mercoledì 31 maggio 2023

Lorenzo Tibaldo "Sotto un cielo stellato - Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti" (2008)


 Consigli di lettura.


Lorenzo Tibaldo

"Sotto un cielo stellato - Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti" (2008)


«Sto soffrendo perché sono un anarchico, e in effetti io sono un anarchico; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la famiglia e i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte, io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora.»

Bartolomeo Vanzetti, al momento della notizia della sentenza di morte.


«Buona sera, signori! Addio mamma! Viva l'Anarchia!»

Nicola Sacco, pochi istanti prima di morire.


«Desidero riaffermare ch'io sono innocente di tutti i crimini, non solo di questo, ma di tutti i crimini.

Signori vi perdono di tutto il male che mi avete fatto. Io sono innocente. Non ho mai ammazzato alcuno. 

Addio, signori.»

Bartolomeo Vanzetti, davanti alla sedia elettrica.


«Vidi un uomo sulla cinquantina, rasato, roseo, dall'aspetto sereno e affabile.

Dal suo viso mi parve che dovesse essere un uomo di cuore. Mi disse che non voleva ingannarci, che non c'era più niente da fare. Durante tutto il colloquio egli non cessò di sorridere affabilmente, senza il più piccolo gesto di accoramento o di commiserazione. La Sacco era già stata da lui una volta e Fuller si era doluto con lei che non gli avesse portato a vedere i bambini. Pochi giorni prima, dopo aver interrogato mio fratello, mi aveva stretto con effusione la mano, come un amico. Non ho mai veduto un uomo più odioso.»

Luigina Vanzetti, a proposito dell'incontro col governatore Fuller.


È indubbio che il merito maggiore di aver tramandato memoria, almeno in Italia, della vicenda di Sacco e Vanzetti va soprattutto al bel film omonimo del 1971 di Giuliano Montaldo. È lo stesso Montaldo a raccontare nella breve premessa a questo libro quale fu la genesi del film e quante energie siano occorse per realizzarlo e per trovare un finanziatore. Un famoso produttore cinematografico, sentito il nome dei due anarchici, chiese se fosse una ditta di import-export. 

A dimostrazione che del loro ricordo, nel nostro Paese in quel periodo, era rimasto ben poco.


A seguito della pellicola di Montaldo, però, Sacco e Vanzetti entrarono talmente tanto nell'immaginario delle nuove generazioni, in rivolta negli anni settanta, che la loro vicenda divenne uno dei simboli delle battaglie per la libertà, i diritti sociali e l'emancipazione. Le grandi interpretazioni di Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla, la colonna sonora di Ennio Morricone e la voce di Joan Baez contribuirono non poco alla creazione del mito. Film comunque ispirato ad un dramma teatrale, con protagonisti gli stessi due attori, rappresentato nel decennio precedente.


Tuttavia, in pochi sanno che il film di Montaldo fu anticipato da un programma televisivo. Uno sceneggiato, proveniente dagli USA, dove era stato trasmesso senza difficoltà, ottenendo addirittura la candidatura agli Emmy, e che doveva essere trasmesso dalla RAI in due puntate nel 1965, ma che fu bloccato probabilmente dal governo di centro sinistra dell'epoca, per non fare cosa sgradita agli americani. 


In Italia, riuscì ad andare in onda solo nel 1977, guarda caso nell'anno della "riabilitazione", ben sei anni dopo l'uscita dell'opera cinematografica. 

Dino De Laurentiis, inoltre, sempre negli anni sessanta, ne annunciò più volte una versione per il grande schermo con, addirittura, come interpreti Frank Sinatra e Anthony Quinn, ma la cosa poi si perse nel nulla, probabilmente per le solite pressioni politiche.


Tra l'epoca dei fatti e il film del '71, il caso di Sacco e Vanzetti, ogni tanto tornava in auge. Negli USA restò una ferita aperta. La società si divise in due. La stampa, una parte dell'opinione pubblica, il mondo della cultura e gli artisti lo tennero in vita per decenni. La discussione animò tutto il Paese, come quasi mai era avvenuto prima.

Anche se purtroppo, il copione si ripeterà ancora con il maccartismo e con l'esecuzione dei coniugi Rosenberg.


Oggi, di Nick e Bart in Italia si parla raramente. I ragazzi delle nuove generazioni ignorano per lo più pure chi fossero. 

I due anarchici non vanno più di "moda", così come d'altronde non lo andavano già nel 2008, quando uscì questo libro. Non deve stupire che la pubblicazione sia a cura della Claudiana, casa editrice delle Chiese Evangeliche in Italia (valdese, luterana, metodista e battista), perché la Claudiana ha mostrato spesso grande interesse per gli eretici e i ribelli di ogni tipo.


In "Sotto un cielo stellato", libro corredato da immagini e fotografie dell'epoca, l'autore utilizza molte citazioni prese da articoli, testimonianze, libri, e lettere di Sacco, ma soprattutto lettere e libri di Vanzetti. Inframmezza le citazioni al suo testo, rendendo il saggio quasi un'antologia. Ricostruisce minuziosamente la vita dei due anarchici fino all'errore/orrore giudiziario e alla loro morte. Ma va oltre, parla di quello che accadde dopo, delle vicende legate alla "riabilitazione" (la prima richiesta di riabilitazione, fatta nel 1947, ebbe le firme illustri di Albert Einstein e Eleanor Roosevelt).


Fu un percorso di grande consapevolezza quello dei due anarchici. La loro adesione all'anarchismo era piena. Quella di Vanzetti avvenne a seguito di rigorosi studi filosofici. Parteciparono alle lotte sindacali, senza mai iscriversi ad alcun sindacato, anche se simpatizzavano per l'IWW (Industrial Workers of the World). Erano in polemica dura con il socialismo marxista e il parlamentarismo. 

Anche le stesse loro ingenuità e contraddizioni ideologiche vanno lette con comprensione, perché tutte rapportabili a quel contesto storico.


La storia di Sacco e Vanzetti è anche la storia dell'immigrazione italiana negli USA, e non solo italiana. Una storia fatta di tante umiliazioni subite, di tanto sfruttamento inumano e di tante illusioni crollate. Una storia di discriminazioni che colpiva soprattutto gli italiani.

L'atteggiamento dei due nei confronti dell'America era assai diverso. Esercitava fascino su Vanzetti, che provava poca nostalgia per la sua terra. Mentre Sacco restava indifferente e aveva un solo desiderio: quello di tornare nella sua amata Puglia. Si stava infatti proprio accingendo a tornare a casa, quando fu arrestato.

Era comunque forte l'attaccamento alle rispettive famiglie, e grande il ruolo avuto nella loro vicenda dalle sorelle di Bartolomeo: Luigina e Vincenzina; e da Rosina, moglie di Nicola.


Il contesto descritto è terribile. La stragrande maggioranza degli statunitensi viveva di stenti. Le libertà sindacali erano continuamente minacciate, così come la semplice associazione. I metodi di repressione degli scioperi erano spaventosi, in mano anche a vere e proprie bande di criminali.

Si moltiplicarono assassinii e attentati che vennero spesso ingiustamente attribuiti agli anarchici e ai sindacalisti radicali, per poi scoprire che erano atti di cospirazione politica da addossare agli attivisti radicali.


Con l'entrata in guerra, l'opera di criminalizzazione, si accentuò, dando vita a una caccia alle streghe nei confronti di tutti gli oppositori. La coscrizione obbligatoria costrinse i due anarchici, fermamente contrari alla guerra, a fuggire in Messico, e lì si stabilirono per tutta la durata del conflitto. 

Ma la fine della guerra non mise invece fine alla caccia alle streghe, che, anzi, si intensificò. I due dovettero fare i conti con questo clima che rese assai difficile la vita agli oppositori e ai militanti sindacali, anarchici e socialisti. Le provocazioni aumentarono con l'aumento della strategia della tensione, e con attentati di incerta matrice.


La repressione raggiunse il livello più alto con gli arresti e le deportazioni di massa, a cui tutta la stampa, compresa quella liberal, inizialmente diede consenso, e almeno fino all'inizio degli anni venti.

In questa atmosfera, si svolse la rapina e l'omicidio di cui i due anarchici vennero accusati, attraverso la costruzione di un vero e proprio teorema e calpestando qualsiasi minima garanzia giudiziaria.

Con il loro arresto, iniziò un calvario processuale, che terminerà solo con la condanna a morte. 


Lorenzo Tibaldo evidenzia la dinamica pregiudiziale fondata su testimonianze ambigue e contraddittorie sfavorevoli ai due accusati, e nello stesso tempo il discredito gettato contro le tante testimonianze a favore, che avevano però il difetto di venire soprattutto da italiani e quindi di essere "inattendibili"; dinamica caratterizzata da una costante opera di demolizione, sia da parte dell'accusa, che del giudice, e facilitata dall'inettitudine della difesa, nel primo processo, e dal ruolo controverso di uno degli avvocati, nel secondo.

Manipolazione resa più agevole grazie al diffuso razzismo di cui erano fatti oggetto gli italiani.


Un clima di terrore e di assedio circondò poi lo svolgimento del secondo processo.

La condanna era già scritta, serviva un capro espiatorio, dovevano essere militanti radicali, meglio se anarchici, meglio ancora se italiani, nonostante la testimonianza di un partecipante alla rapina e nonostante che diverse prove li scagionassero.

Sacco e Vanzetti ebbero la sfortuna di avere il profilo adatto.


Gli stessi pregiudizi emersero alla fine anche in seno alla commissione consultiva Lowell, che deluse le aspettative di quanti speravano nella revisione del processo.

Esemplare fu però il loro dignitoso e irriducibile comportamento, che li portò ad affrontare a testa alta un vero e proprio calvario, e poi, la morte. Si rifiutarono di chiedere la grazia che li avrebbe condannati alla prigione a vita e più volte ribadirono: o libertà, o morte.


Andarono avanti alternando momenti in cui si nutrivano, sollecitati da amici e familiari, a scioperi della fame, motivandoli col fatto che preferivano suicidarsi, piuttosto che essere giustiziati in base a false testimonianze.

Accompagnati da un'enorme solidarietà, dentro e fuori la nazione americana, attraverso mobilitazioni e scioperi di massa, e con petizioni anche trasversali, tra le quali quella di Pio XI, che chiese esplicitamente un atto di clemenza. 


La loro causa acquisirà nel tempo anche insospettabili sostenitori all'interno delle istituzioni italiane, nonostante e a prescindere dal regime fascista, e con tutti i rischi che comportava. Fu infatti complessa e molto articolata la posizione del governo italiano, in bilico tra l'orgoglio nazionale, con la difesa di due concittadini, e la prudenza diplomatica per non urtare troppo gli USA, a cui il regime mussoliniano non era affatto sgradito e in qualche modo anche sostenuto economicamente.

In ogni caso, passi abbastanza rilevanti furono compiuti per chiedere clemenza, ma sempre accompagnati da una certa ambiguità, sia per motivi politici (erano pur sempre antifascisti), che per opportunismo economico.


Particolare attenzione Tibaldo la dedica a delineare le differenze in seno all'anarchismo, anche sull'uso della violenza. Si va da chi promuove la non violenza integrale, a chi invece teorizza la violenza come forza distruttrice e creatrice. Nel mezzo tante sfumature diverse, e tra queste anche la posizione di Nick e Bart. A dimostrazione che gli anarchici proprio per il rifiuto che nutrono verso qualsiasi dogmatismo, non possono essere rinchiusi in un'unica riduttiva narrazione.


L'idea di Sacco e Vanzetti era estranea alla corrente nonviolenta integrale, ma era ben più lontana da quella che intendeva la violenza come atto distruttivo terapeutico e di vendetta. La loro utopia era volta alla costruzione di una società che avrebbe eliminato ogni violenza.

Per questo, non avrebbero mai potuto commettere ciò di cui li si imputava.

La storia di Nick e Bart, tuttavia, fatta salva la contestualizzazione storica, non può essere spiegata solo come vicenda interna ai pregiudizi razziali e alle contraddizioni di classe dello Stato e della società americani, è assolutamente fuorviante tale esclusiva lettura. 


Sacco e Vanzetti erano anarchici e gli anarchici sono odiati dappertutto, in tutte le epoche, e ciò che è a loro toccato sarebbe potuto benissimo accadere in un altro luogo e in un altro tempo. Vedasi a tal proposito, anche una vicenda di segno assai diverso: la rivolta di Kronstadt, e la repressione che ne seguì.

L'anarchismo, inteso come puro ideale, ha in odio qualsiasi potere, nutre amore per la libertà e per i diritti degli ultimi. Ed è proprio questo a renderlo bersaglio perfetto dei dominanti di ogni risma e delle loro greggi. 

E come disse Nicola Sacco: Viva l'Anarchia!

domenica 28 maggio 2023

John Zorn, George Lewis & Bill Frisell "News For Lulu" (1989)


 I Classici del Jazz


John Zorn, George Lewis & Bill Frisell

"News For Lulu" (1989)


Inserire tra i classici del jazz questo disco potrebbe risultare abbastanza fuori luogo, dato che è quasi sconosciuto, come d'altronde sono scarsamente noti gli hard boppers a cui rende omaggio.

Questa è infatti una raccolta di cover i cui autori sono una serie di jazzisti (Kenny Dorham, Hank Mobley, Sonny Clark e Freddie Redd) poco famosi presso il grande pubblico, ma che hanno dato un contributo notevole all'hard bop.


Tuttavia, ciò che a mio parere lo rende un classico e di conseguenza un capolavoro indiscutibile, è l'originalità dirompente con cui questi brani vengono eseguiti: un minimalismo, mai eccessivamente sperimentale, che con un tocco di notevole originalità, prescindendo da ogni formalismo, dona a questo genere musicale una veste nuova, al di là e al di fuori del tempo.


Un contributo essenziale alla sua particolarità viene conferito dalla strumentazione usata. Il trio, unito per l'occasione, compie un atto, che si potrebbe definire eretico per l'hard bop, fa a meno della sezione ritmica e affida ai soli sassofono, trombone e chitarra, l'esecuzione di tutti i brani.


Ma contemporaneamente avviene un miracolo, le composizioni vengono rilette, rispettando la tradizionale struttura melodica e addirittura ritmica, nessun stravolgimento viene compiuto e il minimalismo è tutto nello sforzo dei tre strumentisti nel rendere l'essenza stessa di questa musica, "ripulendola" da improvvisazioni e andando esclusivamente al nocciolo.


Nonostante questo, però, l'intento avanguardista è più che esplicito e darà la stura ad esperimenti analoghi. Non è un caso che il maggior responsabile dell'operazione sia quel genio di John Zorn, arguto sperimentatore dall'accentuato eclettismo musicale, che si fa affiancare da due "compari" non certo da meno: il trombonista George Lewis (si veda in tal proposito il suo album "Homage To Charles Parker") e l'eccellente chitarrista Bill Frisell, altra personalità eclettica di altissimo profilo artistico.


Nel 1992 i tre fecero uscire un live, "More News for Lulu", basato sull'album in studio, con la stessa impostazione sonora, con la stessa strumentazione e omaggiando gli stessi autori, con qualche aggiunta in più. Dimostrarono che anche dal vivo la resa artistica restava intatta, acquisendo una dose di magia in più, un'impronta più free e un pizzico di improvvisazione.

venerdì 26 maggio 2023

Eric-Emmanuel Schmitt "La parte dell'altro" (2001)

 


Consigli di lettura 


Eric-Emmanuel Schmitt

"La parte dell'altro" (2001)


"Fino a quando non riconosceremo la canaglia e il criminale che abitano dentro di noi, vivremo in una pietosa menzogna."

"Hitler è una verità nascosta nel profondo di noi stessi che può 

risorgere in qualsiasi momento."


Qui si narrano le storie di Hitler e di Adolf H.

L'ucronia è quel particolare sottogenere della letteratura fantastica e, in diversi casi, di quella più propriamente di fantascienza, che parte dal presupposto del "cosa sarebbe successo se fosse andato diversamente", prendendo appunto il via da una vicenda che ha condizionato il destino del mondo.

Può essere una vicenda di carattere storico universale, come di carattere personale. Del secondo caso, della vicenda personale di Hitler, si tratta in questo romanzo. Lo scrittore la usa, infatti, come pretesto narrativo.


L'ucronia più famosa è probabilmente "L'uomo nell'alto castello", conosciuto in Italia anche come "La svastica sul sole" di Philip K. Dick, nel quale sempre di Hitler in qualche modo si parla, dato che lo scrittore americano immagina la vittoria dell'Asse nella Seconda Guerra Mondiale, quindi, diversamente dal libro di Schmitt, si ipotizza un diverso epilogo di una vicenda della Storia dell'umanità.


Tuttavia, nel caso de "La parte dell'altro", più che di un'ucronia, si dovrebbe parlare di una storia di universi paralleli.

La biforcazione, la frattura tra i due universi avviene nel momento in cui Hitler tenne l'esame di ammissione all'Accademia di Belle Arti di Vienna per intraprendere la carriera di pittore. Nella nostra realtà storica, nella nostra linea temporale, Hitler fu respinto.


Ma cosa sarebbe accaduto in caso contrario? 

Eric-Emmanuel Schmitt fa iniziare il suo romanzo proprio da questo punto. E non si accontenta di scrivere un semplice romanzo ucronico, seguendo un'unica linea temporale, quella immaginaria, ma le segue entrambe, alternando le vicende per brevi capitoli: uno per Hitler, e uno per Adolf H., e più il racconto va avanti, più le due storie si allontanano l'una dall'altra. Insomma, due romanzi in uno. 

Un'idea così originale e divertente, da risultare geniale. 


Lo scrittore, con una capacità descrittiva di alto livello emozionale e di profonda introspezione psicologica, riesce a rendere avvincenti le due diverse storie, che, nonostante l'alternarsi dei capitoli, si seguono assai agevolmente.

Detto questo, bisogna, tuttavia, chiarire che in ogni caso anche la parte di Hitler non può considerarsi alla stregua di un racconto biografico.

La parte ucronica è totalmente inventata, anche se con tracce biografiche; l'altra, quella "reale", è assolutamente romanzata, nonostante sia assai rigorosa.


"La parte dell'altro" è però anche un romanzo sull'apparenza: l'apparente frustrazione e l'apparente felicità, alla rincorsa di un sogno e di un delirio. È un romanzo sulla rigidità, sulle nevrosi e sulla sociopatia. Ma è soprattutto una sorta di apologo morale.

Un romanzo in cui si incontrano diverse figure storiche, anche inaspettate: a cominciare da Freud.


Eric-Emmanuel Schmitt, drammaturgo e scrittore francese, naturalizzato belga, si ispira chiaramente a un episodio della vita del dittatore, che alcuni sostengono essere accaduto realmente, ancora più indietro nel tempo, quando Hitler era bambino, anche se Schmitt non lo nomina esplicitamente. 

Il dottore di famiglia Eduard Bloch consigliò di farlo visitare proprio da Freud, a causa di disturbi del sonno: incubi distruttivi e autodistruttivi.


La diagnosi fu categorica: lo psicanalista prescrisse il ricovero del bambino in un centro di salute mentale per l'infanzia. Il piccolo Adolf subiva maltrattamenti e pesanti castighi dal padre e proprio questi erano alla base degli incubi e dell'evidente patologia. La madre si disse d'accordo per il ricovero, mentre il padre si oppose e lo impedì.


Questo non per dire che Bloch e Freud avessero necessariamente ragione in questi termini, anche se la loro diagnosi sarebbe difficilmente confutabile. Quanto per sottolineare l'interessante espediente narrativo, spostato al 1908. Ma poteva essere utilizzato anche all'epoca dell'Hitler bambino, oppure poteva essere usato un altro espediente, ponendolo ancora più in là, immaginando, per esempio, un epilogo diverso per la Grande Guerra.


Tuttavia, è solo Adolf H. a incontrare Freud e ad entrare in terapia con lui, non l'Hitler reale, quello che lo aveva già incontrato da bambino.

Stranezze logiche dei paradossi temporali.

I due Adolf in comune hanno però il rapporto d'amore quasi incestuoso con la madre, che morì poco prima dell'esame all'accademia, e quello di odio viscerale nei confronti del padre, morto ancor prima della madre.


L'intento dello scrittore è anche fortemente satirico, tanto da creare delle situazioni decisamente comiche, che arrivano perfino a spingere i lettori a provare simpatia per entrambe le versioni di Hitler, rendendole quindi assai umane.

Sembra assurdo e sconcertante pensare di scrivere un libro insieme comico, grottesco e tragico, con protagonisti Hitler e il suo doppio. Ma è come un atto catartico quello di voler disarticolare il mostro, per comprenderlo, normalizzarlo e renderlo, in entrambe le versioni, un personaggio kafkiano: una versione buona e sensibile, l'altra malvagia e assolutamente priva di empatia.


In sostanza, questo libro appare come una specie di gioco, un gioco provocatorio, un pretesto per parlare anche di altro: del male, della gioia e della morte, dell'imprevedibilità del destino, ma anche del fatto che la nostra vita può cambiare in base alle singole momentanee scelte individuali e di chi ci sta accanto, o di chi incontriamo sulla nostra strada. Non solo a causa di eventi esterni.

Schmitt è convinto che il male alberga dentro ognuno di noi e bisogna essere in grado di riconoscerlo per poterlo combattere.


Non nasciamo predestinati al male, ma lo subiamo a secondo degli eventi, o lo scegliamo, come reazione a essi, annullando la predisposizione erotica nei confronti della conoscenza e del rapporto con gli altri, chiudendoci nel nostro io, come in una cittadella assediata, preferendo il disprezzo e il rancore nei confronti dei nostri simili.

Hitler non è un mostro estraneo da noi, ma un uomo ordinario e normale. Chiunque di noi potrebbe diventare come lui. 


Per dimostrare tutto questo, lo scrittore si adopera strenuamente nell'evidenziare, con l'andare avanti della narrazione, la progressiva, conseguente divaricazione che avviene tra le due realtà nel corso del tempo. E come un'alternativa all'Hitler che abbiamo storicamente conosciuto, fosse possibile.

Si diverte e diverte. Gioca con i personaggi e con i lettori. Crea una galleria di personaggi di contorno semplicemente straordinari, situazioni bizzarre ed equivoci grotteschi.


In coda al romanzo, Schmitt scrive una sorta di postfazione, ma in forma di diario, in cui riporta le fasi che lo hanno portato a scrivere e a pubblicare il libro. Un diario sulle sue motivazioni, sulle discussioni e sulle critiche ricevute, sul conflitto interiore, sulla sua ostinazione ad andare avanti per comprendere e capire come mai in ognuno di noi può celarsi il mostro.

giovedì 25 maggio 2023

Stevie Ray Vaughan "Texas Flood" (1983)

 


Storia del Rock

Stevie Ray Vaughan

"Texas Flood" (1983)

La vita artistica di Stevie Ray Vaughan, pur se durata quasi un ventennio, è sembrata esaurirsi in un attimo, in maniera talmente veloce, come veloce era la sua chitarra. Stroncato nel pieno fulgore della sua carriera di musicista, Vaughan muore per un incidente con un elicottero. L'elicottero era destinato a Eric Clapton, ma Vaughan gli chiese di prenderlo al posto suo. Voleva andare via prima, perché si sentiva molto stanco.

Era la sera del 27 agosto del 1990 e i due erano reduci da un grande concerto, al quale avevano partecipato, oltre a loro, anche Jimmy Vaughan, il fratello di Stevie Ray, Robert Cray e Buddy Guy.

La scomparsa del chitarrista texano lasciò un vuoto incredibile. 

In quel momento preciso, senza ombra di dubbio, era il miglior chitarrista rock blues sulla scena e il vero erede di Jimi Hendrix, dal quale era stato chiaramente influenzato.

Ma Stevie Ray Vaughan non era solo questo, era una leggenda vivente, leggenda che la morte, come accade in questi casi, ha ulteriormente amplificato. Se l'influenza di Hendrix è stata determinante, il chitarrista di Dallas sviluppò, però, uno stile personale del tutto originale. Il suono della sua chitarra era inconfondibile come anche la sua voce. Una vera voce blues.

Non è esistito, infatti, nel rock blues, nessun altro chitarrista che ha ispirato così tanti "cloni", forse neanche lo stesso Hendrix. Basta ascoltare anche la produzione degli anni più recenti per averne una vaga idea.

La carriera di Stevie Ray Vaughan ha attraversato ben due decenni, ma la sua musica è legata soprattutto agli anni ottanta, all'inizio dei quali cominciò ad intraprendere una carriera solista accompagnato dal gruppo dei Double Trouble.

Il debutto discografico con questa lineup è datato 1983 con l'uscita di questo meraviglioso album. Un disco sanguigno e profondamente blues. Un disco che possiede un'energia unica e deflagrante, a cominciare dallo straordinario strumentale "Testify".

Ma "Texas Flood" non è l'unico capolavoro, tutti i dischi ufficiali usciti a suo nome, successivi a questo, sono ugualmente imperdibili. Anche le incisioni pubblicate dopo la sua morte.

domenica 21 maggio 2023

Antonio Forcellino, "Il cavallo di bronzo" (2018)


Consigli di lettura 


Antonio Forcellino, "Il cavallo di bronzo" (2018)


Scrivere un romanzo di ambientazione storica è opera assai ardua e complessa, scriverne uno di carattere biografico aumenta esponenzialmente le difficoltà. Solitamente, vengono considerati romanzi storici e storico biografici, anche quei prodotti di narrativa che adattano lo sfondo storico alle più svariate speculazioni e fantasie, nulla in contrario, ma gli esiti, con le dovute lodevoli eccezioni, sono spesso abbastanza discutibili.


Detto ciò, è oggettivamente vero che la narrativa storica è quel genere letterario che spesso produce le cose più interessanti, se non addirittura capolavori immortali. Di esempi ce ne sono a decine.

Sono comunque necessari, per farla funzionare, alcuni elementi di base: una decente documentazione, una conoscenza della materia storica e una creatività letteraria che non si limiti ad una riproposizione cronachistica, per questo esistono già i saggi, ma che adotti delle varianti e degli escamotage narrativi anche inusuali. 


Ci vuole, insomma una notevole dose di inventiva e una buona capacità di tenere avvinto il lettore alla trama, impresa non facile, perché, narrando fatti noti, il romanzo storico non può svelare chissà quali sviluppi o colpi di scena, tanto più se il libro in questione è a carattere biografico, oltretutto è anche necessario non mettere troppo alla prova la sospensione di credulità di chi sta leggendo.

“Il cavallo di bronzo”, primo volume della serie “Il secolo dei giganti” risponde quasi alla perfezione a questi prerequisiti.


Antonio Forcellino è un architetto, restauratore, scrittore e esperto di arte rinascimentale. Ha lavorato al restauro del “Mosè” di Michelangelo. E’ quindi uno che se ne intende e con tutte le carte in regola, non solo come saggista, ma anche come romanziere. E la sua biografia romanzata sulla vita di Leonardo da Vinci ne è una pregevole dimostrazione.


L’occhio dell’architetto, del restauratore e dell’esperto è quello che infatti osserva e descrive minuziosamente le opere d’arte e le città, ma con un valore aggiunto, e qui entrano in ballo le doti di narratore e di conoscitore di Storia: lo fa cercando di mettersi nei panni degli uomini dell’epoca, dal loro punto di vista.


Fatta la tara a qualche piccola forzatura narrativa, la vita di Leonardo, qui raccontata, è un vero e proprio inno ad un’epoca. Il Rinascimento italiano viene come deposto davanti ai piedi dei lettori, invitati ad immergersi nelle storie di personaggi contemporanei al grande artista, entrati nell’immaginario collettivo. Non è infatti un caso che vissero in quel periodo storico.


Gli uomini e le donne illustri dell’epoca, fanno parte, infatti, di una galleria di tutto rispetto: la famiglia Borgia, Cosimo de’ Medici, Lorenzo il Magnifico, Francesco e Giuliano della Rovere, Maometto II, Bayazet II, Clarice Orsini, Sandro Botticelli, Andrea del Verrocchio, Michelangelo, Pietro Perugino, Vannozza Cattanei, Lucrezia Donati, Giulia e Alessandro Farnese, Ludovico il Moro, Girolamo Savonarola, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Poliziano. Solo per nominarne alcuni.


Anche per questo non è una semplice biografia romanzata. La storia infatti segue in parallelo anche l'evolversi delle vicende dei personaggi principali. 

Il tempo del romanzo è scandito dalla durata dei papati. Il libro infatti è diviso in titoli, divisi a loro volta in capitoli. Ogni titolo porta il nome del papa corrispondente al periodo, con le due date di inizio e di fine del loro pontificato. La narrazione è sempre fluida, con linguaggio semplice che evita inutili iperboli, e assai accattivante. 

venerdì 19 maggio 2023

Divide et impera


Divide et impera


Io sono molto "complottista". 


In un certo senso, lo sono molto più di tanti altri. Il mio "complottismo" è, tuttavia, di natura ben diversa, anche se complottista dovrebbe essere definito chi i complotti li fa, non chi li denuncia.

Sono convinto che i nostri signori e padroni abbiano trovato da tempo la quadra per dividere e irridere i loro oppositori. Lo fanno in tutta autonomia tra loro, spesso anche in conflitto, ma il metodo è lo stesso e facilmente esportabile, in pieno regime internazionale di gentlemen agreement.

Hanno scientemente ideato una forma di oppressione, lenta e graduale, la cui principale vittima è il dubbio.


Sposare la loro narrazione, priva di dubbi, o una parte di essa, proprio per non essere giudicati complottisti, fa dei danni incommensurabili, e in questi tre anni, lo avremmo dovuto imparare molto bene.

Inoltre, più sono diffusi a livello globale pezzi di questa narrazione, più danni producono, perché assumono i tratti del buon senso comune. Una sorta di pervasivo dispotismo del Bene, che è poi quasi impossibile da scalfire.


D'altra parte contrapporsi rigidamente e pregiudizialmente, con una verità assoluta alternativa, fa, allo stesso modo, danni molto gravi, perché ci espone al ridicolo e all'inattendibilità, anche quando le supposizioni potrebbero in un ipotetico futuro rivelarsi giuste. 


La verità gettata loro in faccia dovrebbe essere solo quella razionale, dimostrabile effettivamente, ora, senza intrinseche contraddizioni. 

Quella verità, per esempio, della compressione delle libertà, attraverso le varie forme di lockdown, di controllo e di sorveglianza digitale, quella dell'annullamento dei diritti sociali, del criminoso progetto di transizione ecologica portato avanti dal capitalismo verde, della distruzione del sistema sanitario, della devastazione e rapina dei territori, dell'aumento della mortalità e dei malori improvvisi, realmente documentati e quelli non segnalati (la pessima farmacovigilanza, con scarsa applicazione della vigilanza passiva, e pressoché nulla applicazione di quella attiva), evitando però di trasformare i propri profili in annunci mortuari.

Ce ne sono, insomma, abbastanza di argomenti per opporsi degnamente.

Il resto deve fare parte del dubbio e del sacrosanto diritto a poterlo esprimere.

 

Hanno determinato, in breve, una situazione e un'atmosfera culturale tali, affinché sia possibile confrontarsi tra dissidenti solo con contrapposizioni irriducibili, per dimostrare quanto si sia più furbi degli altri, dividendoci in squadre (due, tre, quattro… a secondo dei casi) e dandoci reciprocamente degli idioti. La distorsione della percezione del sacrosanto diritto alla libertà individuale che produce egotismo, egoismo e carenza di solidarietà, è collegata a questa imbelle conflittualità e completa il triste quadro.


Il dissenso è caduto nella trappola e lo dimostrano per l'ennesima volta, le risse verbali che si svolgono sui social sulle alluvioni, in maniera così feroce, che a mio avviso, non hanno precedenti. Confinati nel nostro recinto ad accapigliarci.

Tutti in possesso della verità. "Verità" in un caso o nell'altro, funzionale al potere dominante. Perché rigida come la sua, e contemporaneamente, favorisce il divide et impera.


Il problema è che la loro verità è talmente granitica, fondata com'è sulla "dolce" propaganda, con la suggestione di un pluralismo che non esiste. Riescono a trovare qualsiasi giustificazione per qualsiasi cosa, mentre irridono i "complottisti", e avendo anche dalla loro parte gli organi di informazione nella quasi totalità, un bel pezzo della controinformazione che fa folklore, e come minimo è inattendibile, se non peggio, e una solidissima costruzione ideologica a livello globale. Anche se c'è chi si ostina a non vederlo per motivi di tifoseria geopolitica e religiosa. 


C'è chi pensa che ci saranno Cina, Russia ed Elon Musk, oppure Viganò, Kirill o qualche teocrazia islamica a difenderci contro le perversioni dell'anglosfera, di Bill Gates e contro il satanismo di Bergoglio, dimenticando quanto dispotismo, autoritarismo e quanta visione distopica siano contenuti nelle concezioni di questi difensori; c'è chi è rimasto piddino nell'anima, pur negandolo a sé stesso, tifoso appena un po' "critico" dell'€uropa e del progressismo liberal e woke made in USA; e c'è chi infine, percepisce, nonostante tutto, il mondo anglo-americano, o una sua parte, come il luogo della vera democrazia e della libertà, dimenticando quanto criminale imperialismo abbia prodotto, quanto razzismo, la congenita propensione al maccartismo, senza considerare che è stata la prima patria del pensiero unico mondialista, che è alla base del Great Reset.

Tutte queste impostazioni, inoltre, più o meno consapevolmente, danno il loro piccolo contributo alla degenerazione e al declino dell'Occidente e della sua cultura.


L'unica cosa che metterebbe in crisi l'intera impostazione ideologica del pensiero unico è il dubbio: elemento essenziale per qualsiasi forma di dialogo, con cui confrontarsi tra dissidenti senza contrapposizioni inutili e senza certezze precostituite. 

Non un approccio dogmatico, uguale o contrario che sia. Hanno però trovato nella dissidenza un sollecito alleato.

E il dubbio l'è morto. Sopravvive per intero solo nelle menti di pochi "sfigati".

mercoledì 17 maggio 2023

Speciale Progressive (un amore senza fine)

 


Storia del rock


I protagonisti 


Speciale Progressive (un amore senza fine)


["Progressive & Underground in Gran Bretagna e in Europa 1967 - 1976" (2003)

di Cesare Rizzi]


E' difficile catalogare con esattezza cosa sia o sia stato il progressive, ma alcuni aspetti che delineano con una certa sicurezza i canoni di questa musica ci sono. Innanzitutto la "progressiva" espansione della materia tipica del rock, attraverso la dilatazione di tempi e di modalità sonore. Quindi, la contaminazione con altri generi musicali: la sinfonica, il folk e il jazz. Il tutto condito da una predisposizione ad una discreta apertura mentale verso la sperimentazione.


Il pretesto di parlare di Progressive me lo offre questa interessante pubblicazione uscita venti anni fa e che fa parte di una collana dedicata ai sottogeneri del rock.

Comincerò col dire che non esiste corrente musicale all'interno del rock, a cui io sia più legato. Le motivazioni sono molteplici, a cominciare dal valore sentimentale e dalla suggestione evocativa che questa musica mi provoca pressoché da sempre. Un amore sconfinato.


Oltre ad essere divertente e piacevole (di grande formato, a colori, e con una copertina semplicemente strepitosa), un volume come questo è soprattutto molto utile. Tenta di dare una sistemazione critica e cronologica ad un genere musicale e di inquadrarlo in un determinato periodo storico. Infatti il decennio che va dal 1967 al 1976 è quello senz'altro più proficuo e prolifico dal punto di vista qualitativo. Il volume è diviso per sezioni e organizzato per schede, ognuna per artista, in ordine alfabetico, con particolare attenzione alla recensione dei singoli album. Molto bello graficamente, oltre che coloratissimo, e con la riproduzione delle copertine originali dei dischi.


La prima sezione, intitolata “I maggiori”, è dedicata appunto a quegli artisti più rappresentativi e che hanno reso famoso il Progressive. Tra questi, Genesis, King Crimson, Yes, Van Der Graaf Generator, Gentle Giant, Robert Wyatt, Caravan, Jethro Tull. La seconda, “I minori”, nella quale vengono raccolti i nomi di quei gruppi e artisti che hanno contribuito, magari oscuramente, ad arricchire la scena Prog di quegli anni. 


Particolarmente interessante la terza sezione, “Gli italiani”, nella quale appunto c'è il tentativo di inquadrare storicamente la scena italiana, che all'epoca poteva vantare capacità e preparazione musicale non inferiori alla più quotata scena britannica. Quindi a fianco di PFM, Banco, Balletto di Bronzo, Orme, Osanna, Battiato, appaiono anche nomi abbastanza sconosciuti, che magari sono vissuti quel tanto per registrare uno o due album.


L'antologia è abbastanza completa e Rizzi è sicuramente un grande conoscitore del genere. L'unico neo, che è poi il difetto di ogni dizionario o manuale musicale, è che i giudizi relativi agli album, sono strettamente soggettivi e rispecchiano ovviamente il gusto personale dell'autore. A volte anche molto discutibile, almeno per me. Resta comunque l'ottimo servizio reso al Progressive. 


Ed è a questo periodo che è limitato il mio post. Lo farò attraverso dieci schede, dedicate ad altrettanti artisti, quelli che complessivamente, a mio parere, hanno dato il contributo creativo maggiore. Non è una classifica.

Ogni scheda sarà seguita da consigli di ascolto. Sono gli album migliori secondo il mio gusto personale.

In coda indicherò album imperdibili di artisti rimasti fuori da questo elenco.


King Crimson - Più che dei King Crimson, bisognerebbe parlare di Robert Fripp. E' ovvio comunque che, pur essendoci lui dietro la sigla del Re Cremisi, la produzione a nome del solo Fripp è ben altra cosa da quella del gruppo, e sfora sicuramente i canoni del Progressive. Non si può, d'altronde, attribuire tutto il merito a Fripp, infatti, nel corso della varie trasformazioni della band, si sono alternate personalità di grande spicco, che hanno contribuito non poco all'elaborazione compositiva ed esecutiva.

I King Crimson hanno aperto, comunque sia, e in ogni fase, la strada a nuove sonorità, anticipando quasi sempre i tempi, coniugando romanticismo e sperimentazione. È incredibile, comunque, a prescindere dai contenuti, come siano sempre riusciti a mantenere un equilibrio formale unico, dosando intellettualismo e musica popolare.

Album consigliati: "In The Court Of Crimson King" (1969), "In The Wake Of Poseidon" (1970), "Lizard" (1970), "Larks' Tongues In Aspic" (1973), "Starless And Bible Black" (1973), "Red" (1974).


Robert Wyatt - Maestro e capostipite di tutta la Scuola di Canterbury, Robert Wyatt meriterebbe, solo per questo, di essere citato nel presente speciale. Al pari di Fripp, Wyatt può vantare una carriera musicale di altissimo livello e di lungo corso. Prima coi Soft Machine, poi con i Matching Mole ed infine da solo, ha sperimentato, sia con la voce che con gli arrangiamenti e le composizioni, strade sonore di grande, grandissima suggestione.

Quasi sempre partito dalla forma canzone, Wyatt è andato ben oltre, inserendo elementi folk, jazz e di musica romantica, filtrati attraverso una sensibilità delicata e raffinata, che ha trovato soprattutto nella sua voce il naturale compimento espressivo. Considerata la notevole cultura musicale, ha poi messo in piedi una molteplicità di collaborazioni e di produzioni, nelle quali, spesso, la sua presenza ha fatto la differenza.

Album consigliati: "The End Of An Ear" (1970), "Rock Bottom" (1974), "Ruth Is Stranger Than Richard" (1975).


Genesis - E' bene subito chiarire, che quando parlo di Genesis, intendo i Genesis con Peter Gabriel, e non la "Phil Collins Band", che, a parte l'ottimo "A Trick of the Tail", nel quale aleggia ancora la presenza e l'influenza del "convitato di pietra" Gabriel, il resto è abbastanza o molto dimenticabile, e pur mantenendo il nome dei Genesis, di questi gradatamente ha avuto poco o nulla in comune. 

Tra l'altro mi manterrò nel periodo indicato in premessa, quindi non entrerò nel merito di quanto è accaduto dopo. 

Ma a parte questa dovuta considerazione, i Genesis sono stati il gruppo che più di altri, all'interno di questa corrente musicale, ha riscosso un successo di notevole portata, tale da renderli una delle band più popolari nella storia del rock.

Compositori ed esecutori eccellenti, Gabriel e soci hanno incarnato il lato romantico del Progressive, consolidando l'affermazione di quel particolare filone denominato "Rock Sinfonico", influenzando una miriade di gruppi e artisti.

Album consigliati: "Trespass" (1970), "Nursery Crime" (1971), "Foxtrot" (1972), "Selling England By The Pound" (1973) e "The Lamb Lies Down On Broadway" (1974).


Van Der Graaf Generator - Mentre la fama è stata generosa con i Genesis, ben al di sopra dei loro effettivi meriti, considerata la produzione degli anni più recenti, la stessa cosa non si può dire per i Van Der Graaf Generator, rimasti sempre fuori dal mainstream, e per questo penalizzati più che ingiustamente.

Dal punto di vista musicale, la band di Peter Hammill ha molte analogie con quella di Peter Gabriel, a cominciare dal taglio romantico e sinfonico, per arrivare fino alla centralità della voce del leader.

Ma l'approccio dei Van Der Graaf è ben più radicale, fatto di sperimentazione, dissonanze e sostanziali incursioni anche nel jazz. Radicalismo sonoro che li ha condotti però ad una certa coerenza musicale.

Musicisti tecnicamente molto preparati, i Van Der Graaf, con le loro atmosfere decadenti e oscure, hanno influenzato molto anche la new wave e certo cantautorato inglese.

Album consigliati: "Aerosol Grey Machine"(1969), "The Least We Can Do Is Wave To Each Other" (1970), "H To He, Who Am The Only One" (1971), "Pawn Hearts" (1971).


Caravan - Altro gruppo che meriterebbe ben altra fama sono appunto i Caravan, la migliore espressione del filone melodico del Canterbury sound dopo il vate Robert Wyatt.

Band dall'eccellente preparazione musicale. Caratterizzazione melodica, sempre in bilico con un'impostazione colta, tra sinfonica, folk, psichedelia, pop e jazz, con evidenti suggestioni zappiane.

Nonostante la scarsa popolarità, la band canterburyana ha contribuito ad influenzare moltissimo la scena musicale progressive, consegnando almeno alla storia un paio di capolavori assolutamente geniali.

L'apice artistico i Caravan lo hanno raggiunto tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, quando nella formazione militavano i due cugini Sinclair (Richard e David), basso e tastiere, Pye Hastings, chitarra, e Richard Coughlan, batteria. Un gruppo che andrebbe attentamente rivalutato.

Album consigliati: "Caravan" (1968), "If I Could Do It All Over Again, I'd Do It All Over You" (1970), "In the Land of Grey and Pink" (1971), "Waterloo Lily" (1972), "Cunning Stunts" (1975).


Yes - Gli Yes sono stati senza alcun dubbio, per un periodo di tempo, il gruppo progressive con i migliori musicisti. Una preparazione musicale e un'energia invidiabili. La band inglese è stata anche quella che ha retto meglio la prova dei live acts, dal vivo infatti sono sempre stati una vera forza della natura.

Il loro sound era caratterizzato, nell'epoca d'oro, prevalentemente da un'impostazione sinfonica, nella quale si inserivano le incursioni dei vari strumentisti, veri e propri funamboli.

Anche per loro il momento migliore può essere circoscritto all'inizio degli anni settanta e con la formazione composta da Jon Anderson alla voce, Steve Howe alle chitarre, Rick Wakeman alle tastiere, Chris Squire al basso e Bill Bruford alla batteria.

Album consigliati: "The Yes Album" (1971), "Fragile" (1972), "Close To The Edge" (1972), "Yessongs" (1973), "Relayer" (1974).


Jethro Tull - Il folletto Jan Anderson è uno dei personaggi di maggiore spicco del rock inglese degli anni settanta. La resa scenica delle sue originali performance dal vivo e il suo flauto sono oramai diventati un simbolo non solo dei Jethro Tull, ma di buona parte del progressive rock.

I Jethro Tull sono comunque rimasti sempre un po' al confine con il territorio reale del Progressive, avendo cominciato come band fondamentalmente rock blues, con elementi di art rock.

Il primo disco, "This Was", infatti, tra l'altro un capolavoro, ha ancora poco a che fare con tale ambito, resta confinato per lo più nel rock blues e nel folk, anche se ne rende una versione molto originale. Tuttavia, in seguito la sapiente contaminazione di elementi folk, jazz, psichedelici, sinfonici, hard rock e ancora rock blues, soprattutto con la realizzazione di alcuni concept album, li inserisce a pieno titolo all'interno della musica progressive.

Un sound molto particolare distingue questa band, caratterizzato soprattutto dalla voce e dal flauto del leader, ma anche dall'ottimo livello di preparazione di tutti gli altri musicisti.

Album consigliati: "Stand Up" (1969), "Benefit" (1970), "Aqualung" (1971), "Thick As A Brick" (1972), "A Passion Play" (1973)


Banco del Mutuo Soccorso - Il "Banco" è senz'altro uno dei maggiori simboli della stagione d'oro del Progressive italiano. Un gruppo che aveva ben poco da invidiare ai suoi colleghi britannici, sia per inventiva, sia per qualità compositiva, che per esecuzione. Ben al di sopra della semplice emulazione sonora. 

Il Progressive italiano si è caratterizzato da subito per l'originalità di molte trovate musicali, legando questa esperienza soprattutto alla musica classica, alla canzone d'autore e alla musica popolare del nostro paese. 

Con il Banco del Mutuo Soccorso si arriva a livelli di eccellente profilo qualitativo, grazie soprattutto ad una varietà di elementi e alla professionalità dei membri del gruppo, a cominciare dalle capacità vocali del mai troppo compianto Francesco Di Giacomo e a quelle esecutive e compositive dei due fratelli Nocenzi. 

Bisognerà un giorno riscrivere la storia della musica italiana, riconoscendo il giusto peso ad un genere che ancor oggi resta sottovalutato e del quale i musicisti del Banco sono stati tra i primi e migliori protagonisti.

Album consigliati: "Banco del Mutuo Soccorso" (1972), "Darwin" (1972), "Io sono nato libero" (1973).


Premiata Forneria Marconi - Se c'è il Banco, c'è anche la PFM. Non è solo un luogo comune. Questi due gruppi, nel bene più che nel male, sono rimasti uniti da destini simili e paralleli. Entrambi hanno attraversato una stagione entusiasmante, entrambi hanno incarnato uno stesso genere musicale ed entrambi, in qualche modo, sono sopravvissuti a mode e tendenze.

La Premiata Forneria Marconi ha da vantare una storia blasonata. Hanno suonato sia con Battisti, che con De Andrè, per esempio. Hanno creato una scuola, copiati non solo in Italia, ma anche all'estero, dove sono diventati famosi (USA, Inghilterra e persino Giappone).

Musicisti eccezionali, soprattutto se si pensa a Franco Mussida (chitarrista), Mauro Pagani (flautista) e Flavio Premoli (tastierista). 

Album consigliati: "Storia di un minuto" (1972), "Per un amico" (1972), "L'isola di niente" (1974), "Live in USA" (1974).


Gentle Giant - I Gentle Giant sono un caso a parte. Dal punto di vista sonoro, questo gruppo è da inserire sicuramente tra i più preparati e geniali del rock progressivo. Con un amore per la raffinatezza dei suoni e per la ricerca musicale, è stato forse il gruppo più colto del Progressive inglese, subito dopo i King Crimson. Musicisti preparatissimi, a cominciare dai fondatori: i tre fratelli Shulman (Ray, Derek e Phil), si sono caratterizzati fin dal primo album per la cura maniacale delle composizioni e per la scelta della strumentazione, che andava da strumenti elettrici a quelli acustici, come il violino e lo xilofono, fino a riservare ai fiati un posto tutt'altro che secondario.

Questa estrema cura però li ha penalizzati dal punto di vista dell'immagine. Scarsamente "commestibili" per il pubblico rock, anche per quello più esigente, sono rimasti un po' ai margini della scena, anche a causa di una certa freddezza esecutiva, che se sfiorava la perfezione, li privava di quel tratto sanguigno elemento necessario per tutta la musica rock.

Album consigliati: "Gentle Giant" (1970), "Acquiring The Taste" (1971), "Three Friends" (1972), "Octopus" (1972) e "In A Glass House" (1973).


Nel terminare questo speciale, voglio però ricordare alcuni artisti che sono rimasti fuori da questa lista e che meritano più che una semplice menzione. E allora per completare la discografia, ecco ulteriori segnalazioni.


Innanzitutto, i capolavori progressive dei Pink Floyd. Come sappiamo, il periodo progressive seguì quello puramente psichedelico degli inizi, e andò avanti anche successivamente, ma con alterni risultati qualitativi.

"Atom Heart Mother" (1970), "Meddle" (1971), "The Dark Side of the Moon" (1973) e "Wish You Were Here" (1975) sono però pietre miliari.


-"Angel's Egg" (1973) dei Gong, il gruppo più creativo e trasgressivo del Progressive, fondato dal genio Daevid Allen.

-"Leg End" (1973) degli Henry Cow, ancora una creatura della Scuola di Canterbury, gruppo d'avanguardia formato dall'onnipresente Fred Frith.

-"Tarkus" e "Trilogy" (1972), secondo e quarto album del supergruppo Emerson, Lake & Palmer, manifesti del rock sinfonico basati sulle acrobazie delle tastiere e sulla geniale vena compositiva di Keith Emerson, e sull'evocativa bellissima voce di Greg Lake.

-"Third" (1970), ancora Canterbury con i Soft Machine, primo gruppo di Robert Wyatt e primo esempio di jazz rock progressivo della storia.

-"Valentyne Suite" (1969) capolavoro dei Colosseum, che contiene il brano omonimo, forse la prima suite interamente strumentale del Progressive.

-"Tubular Bells" (1973) del polistrumentista Mike Oldfield, opera straordinaria e per dei versi sconvolgente, una vera e propria sinfonia.

-"Palepoli" (1973), concept album, dedicato alla Napoli antica, degli Osanna, gruppo del flautista Elio D'Anna.

-"Sulle corde di Aries" (1973), album splendido del periodo progressive di Franco Battiato, in cui il genio siciliano miscela influenze di vario genere.

-"John Barleycorn must die" (1970), capolavoro assoluto dei Traffic, ma soprattutto del genio Stevie Winwood, un disco che ha influenzato generazioni di musicisti.

-I due capolavori da solista di Peter Hammill: "Chameleon in the Shadow of the Night" (1973) e "The Silent Corner and the Empty Stage" (1974), nei quali il cantante dà prova fino in fondo di tutta la sua capacità vocale.

-"Hatfield & The North" (1974) e "The Rotter's Club" (1974), i due gioielli degli Hatfield & The North, una diramazione più intellettuale dei Caravan, coi due fratelli Sinclair.

-"In Search of Space" (1971) e "Space Ritual" (1973), i due capolavori degli Hawkwind, nei quali le componenti underground, psichedelica e hard rock fanno la parte del leone.

-"Ys" (1972) del Balletto di Bronzo, col tripudio di tastiere del leader Gianni Leone, altro esempio di eccellente prog made in Italy.

-"Abbiamo tutti un blues da piangere" (1973) e "Genealogia" (1974). Forse sarà considerato improprio l'inserimento del Perigeo in questa lista, musicisti provenienti dal jazz, il gruppo di solito viene catalogato come jazz rock. Tuttavia, se si ascoltano attentamente questi due dischi è facile rintracciare un approccio decisamente progressive. Quindi, per quanto mi riguarda, possono essere presenti a pieno titolo in queste segnalazioni. 


E per finire una menzione a parte la merita il capolavoro progressive misconosciuto di Todd Rundgren, quel suo "Todd Rundgren's Utopia" (1974) inciso a nome dell'omonimo gruppo. Un discorso a parte, perché Todd Rundgren, un vero e proprio genio folle, rientra nel progressive solo per alcune cose, quest'album compreso; perché è l'unico americano ad essere inserito in questo post; e perché questo album è a dir poco sorprendente, un misto di prog, jazz rock, psichedelia, hard rock e deliri zappiani.

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