro non vuole assolutamente negare le esigenze di salvaguardia ambientale, anzi, al contrario ne è strenuo sostenitore contro proprio l'attacco stesso che sta subendo dall'ideologia Green.

Marini parte da una premessa: «il progresso e la civiltà, ovunque siano arrivati, non hanno fatto altro che causare il saccheggio, la devastazione, l'impoverimento e la distruzione sistematica dell'ambiente naturale e dello stesso habitat umano».


Esempi in questo senso ne sono l'estinzione di molte specie animali e la deforestazione, indotte dal comportamento umano privo di alcuno scrupolo ambientale e realmente ecologico, con ricadute gravi anche sulle popolazioni indigene.

A fronte di questo, c'è solo la sensibilizzazione esclusivamente di facciata, superficiale dell'opinione pubblica, indottrinata attraverso operazioni di marketing, che poco o nulla hanno a che fare con la difesa dell'ambiente. 


Essere difensore dell'ambiente non vuol dire accettare supinamente, come dice Marini, e acriticamente l'esaltazione della "scienza", in alcuni casi con fervore addirittura dogmatico, vuol dire sapere che le controversie scientifiche possono essere anche manipolate e strumentalizzate dal potere politico per introdurre provvedimenti coercitivi e autoritari, come nel caso del covid.


Marini passa poi a demistificare alcuni miti del gretinismo, quali l'economia circolare e le case ecologiche che non sono affatto innovazioni, ma patrimonio appartenente alla tradizione contadina. Vedasi le case rurali di una volta, costruite razionalmente e nelle quali si poteva avere calore e acqua a sufficienza, senza elettricità, bastava solo un'adeguata quantità di legna.


Dopodiché, evidenzia i limiti e gli ingenti costi sia in termini economici che ecologici delle energie alternative, la necessità delle terre rare, e i problemi di smaltimento, prendendo come esempio le pale eoliche.

Tutti problemi che non risolverebbero la pretesa crisi climatica e che svelano invece l'ipocrisia di fondo del potere dominante.


Stesso potere che è responsabile della distruzione dell'ambiente e dei territori e che pretende che siano le persone comuni a pagarne le conseguenze, mentre solo per fare due esempi l'Ilva di Taranto e la centrale a carbone di Celano continuano a inquinare.

Quindi, potrebbero diventare di nuovo lecite le imposizioni alla limitazione delle libertà personali, come già sperimentato col Greenpass.

sabato 17 febbraio 2024

"Brazil" (1984, 1985) regia di Terry Gilliam

 


Cult Movie


"Brazil" (1984, 1985)

regia di Terry Gilliam


con Jonathan Pryce, Robert De Niro, Bob Hoskins,

Kim Greist, Katherin Helmond, Ian Holm.


È incredibile quanto, a distanza di molti anni, la visione del film di Gilliam, con le dovute proporzioni e al netto delle allucinazioni visive, possa risultare così coinvolgente e, quel che più impressiona, terribilmente attuale. Per non parlare poi degli aspetti tecnici e degli effetti speciali, non sembra affatto un film di quarant'anni fa.


Ma a proposito della sua attualità, questa non è dovuta solamente al fatto che ogni critica al potere conservi, al di là della contingenza storica, inalterati un valore universale e una carica sovversiva. Sono i riferimenti impressionanti, a volte di una precisione talmente disarmante, a rendere il film calzante alla società umana odierna.


Non è solo la personalissima e geniale rilettura di "1984" di Orwell (non a caso l'anno di produzione del film è proprio quello), ma direi anche una sintesi dell'immaginario in genere, dove Orwell incontra il Kafka de "Il Castello" e de "Il Processo", l'Orson Wells di "Quarto potere", il Fritz Lang di "Metropolis", il Robert Wiene de "Il gabinetto del dottor Caligari", il cinema noir degli anni quaranta e cinquanta e gli universi paralleli di Philip Dick.


Ma l'aspetto più evidente, che conferma la peculiarità e l'originalità del regista, è costituito dall'impostazione visionaria tipica del geniale cinema di Gilliam, diretto erede dello sberleffo culturale dei Monty Python.

E poi, è lo stesso anno che vede l'uscita di "Neuromante" di William Gibson.

Così come è palese l'influenza esercitata da questo romanzo negli anni successivi, stesso destino avrà "Brazil", nei confronti di cinema, libri, fumetti e serie TV.

 

Il capolavoro di Gilliam è uno di quei film che riesce ad incarnare integralmente l'idea assoluta e l'essenza più completa di Cinema, per cui quest'arte visiva e narrativa trova motivo di essere, senza alcuna caduta di stile o inutili tempi morti, un piacere per gli occhi e per la mente.

Gustoso, come esempio tra i tanti, l'utilizzo, in un'ottica squisitamente steampunk, di immaginari oggetti, macchinari e sistemi tecnologici futuribili, ma ispirati all'estetica della prima metà del XX secolo, fino agli anni cinquanta compresi, costumi e scenografia inclusi.


E' un mondo quello di "Brazil", dove il pessimismo va ben oltre se stesso, rendendo chiara la disillusione che ogni possibilità di cambiamento è perduta e ogni rivoluzione sconfitta, non ci resta che il sogno, fuggire attraverso di esso e rendersi inafferrabili. È una risposta troppo dura da poter accettare, nel momento in cui è chiara la metafora con la nostra realtà?


Tuttavia, nel film è presente anche un esplicito invito all'irriducibilità, non solo a livello simbolico. L'utopia che molte donne e uomini vogliono costruire non può essere tolta, se si è disposti a continuare a sognare, a disubbidire, a testimoniare e ad amare, contrapponendo un senso logico, umano e razionale al mondo del "reale", così allucinante e crudele, dove regna solo oppressione e omologazione. Unica alternativa praticabile all'alienazione totale.


Tra incubo, sogno, speranza e disperazione, la nera commedia fantastica di Terry Gilliam, ci trasporta in un mondo non così distante dal nostro, e così terribilmente simile ("da qualche parte nel ventesimo secolo"), che poi è la rappresentazione visiva e narrativa delle paure del regista, che assumono un carattere profetico.


E dopo la visione di questo film, consapevoli dei percorsi totalitari che il nostro mondo sta compiendo, ci sembra così assurda la follia anticipatrice di "Brazil"? Quante volte sarà capitato a ognuno di noi di aspettarsi qualcosa di simile all'apertura improvvisa di una botola circolare nel nostro soffitto e che "teste di cuoio", armate fino ai denti, ci vengano a prelevare, dopo averci legato e "imbustato" in un sacco? È solo paranoia? Quello che abbiamo vissuto negli ultimi anni avrebbe dovuto insegnare che tutto è possibile e che tutto è praticabile per il potere totalitario, anche per quello più soft.

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

  Cinema Cult movie “Otello” (1951) regia di Orson Welles con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier. «Fosse pia...