sabato 30 settembre 2023

George Woodcock, "L'Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari" (1962) [Recensione, prima parte]

 


Consigli di lettura


Classici della saggistica 


George Woodcock, "L'Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari" (1962)


[Recensione, prima parte]


Questa recensione sta venendo insolitamente lunga, per cui ho deciso di dividerla in più puntate, d'altronde il testo, per la sua fondamentale importanza, merita particolare attenzione. Questa è, quindi, la prima parte.

Per libri di questo genere, e quando se ne renderà necessario, la formula verrà ripetuta anche in futuro.


«Gran parte di quell’ordine che regna fra gli uomini non è effetto del governo. Ha le sue origini nei princìpi della società e nella naturale costituzione degli uomini; esisteva prima del governo, e continuerebbe ad esistere se la formalità del governo fosse abolita. La mutua dipendenza e il reciproco interesse dell’uomo per l’uomo, e di ogni parte della comunità civile per l’altra, creano quella grande catena di rapporti che la tiene insieme. Il proprietario terriero, il contadino, il manifatturiere, il mercante, il commerciante, tutti insomma, qualunque professione esercitino, prosperano grazie all’aiuto che ricevono gli uni dagli altri, e dal tutto. L’interesse comune regola le loro occupazioni e forma le loro leggi; e le leggi che l’uso comune ordina hanno un’influenza più forte che le leggi del governo.»

Thomas Paine (1776)


«...gli anarchici negano il diritto della maggioranza di imporre la sua volontà alla minoranza: il diritto non sta nel numero ma nella ragione; non si fa giustizia contando i voti, bisogna cercarla nel cuore degli uomini.»

George Woodcock


George Woodcock, scrittore e intellettuale anarco-pacifista canadese, pubblicò questo saggio, che oserei definire imperdibile, nel 1962. L'unico vero limite del libro è proprio questo (anche se ovviamente non imputabile all'autore), dato che esclude tutto il periodo successivo. Resta comunque uno strumento di analisi assai prezioso, gli aspetti teorici in comune del pensiero e del movimento anarchico sono, d'altronde, più o meno gli stessi in tutte le epoche.


Quella del saggista canadese è una storia dell'anarchia molto ragionata, in cui, con uno sguardo assai appassionato, vengono esposti pregi e difetti di alcuni singoli pensatori, in cui viene tentata una sintesi del cammino intrapreso e la storia dei movimenti anarchici a livello internazionale e nei vari paesi.

La prosa è brillante e il testo assai scorrevole, e nello stesso tempo lo scrittore canadese riesce a fornire un coerente e completo panorama d'insieme.


Già dal Prologo, primo capitolo del libro, Woodcock indica quale sarà l'oggetto della sua ricostruzione storica, un'impresa non certo semplice: trovare una definizione certa che stabilisca i limiti, entro i quali si può parlare di Anarchia, a dispetto di quanti danno ai termini di anarchia, anarchico e anarchismo una valenza denigratoria, o a quanti la definiscono sommariamente come negazione dell'autorità e lotta contro ogni sua forma.


Woodcock, invece, sostiene che questi confini possono essere rintracciati nell'enorme area che esprime la volontà di distruggere e ricostruire un mondo migliore, dall'abbattimento dell'autorità per favorire la nascita di una società giusta all'insegna della cooperazione tra individui. Nulla a che fare col nichilismo: il più grande equivoco sul concetto di anarchia, e che ancora oggi molti cercano di sostenere senza avere nessun riscontro oggettivo, ma solo con il sostegno di rozzi pregiudizi, e indicando espressioni del tutto marginali e per buona parte estranee all'idea complessiva di emancipazione e di fratellanza di cui è colma la storia del pensiero e dei movimenti anarchici.


Così come è sbagliata l'equazione tra anarchismo, violenza e addirittura terrorismo, anche perché tra gli anarchici, fin dalle origini, vi è stata tutt'altro che unanimità sui mezzi atti a raggiungere la società ideale. E persino quelli, non certo la maggioranza, che concedevano legittimità all'uso della resistenza e dell'atto violento, ne hanno sempre parlato come triste necessità. Nessun feticismo della violenza, dunque. Il fine non è la ribellione in sé, ma la libertà individuale.


Da qui, anche l'impossibilità di definire una sommaria teoria anarchica, considerate le caratteristiche non dogmatiche del concetto stesso. E da qui anche i pregiudizi di chi è ostile per partito preso, di chi è estraneo o sottovaluta la fondamentale importanza delle questioni sulla libera scelta individuale, comuni in linea di massima a tutte le correnti dell'anarchismo.


Altro elemento comune agli anarchici è la scarsa importanza che danno alla struttura organizzativa, e la piena e completa avversione per quella partitica, forma che riproduce automaticamente e inevitabilmente dinamiche fortemente autoritarie, ne negano quindi senza alcun dubbio la necessità. Proudhon diceva che «tutti i partiti senza eccezione, nella misura in cui si propongono la conquista del potere, sono varietà dell’assolutismo».


Due sono le cose, invece in sostanza, su cui essenzialmente sembrano dividersi i libertari: l'uso della violenza e l'organizzazione economica, anche se su quest'ultima l'idea generale è quella basata sulla cooperazione tra individui. Questi aspetti vengono approfonditi nella parte del libro dedicata ai pensatori e ai movimenti. E quindi ci tornerò nelle puntate successive.


Alcune considerazioni però accomunano tutte le correnti anarchiche: la prima è la natura sociale, in quanto tutti gli uomini potenzialmente sarebbero portati per natura a favorire la concordia e la libertà.

Non è, quindi, l'Anarchia a creare caos, ma l'autoritarismo di chi impone delle leggi, che ostacolerebbero il libero e ordinato evolversi della natura umana.


Per questo, gli anarchici sono anche contrari al concetto di utopia in senso stretto: la costruzione di una società perfetta costringerebbe l'umanità a cessare proprio questa continua evoluzione individuale, che non ha alcun fine ultimo e che sostanzialmente non termina mai, e la chiuderebbe di fatto in un distopico "paradiso terrestre".


Sostanziale è, quindi, la differenza tra anarchici e marxisti. Gli anarchici non credono nel progresso, nel sol dell'avvenire dell'utopia. Per cui, non sono progressisti in senso stretto, credono nel recupero del passato, soprattutto relativamente al senso comunitario proprio dei contadini, degli artigiani e delle libere arti. Ma non sono reazionari, né regressivi, l'evoluzione umana prescinde dal progresso industriale, tanto caro ai marxisti, alla loro utopia dello Stato socialista e alla dittatura del proletariato.

Il marxismo punta alla conquista del potere al fine di giungere al comunismo realizzato, l'anarchismo all'estinzione del potere e dello stato.


Si potrebbe supporre, quindi, aggiungo io, che sono gli anarchici i veri critici della modernità e gli autentici nemici del transumanesimo senza essere reazionari. Anzi, essendo nello stesso tempo anche nemici acerrimi della reazione, dato che questa si iscrive nel novero dall'autoritarismo, con posizioni in genere apparentemente contrarie, ma speculari ai progressisti, in quanto essenzialmente arbitrarie e con tendenze alla tecnocrazia, come quelle dei loro "avversari".


Gli anarchici, di conseguenza, sono fermamente contrari alla democrazia come forma di governo e come concezione istituzionale, subdola fucina di autoritarismo, che impone il potere della maggioranza e schiaccia la minoranza, e con essa il singolo individuo. 

L'individuo ha diritto naturale all'autodeterminazione, senza doversi sottomettere a nessun potere collettivo. 

Però, attenzione. Woodcock distingue tra lotta per la libertà e contro l'autorità, che affonda nei millenni, e nascita del movimento politico anarchico, che vede la luce nel XIX secolo. Ma questo lo vedremo nelle prossime puntate.


[continua]

[prossima puntata: le origini, Godwin, Stirner e Proudhon]

mercoledì 27 settembre 2023

Luther Blissett, "Q" (1999)

 


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Classici


Luther Blissett, "Q" (1999)


«Una delle poche cose piacevoli della giornata sono le discussioni con Hermann, un contadino rincoglionito che tiene dietro all'orto di Vogel. Per la verità parla quasi solo lui, mentre vibra colpi con l'ascia sui ciocchi di legno, perché ognuno, dice, ha le mani che si merita, e lui è nato che aveva già i calli, e i dottorini come me è meglio che tocchino soltanto libri. Sorride, bocca mezza sdentata, e giura che questa guerra l'hanno vinta i poveracci come lui. Racconta di quando hanno preso il castello del conte e per dieci giorni si sono fatti servire da lui e dai suoi uomini, mentre la notte si scopavano la signora e le figlie. Quella è stata la loro grande vittoria: nessuno può pensare di rovesciare i potenti per molto tempo, anche perché se governassero i contadini e i signori lavorassero la terra si morirebbe presto tutti quanti di fame, ché ognuno ha le mani che si merita... Eppure, per un signore, leccare i piedi di un servo e dover rimettere il coso dove l'ha messo un bifolco, è la piú accecante delle sconfitte. Per quelli come Hermann, il piú sacro dei godimenti. Ride come uno scemo, sputacchiando tutt'intorno, e per fargli ancor piú piacere, gli dico che, forse, il prossimo conte sarà proprio figlio suo e che quello è un bel modo di abbattere i potenti: inquinargli la prole. vinta i poveracci come lui.»


«Se dunque dalle onde di questo burrascoso oceano tedesco emergesse un Altro Lutero, piú diavolo del frate del diavolo, qualcuno che ne offuscasse la fama e desse voce alle richieste del volgo... qualcuno che mettesse a ferro e fuoco la Germania con le sue parole costringendo Federico e tutti i principi alla guerra, costringendoli a chiedere l'appoggio dell'Imperatore e di Roma per sedare la ribellione... Qualcuno, mio signore, che impugnasse il martello e colpisse la Germania con tale forza da farla tremare dalle Alpi al Mare Nordico. Se un uomo di tal genere esistesse da qualche parte, lo si dovrebbe tenere piú prezioso dell'oro, poiché sarebbe l'arma piú potente contro Federico di Sassonia e Martin Lutero.»


«Di questo sto parlando, capito? Dell'impossibilità di fermarsi. Non è giusto. Non lo è mai. Avremmo dovuto fare altre scelte, tanto tempo fa, oggi è troppo tardi. La curiosità, quella insolente, caparbia curiosità di sapere come va a finire la storia, come si concluderà la vita. Di questo, di nient'altro si tratta. Non sono mai soltanto i guadagni a menarci per il mondo, non è mai soltanto la speranza, la guerra... o le donne. C'è qualcos'altro. Qualcosa che né io né voi potremo mai descrivere, ma che conosciamo bene. Anche adesso, anche nel momento in cui vi sembra d'esservi allontanato troppo dalle cose, in voi cova la voglia di conoscere il finale. Di vedere ancora. Non c'è piú niente da perdere, quando s'è perso già tutto.»


"Q" è uno dei romanzi più importanti degli ultimi decenni del novecento letterario italiano, pubblicato esattamente nel 1999, proprio a conclusione di quel secolo, ponendosi anche come sigillo di un'epoca. Riletto a distanza di quasi venticinque anni, rivela implicazioni e aspetti non ben compresi allora.

Accuratissimo romanzo storico: è il primo del collettivo di scrittori, che all'epoca andava sotto il nome di Luther Blissett, e che poi cambierà nome in Wu Ming. Per me resta il loro romanzo migliore in assoluto, per una serie di motivi, primi tra tutti il valore di metafora che assume, al di là del contesto della Guerra dei contadini in Germania e della nascita dell'Anabattismo. 


Ma anche per la mancanza assoluta di preoccupazioni atte alla giustificazione di impostazioni ideologiche soggettive, di qualche verità dogmatica, anche se mascherata; oppure da ansia da politically correct. 

Cose che nei successivi in qualche modo è, purtroppo, rintracciabile.

D'altronde il valore delle opere artistiche prescinde dalle posizioni politiche e ideologiche degli autori.


Da questo romanzo, ogni gruppo sociale, politico e religioso viene a fondo analizzato con a uno sguardo assolutamente disincantato e impietoso. Ci possiamo benissimo leggere una metafora degli anni settanta nell'Italia del secolo scorso, oppure, andando più indietro, relativamente alla prima e seconda parte del libro, della Rivoluzione d'Ottobre e della Guerra civile in Spagna.

Resta comunque sempre attuale. Dovrebbe essere una lezione per antagonisti e antisistema di tutte le epoche, "vittime" predestinate della coazione a ripetere sempre gli stessi schemi.


La vicenda prende il via nel 1519 a Wittenberg, città che è teatro delle tesi del monaco Martin Lutero, da cui origina la riforma Protestante, patrocinata dal principe elettore di Sassonia Federico III, detto "Il Saggio". 

Così possiamo assistere alle dispute dottrinarie teologico-politiche, tra Melantone, Carlostadio e lui, Thomas Muntzer, il grande protagonista della prima parte del libro.


Questo quadro si inserisce in un più ampio scenario: il conflitto di una parte dei principi tedeschi con l'Imperatore, alleato del Papa, in una crescente escalation che rischia di precipitare la Germania già dilaniata da insanabile divisioni interne in una vera e propria guerra di religione.

Ma su tutto questo si innesta il più grande dei conflitti in seno all'alleanza cattolica: quello tra l'imperatore Carlo V e il Soglio di Pietro.


Nel frattempo, le posizioni si radicalizzano, e, all'interno della riforma, si viene a creare una frattura insanabile tra Lutero e l'ala indisponibile a qualsiasi compromesso non solo col potere ecclesiastico, ma anche con quello dei prìncipi.

E iniziano le scomuniche e le relative persecuzioni.


C'è chi deve vedersi da due nemici: la chiesa di Roma e la nuova nascente chiesa riformata.

La rivolta impazza e si diffonde, così anche l'utopia che affonda le radici nell'egualitarismo di "omnia sunt communia". E ha come base teorica le Sacre Scritture. La rivolta non disdegna la violenza, anzi le attribuisce un valore purificatore.

La mobilitazione si diffonde e vengono date alle stampe, per la prima volta dei fogli di carta che invitano all'insurrezione: i volantini, idea partorita, così dice, dall'eretico narratore.


Tuttavia, il punto critico di svolta è rappresentato dall'esperienza fallimentare di "autogoverno" della città di Münster, vicenda paradigmatica di presa del potere da parte di rivoluzionari che, per imporre la "verità", si trasformano in persecutori peggiori dei loro oppressori, instaurando un crudele terrore.

A questa vicenda è dedicata la parte seconda del romanzo, la parte migliore in assoluto.


L'uomo dai tanti nomi e dalle tante abilità attraversa decenni di battaglie e relative sconfitte, e a ogni sconfitta è come se morisse, per poi, dover rinascere sotto altro nome. Così gli capita anche nel 1538 quando ad Anversa viene salvato da una morte definitiva per incontrare un paradiso: una comunità di uguali. 


È lì che inizia a raccontare alla comunità le vicende che lo porteranno, rinato come Gert dal Pozzo, all'incontro con visionari predicatori, che formeranno una compagnia di dodici grotteschi apostoli, diretti verso quello che sarà destinato a trasformarsi nell'inferno di Münster, la Città della Follia, la Nuova Gerusalemme.

Parallelamente a Münster, si diffonde sempre più la fede anabattista, che è espressione più radicale di ogni eresia, si raccolgono attorno ad essa diversi predicatori sovversivi. L'ordine costituito viene minacciato. E per fronteggiare questa peste, si salda l'alleanza tra cattolici e luterani.


La ricostruzione dei fatti e della terribile escalation di fanatismo di Münster, anche se fantasiosi, sono da manuale. I personaggi storici sono quelli, nonostante siano tratteggiati in maniera assai colorita, ma non così esagerata.

Il Regno di Sion della città di Munster è un'orgia senza fine, un vero e proprio baccanale, così come viene magistralmente descritto nel capitolo dedicato al carnevale. Ma è anche un tentativo di emancipazione, finché dura e non naufraga nel sanguinoso fallimento. Perché il carnevale finisce presto e inizia il periodo delle sempre più crudeli epurazioni e della repressione del dissenso, come in ogni rivoluzione che si rispetti.


Dopo Münster, tuttavia, la battaglia continua. Gert dal Pozzo non trova requie, ci sono già nuovi obiettivi, nuovi nemici, che sono pur sempre gli stessi, ma con forma e sostanza diversa: il potere che schiaccia i miseri e li rende schiavi.

Ogni nuova battaglia è come una rinascita che determina di conseguenza una nuova apocalisse. Tutto è lecito per far cadere la "Bestia", anche mettere su una colossale truffa.


La terza parte del romanzo ruota attorno al trattato il "Beneficio di Cristo", opera di fra Benedetto Fontanini da Mantova, ispirata alle tesi di Giovanni Calvino, e messa all'indice dell'Inquisizione. Un piccolo libro che potrebbe cambiare le sorti dell'Italia e dell'Europa, dietro il quale si nascondono anche illustri personaggi.

Vicende legate al conflitto in seno alla Chiesa Cattolica sulle trattative coi Luterani.


Intanto, l'eretico dai molti nomi continua a viaggiare attraverso l'Europa, come un Barry Lyndon ante litteram: da Anversa a Basilea e poi, a Venezia, e le dispute teologiche in seno ai protestanti vanno avanti, mentre sullo sfondo si profila l'ombra del Concilio di Trento, incontra un piccolo uomo che giganteggia sugli altri: Pietro Perna, libraio, ma anche i fratelli Miquez, ebrei sefarditi portoghesi. Tutti quanti compagni delle ultime battaglie.

È così che dalle nebbie del tempo viene fuori frate Tiziano, il tedesco, l'eretico predicatore, e sul Beneficio si ingaggia l'ultima battaglia con l'Inquisizione e con il cardinale Carafa.


In questa battaglia di inserisce anche l'aspro conflitto interno alla chiesa cattolica tra Spirituali e Zelanti e tra questi ultimi e i giudei.

Un antigiudaismo di vecchia data che da sempre, anche oggi, getta un'ombra inquietante su una parte del cattolicesimo e che attraversa i secoli.

E in ballo c'è la riuscita del Piano di Carafa,un piano per un Nuovo Mondo: la "Maggior Gloria di Dio".


Il viaggio continua attraversando anche il delta del Po, regno del popolo della palude e poi, di nuovo a Venezia. E nel frattempo, gli Anabattisti tornano a organizzarsi.

Ultimo atto della battaglia dell'eretico dai tanti nomi contro Q.

Per l'eretico è ormai soprattutto una sfida personale, quella per chiudere i conti.

Ma la resa dei conti non è come te l'aspetti. E riserverà un' incredibile sorpresa. 


Ma chi è "Q", il misterioso "cacciatore di eretici", l'occhio di Gianpietro Carafa, il futuro Paolo IV, che lo ragguaglia su quanto sta accadendo in Germania e poi nel resto d'Europa, e a cui il cardinale affida missioni fondamentali? L'antagonista dell'altrettanto misterioso eretico dai tanti nomi?

I due antagonisti sono anche i narratori della cronaca dei fatti. Escamotage usato dai Luther Blissett per fornirci una doppia prospettiva della vicenda. 


Q. sta per Qoelet (l'Ecclesiaste), il libro della Bibbia contenente riflessioni sulla necessità di bene e male e sulla morte. E tale è il personaggio, caratterizzato da grande ambiguità, un provocatore. 

Q., il doppiogiochista.

La storia è come un mosaico che si ricompone un po' alla volta, con il progredire della narrazione. 

Questo romanzo non è di facile lettura, è un testo che va attentamente decifrato, teso come un giallo, ma dal quale ogni appassionato di narrativa storica non può prescindere.


Tuttavia, è anche un libro sulla disillusione, sulla solitudine dell'eretico, sulle aspettative tradite, sulle debolezze degli umani che si lasciano soggiogare dal potere e distogliere dalle parole; sulle sottigliezze usate dagli imbonitori e da certi radicali infiltrati; sui giochi di potere, sui compromessi e sul conseguente trasformismo. È un libro sul valore della vita e sul sacrificio, a difesa delle proprie idee e degli affetti; sulla durezza delle relazioni umane, sulla sfida per raggiungere l'estremo limite, e superarlo, e sull'imprescindibile importanza della sfera individuale, sulla perenne ricostruzione di un "sé" apparentemente distrutto.

lunedì 25 settembre 2023

Milan Kundera, "Il valzer degli addii" (1972)

 


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Milan Kundera, "Il valzer degli addii" (1972)


«Ti dirò quale è stata la più triste scoperta della mia vita: I perseguitati non erano in nulla migliori dei persecutori. Posso benissimo immaginarli con i ruoli invertiti. Tu, forse, vedrai in questo l’alibi di un uomo che vuole liberarsi della propria responsabilità e scaricarla sulle spalle del creatore, il quale ha fatto l’uomo così com’è. E forse è bene che tu la veda così. Perché arrivare alla conclusione che non ci sono differenze tra il colpevole e la vittima significa perdere ogni speranza. E questo si chiama inferno, ragazza mia».


«Così come l’amore fa vedere più bella la donna che si ama, l’angoscia ispirata da una donna di cui si ha paura conferisce un rilievo smisurato al minimo difetto dei suoi tratti...»


«il desiderio di ordine vuol trasformare il mondo umano in un regno inorganico in cui tutto marcia, funziona, è assoggettato a una norma sovraindividuale. Il desiderio di ordine è al tempo stesso desiderio di morte, giacché la vita è una perpetua violazione dell’ordine. Oppure, con una formula opposta: Il desiderio di ordine è il pretesto virtuoso con cui l’odio per gli uomini giustifica i propri misfatti… Jakub aveva sempre provato orrore all’idea che chi sta a guardare è pronto a tener ferma la vittima sotto la scure del boia. Perché col tempo il boia è diventato un personaggio vicino e familiare, mentre il perseguitato ha sempre qualcosa che puzza di aristocratico. L’anima della folla, che forse un tempo si identificava con i miseri perseguitati, si identifica oggi con la miseria dei persecutori.»


«C.S.: Lei non ha parlato quasi per nulla del "Valzer degli addii". "M.K.: Eppure è il romanzo che in un certo senso mi è più caro. Come "Amori ridicoli", l'ho scritto con più divertimento, con più piacere degli altri. In un altro stato d'animo. Anche molto più in fretta. "C.S.: Ha solo cinque parti. "M.K.: Si fonda su un archetipo formale del tutto diverso da quello degli altri miei romanzi. E' assolutamente omogeneo, senza digressioni, composto di una sola materia, raccontato con lo stesso tempo, è molto teatrale, stilizzato, basato sulla forma del vaudeville.» 

(Milan Kundera, "L'arte del romanzo")


Aveva perfettamente ragione Milan Kundera nell'ultima summenzionata citazione: il "Valzer degli addii" si discosta in maniera evidente dalla consueta produzione letteraria dello scrittore ceco. In fin dei conti, prende il via da una storia banale di adulterio e di menzogne, e pur tuttavia, la capacità di Kundera di costruirci una novella limpida e lineare, nella sua semplicità, ha del sorprendente.


La semplicità, in questo caso, però non corrisponde affatto alla banalità. Il ritmo intenso, la scorrevolezza, la facilità con cui si riesce a seguire la trama, sono dovuti al genio letterario, considerato soprattutto che tutto ciò viene da un autore che di solito non si risparmia in quanto a complessità. Lo scrittore non rinuncia in nessun caso, ad indagare l'animo umano. Lo fa, anzi, anche in questo libro con il solito acume, ma senza dover distogliere l'attenzione dal filo conduttore della trama.


Insomma, Kundera, anche nella linearità della narrazione, era pur sempre Kundera, non ometteva certo la cruda descrizione del contesto sociale e politico, e non lesinava le stoccate al potere tramite precise metafore: si veda la vicenda storica dell'imperatore bizantino iconoclasta Teofilo, oppure l'irriducibile fredda determinazione degli anziani accalappiacani.


E, in fin dei conti, le metafore non costituiscono l'unico strumento utilizzato, non sarebbero neanche necessarie, se non servissero semplicemente come suggestione: la sua critica è, come al solito, diretta e senza esitazioni. La descrizione e il racconto delle vicissitudini di Jakub sono, ad esempio, del tutto espliciti.

Ciò che in definitiva emerge è una storia semplice ma piena di intrecci, di equivoci, di dinamiche relazionali complicate e di strade che si intersecano.


Anche l'odio e l'amore si intrecciano, così come il desiderio e il disgusto. Cambiano di posto, nascono e muoiono allo stesso tempo come una danza, come un valzer, un valzer degli addii e del capovolgimento. 

Basta l'apparente casualità di un gesto, un'intenzione mal interpretata, la proiezione del proprio io, il conformarsi a un ordine, o alla disobbedienza a questo ordine, che il destino, che si ritiene in qualche modo governato e controllato dalla propria volontà, possa, invece, improvvisamente prendere strade diverse.


In danze simmetriche e opposte, si agitano personaggi con visioni esistenziali contraddittorie, ma con una loro intrinseca e singolare coerenza. Maschere perse in un gioco creato da loro stesse, senza minimamente avvedersene. Un gioco che ha l'aspetto di un sogno, ma destinato a infrangersi in un incubo.


"Il valzer degli addii" è il secondo romanzo in ordine di tempo di Kundera, dopo l'immenso capolavoro de "Lo scherzo", ecco servito un altro capolavoro.

Nonostante la linearità e la "leggerezza", le tematiche dello scrittore vengono fuori inevitabilmente: e così tornano l'ineluttabilità del destino, l'inestinguibile senso di colpa e il forte disagio esistenziale.

Tuttavia, il racconto riesce a essere addirittura avvincente come un thriller, un singolare thriller kafkiano.


Seppur con un'impostazione da commedia nera, lo scrittore riesce a trasportare lo stesso il lettore nella sfera interiore dei personaggi, si diverte a imbastire situazioni equivoche, grottesche, di complicità, di tragedia e di crudele ambiguità. L'uso sarcastico dei cliché e dei luoghi comuni, lungi dal far venir meno la qualità, rende invece più ricca e intensa la trama, e per una volta il tono ferocemente ironico di molte pagine fa la differenza, donandole l'aspetto di una perversa satira.


I singoli personaggi del romanzo vivono ognuno in un mondo interiore separato, con logiche diverse, anche contrapposte, che venendo in contatto, spesso confliggono e si trasfigurano. Ma quasi sempre non posseggono la capacità di comunicare tra loro, al massimo si illudono di poter comunicare. 


Seguono una loro linea comportamentale, dei loro ben precisi scopi, bisognosi di manipolare la realtà e la vita, e con esse anche gli altri. Si convincono altresì di dover interpretare una parte che gli altri hanno loro assegnato, cercando di districarsi, e tali sforzi producono anche una dose di nera comicità involontaria.


Kundera porta alla luce contraddizioni, manie, fissazioni, sempre con l'ausilio di una teatralità mai doma, che anzi prende forma in un inesauribile crescendo. 

La fisicità dei personaggi si nasconde tra le pieghe del testo e affiora così, inaspettata, insieme al coup de theatre, e gli intendimenti vengono capovolti, il controllo sfugge. 


Commedia, dramma e tragedia si fondono insieme irrimediabilmente.

All'improvviso, tutto cambia. La nostalgia che il protagonista crede di non provare, lo viene a catturare a un passo dalla fine e l'imprevedibile accade. Gli addii si fanno più leggeri, ma anche più pesanti, perché una vita consacrata all'odio e a un ideale astratto non è riuscita, però, ad alienarlo dall'amore e rende più insostenibile la separazione, così come il senso di colpa.


Questo romanzo è anche una commedia degli equivoci, una terribile allegoria sulla realtà politica di un mondo che si regge sull'ipocrisia dell'autoritario vuoto burocratico e che sta lentamente degenerando. In cui, attraverso l'agnello sacrificale, viene ristabilito un equilibrio che potrebbe andare in pezzi, facendo in modo che qualsiasi tessera torni al suo posto, da cui ogni personaggio possa trarre il suo proprio egoistico vantaggio, rimandando però il crollo finale che, prima o poi, verrà a esigere il conto.

domenica 24 settembre 2023

Democrazia assembleare


 Insomma, anche il concetto di democrazia assembleare, e non solo la democrazia rappresentativa, è in buona sostanza una mistificazione, che nasconde il desiderio di potere dei singoli, anzi riesce a farlo ancora meglio di quella con delega.

Questo meccanismo è ancora in essere in moltissime situazioni assembleari dal "basso", e non riguarda solo il Sessantotto, anche se da esso, nella forma contemporanea, trae origine.

Comprenderne la mistificazione, vuol dire acquisire consapevolezza. 

Il passo successivo dovrebbe essere quello di prenderne le distanze, o quantomeno non mistificarne la natura.

Prima di progettare nuove forme, sarebbe necessario acquisire la convinzione che certi strumenti (assemblearismo, parlamentarismo, delega), non solo sono inutili, ma dannosi.

Faccio notare che la dinamica descritta soprattutto alla fine della lunga citazione, rispetto al Sessantotto, quando non esistevano, si attaglia perfettamente anche agli influencer o guru del dissenso da social, grandi e piccoli, che nutrono il loro ego con i like e le visualizzazioni, sentendosi elevati nell'empireo degli eletti. 

Rifletterei in maniera particolare sul concetto di "figure genitoriali sostitutive". 

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«Gli studenti del Sessantotto hanno esaltato il momento assembleare del loro movimento come espressione della sua democrazia vera, sostanziale, di contro alla finta democrazia delle istituzioni rappresentative, nelle quali i rappresentanti espropriano il supposto potere decisionale dei rappresentati, e si lasciano a loro volta espropriare da potenze nascoste, che dietro le quinte stabiliscono cosa deve essere deciso. 

Fin dall'inizio, però, nelle molte decine di assemblee delle altrettante facoltà «in lotta» emergono altrettanti leader che vi acquisiscono un carisma tale da orientarle come vogliono. Si tratta di individui il cui carisma nasce, e non potrebbe essere altrimenti, da un talento vero nell'intuire, in situazioni complicate, vie efficacemente percorribili da una massa, e nel saperne comunicare persuasivamente la validità alla massa stessa. 

Questo talento, però, innestato su personalità narcisistiche, quali sono, con varie gradazioni, quelle del novanta per cento di questi piccoli leader, dà frutti avvelenati, e, quel che è peggio, invisibilmente avvelenati. Non si parla qui, del dopo, che manifesterà come per la maggior parte di costoro i pochissimi anni in cui si sono autorappresentati come rivoluzionari hanno costituito un apprendistato alle tecniche di comunicazione manipolatoria poi sfruttate per emergere nei sistemi mediatici. Qui si parla dell'allora. 

Allora, nelle assemblee studentesche del 1968, il mito egualitario del movimento convive con diseguaglianze assai marcate e dure, e lasciate nell'ombra dell'inconsapevolezza totale. La prima, fondamentale diseguaglianza è quella tra chi riesce a prendere la parola in assemblea e chi non ci riesce (intendendo per prendere la parola anche la capacità di tenerla, evitando che vi si sovrappongano troppo presto altri interventi, e di ottenerne l'ascolto, suscitando un minimo di silenzio). 

Si tratta di una diseguaglianza di matrice classista, simile a quella denunciata da Don Milani nella scuola, perché gli studenti che riescono a prendere la parola nelle assemblee sono quasi sempre quelli provenienti da famiglie borghesi acculturate, dalle quali hanno tratto lo strumento linguistico e lo stile comportamentale adatto a farsi spazio in una discussione collettiva. 

Costoro devono bensì spesso superare ostacoli psicologici come la timidezza o la paura di un'esposizione a un pubblico impersonale, ma hanno le risorse interiori per superarli, e, superandoli, compiono un'esperienza inebriante di emancipazione e di protagonismo. Gli altri, che non riescono a prendere la parola, sono automaticamente emarginati, e quelli tra loro che nonostante ciò rimangono nel movimento, non possono rimanervi che in maniera totalmente gregaria. 

La parte non gregaria, ma discutente e perciò attiva, di un'assemblea studentesca del tempo, finisce per proiettare se stessa nel carisma di un leader, il cui talento, generalmente indubbio, come già si è detto, non è tuttavia tale da giustificare realisticamente tale elevazione, che si spiega con il non elaborato conflitto generazionale dello studente di allora, il cui inconscio è alla ricerca di una figura genitoriale positiva da contrapporre a quella negativizzata. 

Sia il collettivo come tale, che l'individuo costituito come leader del collettivo, sono inconsciamente vissuti come figure genitoriali sostitutive, e perciò resi depositari di un'accoglienza, una preveggenza ed una superiorità umana che non hanno affatto. Un leader sessantottino, perciò, nella misura in cui ha una personalità narcisistica (e sono davvero pochi, anche se ci sono, quelli che non l'hanno affatto), trova già bello e fatto il proprio «sé grandioso», inerente a siffatta personalità, nelle proiezioni psichiche di coloro che lo attorniano.»

Massimo Bontempelli da "Il Sessantotto" (2008)

mercoledì 20 settembre 2023

Tommaso Landolfi, "Racconto d'autunno" (1947)

 


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Tommaso Landolfi, "Racconto d'autunno" (1947)


«Era ormai notte fonda, s’era levato un forte e acquoso vento, che andava su me compiendo l’opera di tutto l’umido di quei due giorni. Sentivo torcersi e rabbiosamente, quasi aggressivamente, frusciare i grandi alberi dattorno, e questo rumore contribuiva a gettarmi nella più scorata malinconia. Non occorre aggiungere che sentivo anche l’imperioso morso della fame e un infinito desiderio di riposo, nonché di umana cordialità. Tuttavia, che fare propriamente contro quella così poco ospitale e, avrei detto, stregata dimora?»


«Uno di quei giorni avemmo persino la neve, un nevischio leggero che imbiancò per qualche ora la montagna. Lì dentro, poi, il vento ululava su tutti i toni dalle imposte più o meno sconnesse, alzando talvolta raccapriccianti grida umane che si ripercuotevano di parete in parete fin nelle viscere della casa; scorrendo nel camino con un rombo ininterrotto di tuono.»


Prima di parlare del mistero del presente romanzo, sarebbe opportuno fare cenno ad un altro mistero: quello che avvolge da sempre la figura di Tommaso Landolfi.

Perché trattasi di vero e proprio mistero, o almeno lo è per chi scrive.

Non mi è mai stato chiaro il motivo per il quale un così grande scrittore non abbia riscosso la giusta considerazione, e non solo in vita.


Uno dei più significativi scrittori del Novecento letterario italiano, relegato sostanzialmente in una nicchia, quasi del tutto trascurato dalla critica; semplicemente ignorato, a quanto mi risulta, dai programmi scolastici. Eppure, la sua prosa possiede un'originalità che poche possono vantare. Uno stile caratterizzato da una decisa impronta gotica, che rendeva Landolfi unico nel panorama letterario italiano dell'epoca.


È stata probabilmente questa sua particolarità ad averlo ostacolato, lo ha reso uno scrittore ostico al grande pubblico e non facilmente inquadrabile dai critici. Detto ciò, comunque sia, chi ha avuto la fortuna di innamorarsi dei suoi racconti e dei suoi romanzi, ha potuto scoprire un mondo fatto di incanto e per dei versi di magia. Un mondo fatto di tormento, ma anche di dolcezza. 


Tommaso Landolfi, insieme a Calvino e Buzzati è stato l'alfiere della letteratura fantastica italiana del Novecento, con affinità, ma soprattutto con molte divergenze dai suoi due colleghi. Landolfi è un cantore della narrativa gotica, autore di eccellenti racconti e alcuni ottimi brevi romanzi.

Qualcosa di completamente insolito nel panorama letterario italiano, con analogie con una narrativa di autori di altri paesi: Poe e Borges, soprattutto.


Tuttavia, nonostante tali accostamenti letterari, esclusivamente in sintonia con l'atmosfera che caratterizza i suoi racconti e con la suggestione che scaturisce dalla sua narrazione, la scrittura e la cultura, da cui trae origine la sua arte, sono classicamente italiane, a cominciare dall'originale manipolazione della lingua, e dalla descrizione dei luoghi, dei personaggi e delle abitudini.


"Racconto d'autunno", novella con decisi elementi autobiografici, è forse il suo romanzo più celebre, di cui è protagonista e voce narrante un uomo armato non meglio precisato, reduce da una guerra e in fuga dai suoi inseguitori, probabilmente un partigiano. L'uomo, attorniato da un inquietante e lugubre paesaggio boschivo, finisce per trovare una misteriosa casa, che sembra essere stata abbandonata appena prima del suo arrivo.


Landolfi in poche pagine rende perfettamente l'idea dell'atmosfera cupa, malinconica e inquietante che circonda l'inusuale dimora, riuscendo a fare vivere al lettore le stesse sensazioni dell'uomo: disperazione, sfinimento, fame, paura, solitudine, speranza. La capacità descrittiva, integrata dallo stile intensamente gotico, è semplicemente stupefacente. 


In realtà, gli accadimenti pur avendo qualcosa di straordinario, acquistano tutta la loro forza solo per tramite del fascino straniante delle parole dello scrittore, che li consegna al lettore come avvolti nel mito, in una nebbia impalpabile e onirica.  Il protagonista precipita del tutto in una dimensione fantastica, in questa casa dalla singolare ed enigmatica architettura, che lo tiene avvinto a sé, come prigioniero di un incantesimo, col suo misterioso e inquietante segreto.


L'uomo conduce ostinate indagini all'interno della casa, cercando di svelarne il mistero recondito che suppone possa contenere. Un'ossessione resa in maniera perfetta da Landolfi, senza mai indugiare troppo sugli oggetti, ma facendone comunque motivo di una esasperata ricerca ai confini col grottesco e con l'allucinazione.


L'esplorazione della casa appare simile a quella di un labirinto senza fine, una sorta di Biblioteca di Babele fatta di mura, di porte, di stanze, di mobili e persino di grotte, con una simmetria che fa venire alla mente un dipinto di Escher, in cui perdersi, per poi ritrovarsi al punto di partenza. Ma oltre che prigioniero, l'uomo sembra avere un ruolo da parassita che infesta quei luoghi senza poterne fare a meno. E qui, sono rintracciabili anche echi di Kafka e di Lovecraft.


È davvero, per il protagonista, un orrore e un terrore, un incubo senza fine, ben al di là delle soglie del tempo e dell'amore, come lo può essere solo la guerra, nonostante lo svelamento del dolce mistero, o forse lo è proprio per questo.

Cosa vuole suggerire Landolfi con "Racconto d'autunno" toccherà ai lettori scoprirlo, comprenderlo ed interpretarlo, a secondo della prospettiva e della sensibilità di ognuno.


Trovarmi di fronte a un libro di tale pregevole livello è una di quelle occasioni, che mi fa benedire la sorte, perché posso agevolmente leggere un testo in lingua originale, senza bisogno della mediazione di alcuna traduzione. Posso solo immaginare l'estrema difficoltà nel cercare di tradurre certe espressioni e licenze poetiche di Landolfi in un'altra lingua. Lo scrittore, infatti, come già accennato, giocava con grande estro con la lingua italiana, come pochissimi hanno saputo fare.

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