venerdì 31 marzo 2023

Valerio Evangelisti "Noi Saremo Tutto" (2004)

Consigli di lettura 

Valerio Evangelisti

"Noi Saremo Tutto" (2004)


Eddie Florio è un gran figlio di puttana. Un figlio di puttana che si incontra molto di rado nella letteratura. Eddie Florio è un perverso, un egocentrico e un narciso, un tipo votato anima e corpo, ad ogni costo, al potere e al raggiungimento dei suoi scopi. In fondo, se nel mondo della fantasia, tipi così non sono molto frequenti, la stessa cosa non si può dire della realtà.


Quindi Florio, il protagonista di questo grande romanzo di Valerio Evangelisti, è un tipo comune, molto più comune di quello che si pensa. Di Florio è pieno il nostro mondo, in caso contrario la nostra realtà non sarebbe così schifosa e putrida.

La vicenda è ambientata in un arco di tempo che va dagli anni trenta agli anni cinquanta, negli USA, e in particolare nei porti di Seattle, San Francisco e New York. Il contesto è importante, ma non bisogna leggere il libro limitandosi a questo. Ma come una parabola di critica al potere, a qualsiasi tipo di potere.


Si narra della scalata del protagonista, appunto Florio, all'interno del sindacato dei portuali fino ad arrivare all'Anonima Assassini. Questo attraverso i conflitti che in quel trentennio videro protagonisti le lotte dei portuali americani e con il tentativo, coronato da successo, da parte della malavita e del padronato, di infiltrarsi all'interno dei sindacati. Il romanzo è chiaramente ispirato a "Fronte del porto", ma la rielaborazione di Valerio mette ancora più a nudo certi aspetti, descrivendone tutta la loro miseria e crudeltà.


Evangelisti plasma con facilità una materia di cui era profondo conoscitore. Le pagine scorrono via che è una bellezza e i personaggi sono tratteggiati con cura quasi maniacale ed ossessiva, in modo da sottolineare ancor più l'atmosfera malata e di disfacimento morale in cui è inserita la vicenda. È una progressiva discesa negli inferi dell'animo malvagio e spietato del protagonista.


L'autore dimostrava una particolare vena nel costruire romanzi di carattere storico - politico, come è avvenuto con una parte della sua produzione, questo non solo per la conoscenza di cui si è già detto più sopra, ma innanzitutto per la passione che Evangelisti infondeva in queste storie. È chiaro, infatti, dal modo duro e senza cedimenti con cui espone i fatti, che tutto ciò lo coinvolgeva fin nel più intimo dei suoi sentimenti. 


È percepibile in maniera netta il suo sconcerto e la sua indignazione, per una realtà che descriveva incredibilmente bene, ma che rifiutava assolutamente. Era mio amico Valerio e so benissimo come la pensava.

A prescindere da Eymerich e dalla sua grandezza come personaggio letterario, lo scrittore aveva moltissimo da dire fuori dall'Inquisitore, e ne era assai consapevole, come aveva capito che la vita di un autore seriale non è facile e restare imprigionato in un personaggio anche se grandioso, non è sempre un bene, anzi, la ripetizione può portare all'inaridimento creativo. 


Dove, quando o come non ha molta importanza, l'importante è che sia protagonista la Storia e che il racconto ci venga da uno scrittore la cui visione soggettiva aveva il dono di essere alternativa e antagonista a chi la Storia non solo vorrebbe riscrivere, ma anche cancellare.

E a uno scrittore del suo calibro spetterebbe una volta per tutte il riconoscimento che merita, nell'ambito della storia della letteratura italiana, e non solo di quella di genere.

giovedì 30 marzo 2023

The Jimi Hendrix Experience "Electric Ladyland" (1968)


Storia del rock

The Jimi Hendrix Experience

"Electric Ladyland" (1968)


"Electric Ladyland" rientrerebbe idealmente, e senza alcun dubbio, a far parte della mia lista dei venti album di musica rock da portare su un'isola deserta. Venti, perché dieci sarebbero troppo pochi.


Difatti, a prescindere dal reale valore di Hendrix e dei suoi Experience, questo disco raccoglie in sé tutto quello che di meglio ci si può aspettare dal rock: energia, innovazione, fantasia, versatilità, tutte qualità proprie di questa musica e che questo album esprime al meglio, senza contare il grande entusiasmo, percepibile ad ogni secondo di ascolto. E' il rock nella sua massima espressione di carne e sangue.


È la dimostrazione che in quel momento ci trovavamo ancora nell'età dell'innocenza del rock, che sarebbe finita un anno dopo a Woodstock, anche se l'industria musicale aveva già fatto passi da gigante pure in quel settore, e la spontaneità stava per essere in buona parte addomesticata. Ma questa è un'altra storia.


Certo, lo ammetto: ho sempre nutrito per Hendrix una sorta di vera e propria venerazione. Forse perché da adolescente, con Hendrix appena morto, e io che mi avvicinavo al rock da acerbo ascoltatore, fui molto colpito dal mito da "guitar hero" del quale era avvolta la sua figura. 


Il grande chitarrista è rimasto nel mio cuore a dispetto degli anni che sono trascorsi, e ogni volta che ascolto la sua chitarra e le sua caldissima voce, le emozioni volano alte.

Ma qui, oltre a questioni più strettamente romantiche, sono coinvolti principalmente fattori di squisito ordine artistico e musicale.


"Electric Ladyland", è il terzo album ufficiale degli Experience, ultimo atto, sintesi e compimento, di una trilogia, anticipato da altri due capolavori: "Are You Experienced?" e "Axis Bold As Love". Come quasi tutti i grandi dischi del rock, non solo segna un'epoca, ma è anticipatore e innovatore di molto del rock che verrà. 


E non intendo solamente di rock blues, psichedelia o hard rock. 

Inoltre, l'estetica in questo genere musicale gioca un ruolo fondamentale. La mera esecuzione non è sufficiente. Quindi, la rappresentazione scenica, grafica e nel complesso artistica, compresi gli estemporanei happening, hanno un ben preciso ruolo. Bisogna anche tenere presente che eravamo ancora in piena controcultura.


È la natura stessa del rock che viene stravolta, è la concezione musicale che viene trasformata irreversibilmente in primo luogo da Hendrix, e poi, a seguire, da Mitch Mitchell e Noel Redding, che non costituivano solo un'eccellente sezione ritmica.

È la funzione che assumono sperimentazione dei suoni e contaminazione musicale che aiutano a tracciare una nuova rotta.


Quindi, insieme all'istintivo rock blues e all'allucinata psichedelia, abbiamo punte di sperimentalismo acido, furori protopunk, addirittura timidi accenni progressive e incursioni nel jazz e nel soul.

Ma il valore di questo disco non si esaurisce solo all'interno dell'innovazione stilistica e dello shock emotivo. Anzi, risiede innanzitutto nell'indiscutibile valore compositivo ed esecutivo dei suoi brani. 


Basti citare alcuni titoli che hanno fatto la storia del rock: "Voodo Chile" e "Voodo Child (slight return)", "Crosstown Traffic", "Little Miss Strange", "Rainy Day Dream Away", "1983.... (a merman I should turn to be)", "Still Raining, Still Dreaming", ma soprattutto la cover della dylaniana "All Along The Watchtower", uno dei pochi esempi in cui un'interpretazione supera l'originale e resta impressa per sempre nel mito.


Da segnalare infine, in alcuni pezzi, la presenza di ospiti illustri: Buddy Miles alla batteria, Chris Wood al flauto, Steve Winwood all'organo, Jack Casady al basso e Al Kooper al piano.

mercoledì 29 marzo 2023

Ombre e Nebbia (1992)


Cult Movie


Ombre e Nebbia (1992)


Regia di Woody Allen

con Woody Allen, John Malkovich, Mia Farrow, John Cusack,

Madonna, Jodie Foster, Kathy Bates, Donald Pleasence.


Ombre e Nebbia è uno dei film meno noti di Allen, ma sicuramente uno dei più riusciti. Esperimento molto felice di riadattamento di alcuni canoni cinematografici, letterari, musicali e teatrali dell'arte europea, è essenzialmente un tributo del regista newyorkese ad alcune sue influenze culturali e ad alcune sue ossessioni. Al suo amore per l'Europa. 


Il film è in sostanza una gothic comedy molto dark, ma che mantiene irresistibili elementi di comicità. Woody Allen è un novello Kafka che si aggira tra le strade nebbiose di una città mitteleuropea all'inizio del secolo scorso, una città che potrebbe essere benissimo Praga.


Tuttavia, la trama è per lo più un pretesto, anche se per nulla banale, un pretesto per far interagire in modo geniale le sue passioni. Si parte fin da subito con la colonna sonora presa dalle musiche di Kurt Weill, ha, poi, in Fritz Lang con il suo "M - Il mostro di Dusseldorf", la sua ispirazione più evidente, per poi passare di volta in volta a tutta una serie di citazioni, ma non in maniera schematica, bensì miscelando sapientemente le dosi.


Richiami che è assai divertente riuscire a individuare e che, nella loro molteplicità, rispondono ad un gioco raffinato che Allen fa con se stesso e con i suoi spettatori. Ne cito alcuni, ma credo che siano solo una parte di quelli che mi è parso di rintracciare.

Oltre ai già citati Weill e Lang, Allen omaggia il cinema di Ingmar Bergman e di Federico Fellini, il teatro di Bertolt Brecht, le opere di Franz Kafka, di Meyrink con il suo "Golem", l'espressionismo cinematografico tedesco e russo.


Il bianco e nero, neanche a dirlo, è assolutamente d'obbligo e si integra perfettamente con le ombre e la nebbia che caratterizzano buona parte del film, inserendo qui anche un altro omaggio: quello al cinema come illusione, come realtà in continuo mutamento, dove tutto sfugge e tutto è sogno, arrivando ad infrangersi nello specchio di un illusionista.


Allen, inoltre, si avvale di un cast stellare, che però tiene imbrigliato nell'economia del film, riplasmando gli attori secondo la sua particolare visione, ed evitando accuratamente che si lascino andare a eccessi recitativi sopra le righe e ad atteggiamenti istrionici, basti guardare alla misurata ed eccellente interpretazione di John Malkovich.

Una prova d'accademia di un grande maestro, che andrebbe vista e rivista più volte per avere ben presente cosa vuol dire fare cinema.

venerdì 24 marzo 2023

Claudio Asciuti "I semi di Marizai" (2006)

Consigli di lettura 


Claudio Asciuti "I semi di Marizai" (2006)


Ci sono libri per i quali devi azzeccare il periodo giusto. Tale piccola regola vale anche a proposito di questo romanzo, politicamente scorrettissimo, ritrovato casualmente nella mia libreria, che avevo comprato all'epoca della sua uscita e poi messo da parte, molto probabilmente perché pressato da altre letture. E così ne avevo dimenticato l'esistenza.


Narra di un mondo quasi del tutto scomparso, anche se sono passati solo poco più di vent'anni. Il libro è del 2006 ed è scritto da un tipo molto originale. 

Claudio Asciuti, mio coetaneo, scrittore, giornalista e recensore. Collaboratore di riviste alternative dell'estrema sinistra, quali "Re Nudo", "Gong" e "Un'Ambigua Utopia". Più tardi anche di "Carmilla", la rivista dell'immaginario fondata da Valerio Evangelisti, e di "Pulp", rivista di recensioni librarie.


Un tipo molto originale, perché assolutamente fuori dagli schemi, un eretico. In un'intervista si definì, con una boutade, anarchico di destra. Nella stessa intervista si prodigò a demolire molti stereotipi ideologici, e questo lo faceva più o meno sempre all'epoca, anticipando buona parte delle critiche che molti di noi avrebbero elaborato successivamente. 


Diceva in sostanza che già allora, destra e sinistra erano significanti privi di significato. Non avevano più alcun senso. Ma sbaglierebbe chi fosse portato a pensare, preso dalla smania di voler catalogare tutto, a qualcosa di analogo al grillismo, né a quello che viene comunemente e spesso a sproposito, definito rossobrunismo. È una constatazione che si pone ben oltre le categorie ideologiche, è qualcosa che ha a che vedere con una certa consapevolezza esistenziale, maturata in questi ultimi tempi. Credo che sia necessario essere anche di una certa generazione per poter coglierne in pieno il senso.


Saggista e narratore, autore di molti racconti e di quattro romanzi, tra cui il premio Urania "La notte dei pitagorici" e questo libro assai sorprendente, che è un noir ambientato a Genova, poco dopo i fatti del G8 del 2001. Si potrebbe definire proprio per questo un noir con ambientazione storica, perché, da una prospettiva odierna, i due decenni trascorsi lo rendono di fatto tale, anche se ovviamente non lo era quando uscì.


Leggendolo in questi giorni, ho appunto, come scritto all'inizio, spogliato da certi pregiudizi ideologici, azzeccato il momento giusto, e per una serie di motivi.

Innanzitutto, perché mi offre l'opportunità di guardare a quel periodo con sufficiente, anche se non con completo, distacco e disincanto, e di constatare che, per assurdo, quel particolare contesto ha più affinità con gli anni settanta, che con il mondo attuale. Nonostante quel che pensino quei soggetti residuali per cui la Storia non cambia mai e che ne celebrano, ancora oggi, il ricordo con riti stantii, prigionieri della coazione a ripetere.


Questo a dimostrazione del fatto che i fatti del G8 di Genova hanno costituito in qualche modo un clamoroso punto di svolta, una sorta di frattura insanabile col mondo di allora, e non solo, hanno aperto una fase di accelerazione di processi sociali e politici che in questi anni si sono rivelati inarrestabili e irreversibili, in particolar modo negli ultimi tre.


Ma il motivo principale e più sorprendente è dato dal fatto che "I semi di Marizai", narrato in prima persona, ha come protagonista ed eroe positivo, un detective privato fascista, anzi fascistissimo, come si definisce lui, il Nero, noto anche come Mezza Cartuccia, ammiratore di Italo Balbo. 

Asciuti lo immagina come suo coetaneo. 


Il Nero, "uno che ha fatto i settanta", è però un camerata sui generis, veramente fuori dai soliti schemi: oltre che amici fascisti, ha una fidanzata anarchica, un caro amico marxista leninista, ex di Lotta Comunista, e rispetta i suoi avversari, anche se li prende per i fondelli. Odia gli stragisti e i venduti ai Servizi di qualsiasi tipo e colore e disprezza i fascisti antisemiti e razzisti. Si sente un reduce già allora, a inizio nuovo millennio.


Quindi, il momento in cui l'ho letto, a distanza di tanti anni dai fatti narrati, non poteva che essere più appropriato anche per questo motivo.

Con il giusto disincanto e distacco, ho potuto godermi un plot divertentissimo. 

È, inoltre, stata un'occasione per guardare con una diversa prospettiva a quel periodo e agli anni settanta.


Il Nero è stato incaricato di ritrovare una persona scomparsa. Si muove nella sua città con grande destrezza. Il romanzo è anche un omaggio a Genova, al porto, ai suoi vicoli, ai suoi luoghi oscuri, ai suoi abitanti. È costretto a muoversi tra una fauna umana di tutti i tipi: noglobal, camerati, malavitosi, informatori, sbirri, servizi segreti.


Claudio Asciuti è bravissimo nel tenere alto il ritmo, nel costruire dialoghi credibilissimi, ma soprattutto, nel mettersi nei panni del suo protagonista. Dimostra di conoscere benissimo sensazioni, punti di vista, valori e sensibilità, laddove molti pensano di non poterne trovare. Stravolge i luoghi comuni, i cliché e cerca di dare corpo ad un'altra verità.


La storia evolve in un epilogo condizionato ovviamente dall'epoca, le cose nella realtà sono andate un po' diversamente, e probabilmente anche peggio, ma le analogie sono molte, soprattutto in relazione ai misteri, alle menzogne e al ruolo della politica. Il finale contiene anche una sua epicità, nel quale Mezza Cartuccia trova un alleato che più "improbabile" non si può.

mercoledì 22 marzo 2023

John Coltrane "My Favorite Things" (1960-1961)


I Classici del Jazz

John Coltrane

"My Favorite Things" (1960-1961)


L'incontro che ebbi con questo disco (una quindicina d'anni dopo la sua incisione) produsse in me quasi un trauma. Quando ascoltai per la prima volta la title track, non volli credere alle mie orecchie.


Pochissime altre volte aveva e avrebbe preso forma, nella mia esperienza di ascoltatore, uno stupore così intenso rispetto alla musica. "Trane" che si cimenta con una canzonetta molto carina, ma banalissima, colonna sonora di un film per bambini, qual è, nella versione italiana, "Tutti insieme appassionatamente"! Da non crederci.

La cosa più stupefacente, però, è che il sassofonista non lo fa affatto con spirito ironico, alla stregua di uno Zappa che, con sublime genialità, era pronto a dissacrare qualsiasi composizione.


John Coltrane è serio ed inappuntabile, guardatelo come appare nella copertina, nessuna concessione alla leggerezza: un austero sassofonista vestito di scuro, si staglia su uno sfondo azzurro, tendente al grigio. Niente fa presagire ironia o parodia. Il brano "My Favorite Things", in effetti perde, tutti i connotati originali, smette le vesti di puro intrattenimento, e si tramuta in un capolavoro assoluto, una di quelle esecuzioni indimenticabili con un incedere incredibile ed inesorabile, sorretto anche dal magico fraseggio del piano di McCoy Tyner.


Il brano viene stravolto, ma conserva la melodia originaria, quindi è riconoscibilissimo, ed è dirompente l'operazione innovativa di "Trane". Un'operazione che non lascia adito a nessuna interpretazione equivoca. Ci si trova di fronte al genio musicale puro, che utilizza qualsiasi input sonoro per andare ben oltre ogni facile riduzione e scorciatoia interpretativa. La musica si dilata nella pura e passionale improvvisazione.


Non è comunque neanche un caso che la scelta cada su un brano del genere. Pensiamoci bene, privo di qualsiasi attinenza con la tradizione musicale afroamericana, la canzone originale era un semplice valzer.

Coltrane, quindi, cerca di dimostrare la capacità del jazz, anche di quello più ardito, non solo di adattarsi a qualsiasi tipo di fonte sonora, ma addirittura di riadattare e stravolgere i canoni della musica bianca, anche di quella meno colta. Reclama per il jazz la vocazione al "popular" più dignitoso e, nello stesso tempo, alla migliore avanguardia.


L'altra cosa che ci suggerisce la copertina, è che questo è uno dei primissimi album incisi dal musicista con il sax soprano, quello "strano strumento" che poco tempo prima gli era stato regalato dall'amico Miles Davis. Da qui e dall'uso del sax soprano, parte la grande sperimentazione di Coltrane, quell'avventura sonora che lo porterà a scoprire dimensioni inedite e che a tutti noi regalerà diversi capolavori ineguagliati, a cominciare dal mitico e mistico "A Love Supreme" del 1964.

Un'ulteriore prova delle nuove doti interpretative di Coltrane e del suo quartetto l'abbiamo, però, già e di nuovo in questo album, con l'altro grande classico, quella "Summertime", che così resa offrirà del brano di Gershwin una versione di radicale ricerca sonora semplicemente indimenticabile.


Ma l'album non è solo questo, anche se basterebbe e avanzerebbe abbondantemente, gli altri restanti due pezzi sono ancora due cover, di nuovo Gershwin con "But Not For Me" e Cole Porter con "Every Time We Say Goodbye", danno la dimensione di quello che il genio di Coltrane sta sperimentando e di cui a breve tempo darà prova: digressioni acustiche, anticipazioni free e incursioni nelle sonorità dal marcato sapore orientale, soprattutto suggestioni provenienti dall'India. Insomma, un album con geniali interpretazioni di quattro classici. 

Tutto questo è "My Favorite Things", un disco al di sopra e al di là di qualsiasi dimensione spazio-temporale, una pietra miliare non solo del jazz ma della musica universale.

martedì 21 marzo 2023

"Il Buono, il Brutto e il Cattivo" (1966)


CULT MOVIE

"Il Buono, il Brutto e il Cattivo" (1966)


Regia di Sergio Leone

Con Clint Eastwood, Eli Wallach, Lee Van Cleef, Aldo Giuffrè, Mario Brega, Luigi Pistilli, Rada Rassimov

Musiche di Ennio Morricone 


Questa non vuole essere una vera e propria recensione, quanto un tributo a una storia unica e assolutamente irripetibile. Un tributo a un grande artista, uno dei massimi artisti che il nostro Paese ha avuto nel Novecento.

Ho scelto “Il Buono, il Brutto e il Cattivo” per parlare di Sergio Leone per un motivo molto semplice. Questo è in qualche modo il film manifesto del regista romano, arriva a metà della sua filmografia ufficiale e porta a compimento la “Trilogia del Dollaro”, dimostrando  in maniera netta e limpida il suo modo di essere “sovversivo”.

   

Strana sorte è toccata a Sergio Leone. La crescita della sua fama e della sua influenza sul cinema mondiale è direttamente proporzionale al tempo che passa. Uno dei pochissimi esempi in assoluto. Anzi, la questione è ancor più evidente se prendiamo in considerazione il fatto che c'è stato un periodo in cui, Leone in vita, questi veniva liquidato poco più che come un onesto artigiano del cinema di genere, e i suoi film erano inseriti semplicemente nel sottogenere "spaghetti western". Solo dalla seconda parte della sua carriera in poi si è incominciato a valorizzarne la qualità.


Da un bel po' di tempo a questa parte, invece, molti registi fanno a gara a rivendicare una diretta derivazione del loro cinema da quello di Sergio Leone o quantomeno menano vanto dell'influenza esercitata da questo su di loro.

Tale fenomeno, inoltre, non è limitato solamente a chi del cinema di genere ne fa un motivo di esistenza, o ai soliti Tarantino, Eastwood, Scorsese e De Palma, ma anche ad esponenti tutt'altro che vicini a produzioni affini a quelle del regista italiano.


Tutto ciò assume un'importanza ancora più incredibile, se si considera il fatto che Leone ha agito per lo più in ambito western, con le uniche eccezioni di un film storico mitologico ("Il Colosso di Rodi") e di un epico affresco sull'America degli anni trenta ("C'era una volta in America"). Escluderei dalla sua filmografia sia "Gli ultimi giorni di Pompei", sia "Sodoma e Gomorra", episodi insignificanti, in cui l'apporto di Leone è stato solo di marginale sostegno ad altri registi.

Ma l'influenza dell'opera di Sergio Leone non si esaurisce con il cinema. Vi sono esempi più che chiari anche in letteratura.


È, però, proprio per questo, necessario spostare un attimo la questione. È fuor di dubbio che buona parte dell'influenza esercitata dal suo cinema sia dovuta alle tematiche trattate nei film, ma è anche abbastanza evidente che le capacità di regia di Leone prescindono dal genere.

Credo che ci siano, o ci siano stati, pochissimi altri registi che possano vantare la maestria con cui usava la macchina da presa e un tocco talmente personale ed inconfondibile.


D'altronde, Sergio Leone ha utilizzato il western per lo più come metafora, sia nei confronti del cinema stesso, sia seguendo il suo personale discorso sulla violenza umana e sul potere.

Non a caso anche i due film che esulano dal contesto western, posti ad inizio e fine carriera, completano in qualche modo questa ideale parabola.


Ho scelto, per questo regista, un film che è un po' la pietra angolare della sua produzione. Non oso dire che sia il più bello, ma è senza dubbio il più significativo.

Posto esattamente a metà della sua produzione, "Il Buono, il Brutto e il Cattivo" raccoglie in sé tutti gli aspetti più simbolicamente rilevanti dell'opera di Sergio Leone.


Guardiamo per esempio alla già citata metafora sul cinema: il cinema che guarda se stesso, oltre a farsi guardare, e che moltiplica i punti di vista. La durata del film e la trasformazione di questo in diverse linee narrative, in cui i tre protagonisti, non cessando mai di intersecarsi come fossero un unico personaggio dalla triplice personalità, ne costituiscono una delle chiavi di lettura metaforica.

Una sorta di Giano, non bifronte ma trifronte, in cui appunto la scena finale del cosiddetto "triello" è l'epilogo più simbolicamente logico.


I tempi si dilatano a dismisura e in determinati momenti il fulcro corrisponde all'apocalittica e ossessiva invasione dei primi piani, oppure all'oppressiva cura per i particolari più trascurabili, elemento che verrà poi ripreso e sviluppato ulteriormente in "C'era una volta il West", e che non è stato trattato e non sarà mai più trattato con la stessa efficacia e perizia da nessun altro, eccezion fatta per Alfred Hitchcock.


A tutto questo va unito il contenuto del film.

Ultimo atto della "trilogia del dollaro" con protagonista principale Clint Eastwood, "Il Buono, il Brutto e il Cattivo" è anche momento di passaggio fondamentale per i film che verranno dopo. Punto di svolta tra i cattivissimi "Per un pugno di dollari" e "Per qualche dollaro in più" (quest'ultimo forse, dal punto di vista formale, il film più riuscito di Leone) e i più meditati e politici "C'era una volta il West" e "Giù la testa".


Non a caso è un film dall'ampia complessità strutturale, in bilico tra l'anarchia individualista, antilegalitaria e qualunquista dei primi due della trilogia, e la coralità sociale e politica dei film che verranno successivamente, in maniera particolare "C'era una volta in America".

E poi la parte più delicata di tutto l'impianto: la critica della violenza e del potere, che sarà posta ironicamente come premessa a "Giù la testa" con la famosissima citazione di Mao Tse Tung.


Sergio Leone non se ne fa un particolare cruccio dell'esistenza della violenza. Pensa che questa sia ineluttabilmente insita nella storia umana, ma non degenera mai una in una visione moralistica delle relazioni di potere, né in un cinismo vuoto e inutile. Crede nella legittimità del riscatto da parte dei reietti, ma nello stesso tempo possiede una dose di notevole ironia, che gli permette di rifuggire da qualsiasi enfasi e da qualsiasi semplificazione ideologica.


Si diverte a prendere in giro i suoi due maggiori protagonisti, li alterna a turno nelle parti di carnefice e vittima, per poi precipitarli tragicamente e beffardamente in un viaggio fuori contesto, diretti nelle contraddizioni infernali della Storia, nella violenza allo stato puro, quella più grande di loro, quella della guerra.

Gioca con loro, trascinandoli ai limiti del grottesco, quasi fossero due novelli Stan Laurel e Oliver Hardy, ricordando a tutti, con crudeltà, che il confine tra tragedia e commedia è sempre molto labile; è lì a portata di mano e non ci si può far nulla.


A parte "Il Colosso di Rodi", che non è niente di più che un buon prodotto artigianale, ma già migliore di tanti altri del genere "peplum" (del resto è la sua pellicola d'esordio), i restanti film di Leone sono tutti dei capolavori. Non a caso, da "Per un pugno di dollari" in poi, potè contare sulla perfetta intesa con Ennio Morricone, così come, per citare ancora il caso di Hitchcock, il mitico Alfred aveva ottenuto le cose migliori con l'ausilio di Bernard Hermann.

Musica e cinema che si fondono in un'unica grande sinfonia, composta da sei movimenti, tanti quanti sono i gioielli dell'indimenticabile Sergio Leone.


venerdì 17 marzo 2023

Karin Boye "Kallocaina" (1940)


Consigli di lettura

Karin Boye "Kallocaina" (1940)

[Ristampato nel 2023 da Iperborea]


«E su cosa è appunto fondato lo Stato? Se ci fosse qualsiasi ragionevole motivo per avere reciproca fiducia tra gli uomini, lo Stato non sarebbe mai sorto. La ragione sacra e necessaria dell'esistenza dello Stato è la nostra mutua, legittima sfiducia l'uno nell'altro. Chi mette in dubbio questo fondamento mette in dubbio lo Stato […] Sappiamo che il benessere non è un valore in sé, i nostri sacrifici servono un fine più alto. E se troviamo recinzioni di filo spinato sulle nostre strade, non siamo pronti ad accettare ogni restrizione alla libertà di movimento senza lamentarci? Sì. Sappiamo che tutto questo serve al bene dello Stato, a impedire chi vuole danneggiarlo [...] Capiamo e approviamo che lo Stato è tutto, il singolo niente.»


Nonostante la scrittura di questo romanzo possegga una scorrevolezza e uno stile assai poetico, entrambi invidiabili e non comuni, le questioni che solleva sono di incredibile profondità e complessità. E poi, "Kallocaina", è proprio il caso di dirlo, è un libro stupefacente, quasi del tutto sconosciuto nel nostro Paese. Ognuno potrà leggervi le tante affinità col nostro mondo attuale.


Kallipolis, nella Repubblica di Platone era la città ideale, la "bella città", nella quale si sarebbe realizzata l'utopia del governo dei migliori, un governo con a capo una classe elevata di filosofi, una tirannide tecnocratica. Può darsi che non sia casuale il fatto che abbia la stessa radice di kallocaina, nonostante nel romanzo ci venga spiegato che il nome lo si deve a Leo Kall, suo inventore e protagonista della storia.


L'utopia del governo degli elevati corrisponde ad una distopia per i semplici, per gli ultimi. Nel corso della lettura del romanzo di Karin Boye, ci accorgeremo che non esattamente si tratta di una classe di elevati. Quindi, l'analogia con la Kallipolis si esaurisce qui, in un nesso logico e di assonanza lessicale.


La storia è ambientata in un futuro non meglio precisato, in cui la Terra appare trasformata in un unico Stato Mondiale, oppressivo e totalitario, basato su un controllo ideologico spietato, rigidamente militarizzato e irreggimentato. Appare, ma non lo è effettivamente, considerata l'esistenza di misteriosi territori "oltre confine", di uno "Stato vicino", abitati, si favoleggia, da una razza sconosciuta. 


Anche i luoghi dello Stato Mondiale sono indefiniti, così come i loro nomi, per esempio: la Capitale, oppure Città Chimica seguita da un numero, o la mitica e oscura Città Deserta, di cui viene negata l'esistenza e di cui è vietato parlare. L'azione del nostro "eroe", che è anche l'io narrante, si svolge per lo più in Città Chimica n.4.

Fuori dagli insediamenti urbani non si sa bene cosa ci sia e cosa accada. Gli spostamenti da una città all'altra avvengono con velivoli privi di finestrini.


I legami familiari sono solo funzionali alla riproduzione di nuovi "soldati" al servizio dello Stato Mondiale.

Il fine è l'annullamento di qualsiasi desiderio, aspirazione, sentimento, affetto individuale. Tutto deve essere sacrificato al bene dello Stato, entità collettiva astratta e onnipresente come un dio geloso. Uno Stato che oltre alla devozione, si regge sulla delazione e, laddove è possibile, sulla rieducazione. Ogni individuo è posto a guardia della propria coscienza e di quella altrui.


Altro aspetto fondamentale dello Stato è una lugubre burocrazia che si riproduce grazie alle ambizioni dei singoli, unico elemento da preservare dell'individualità, finalizzato però alla completa devozione al dio geloso. Singoli che più salgono nella scala gerarchica, più diventano ottusi e vuoti, "levigati", come li definisce Kall, descrivendo con ammirazione una donna ministro.

 

Nel romanzo, la Boye alterna atmosfere inquietanti e soffocanti, a situazioni kafkiane grottesche, quasi comiche, per sottolineare maggiormente lo stress a cui sono sottoposti e si sottopongono "volontariamente" i personaggi, per dimostrare di essere all'altezza delle aspettative (esiste, infatti, una sorta di obbligo al Servizio Sacrificio Volontario, praticamente uno dei soliti ossimori totalitari, noi potremmo scorgerci una metafora con qualcosa di molto attuale). 


In questo contesto si inserisce la vicenda della kallocaina, siero della verità da iniettare, e che induce gli individui ad aprire completamente la loro mente, a non nascondere nulla, persino i pensieri più reconditi. Sostanza che facilita, inoltre, ancor più la delazione, anche se il fine ultimo è il controllo dei pensieri, perché il controllo dei comportamenti e della parola non basta più, non è sufficiente a modellare la loro fedeltà. Nulla deve sfuggire al dio Stato.


Si svolgono addirittura riunioni collettive a tema per rendere più efficace la propaganda volta alla manipolazione e alla persuasione, che renda superfluo persino il ricorso a ogni forma di costrizione, e che infranga così ogni resistenza. 

Si collabora tutti, insomma, reciprocamente, al controllo sociale gli uni degli altri. Perché nel momento in cui muore ogni volontà individuale, ogni velleità di anteporre l'individuo alla collettività, verrebbe meno la necessità dell'obbligo e dei divieti, e la kallocaina dovrebbe aiutare a raggiungere questo obiettivo utopico.


La conseguenza principale è il varo di una legge contro la mentalità anti Stato, atta a considerare reato i pensieri "asociali" che la Kallocaina fa emergere. 

Tuttavia, emerge un problema non da poco: l'effetto collaterale a questo grande esperimento di massa non è fisico, è morale, riguarda non solo chi ne viene sottoposto, ma anche chi inietta e chi ne controlla gli effetti: un aumento esponenziale della paura e dell'angoscia, della paranoia, che però finiscono per insinuare il dubbio e causare la percezione di un gran senso di solitudine, mentre si fa strada nella coscienza la verità sul Potere e sul suo contrario: l'Amore. Ed emerge anche un'altra verità.


La scrittrice svedese pubblicò "Kallocaina" otto anni prima dell'uscita di "1984" di Orwell, e un anno prima della sua morte per suicidio. Le tante affinità tra i due romanzi possono far pensare che il primo sia stato una fonte di ispirazione per il secondo. Non sono riuscito a sapere se fu effettivamente così, o se sia, invece, una coincidenza dovuta all'atmosfera culturale e alla situazione sociale tipiche degli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale.

Non è affatto improbabile, però, che "Kallocaina" sia capitato anche tra le mani dello scrittore inglese.


Tuttavia, oltre alle affinità, ci sono le differenze, che sono tante, sia nella natura delle due distopie: non c'è un Grande Fratello, anche se ci sono tecniche di sorveglianza, al suo posto c'è lo Stato; quello di Orwell è un totalitarismo assolutamente esterno ed eterno, quello della Boye, al contrario, interno alla coscienza dei singoli. Sia soprattutto nell'epilogo, che svela gradatamente, ma chiaramente a noi lettori, quale sia effettivamente la realtà, niente affatto come qualcosa di definito, definitivo e irreversibile. La speranza non è nei prolet, ma in ogni singolo individuo.

giovedì 16 marzo 2023

Perigeo "Abbiamo tutti un blues da piangere" (1973)


Storia del rock

Perigeo

"Abbiamo tutti un blues da piangere" (1973)


C'è stata un stagione musicale, che nel suo meglio si risolse pressoché in un decennio, e che vide il fiorire e lo svilupparsi di un filone molto creativo: la stagione legata al jazz rock e al suo incontro con il progressive.

Grande responsabilità in questo fermento lo ebbe senza dubbio la svolta artistica di Miles Davis, che con quell'album di rottura epocale che fu "Bitches Brew", diede la stura ad una tendenza musicale, che alla fine, comunque, sicuramente si sarebbe espressa anche a prescindere dalle sue scelte.


Un filone stilistico che discende direttamente da "Bitches Brew" è quello a cui fece riferimento fin dalla nascita il gruppo del Perigeo. Suggestioni e tendenze che si ispiravano esplicitamente ad esperienze anche molto differenti, quali quella dei Weather Report da una parte e quella dei Soft Machine dall'altra.


Ed era nella sintesi di questi due modi di interpretare la lezione davisiana che si muoveva il Perigeo, un terreno fatto di jazz rock coniugato con la creatività progressive. Un substrato che in quegli anni era estremamente facilitato dalla situazione musicale e culturale in cui si muoveva una buona parte dei musicisti italiani in ambito rock.


La genialità e l'originalità dell'operazione Perigeo stava appunto nell'italianizzazione di una formula molto interessante e particolare, che seppure aveva nel jazz rock e nel progressive i settori musicali di riferimento, riusciva ad evolversi nella ricerca di un linguaggio sonoro abbastanza inedito, con incursioni tutt'altro che timide nella tradizione popolare musicale italiana e persino in quella del mediterraneo.


Non tragga in inganno la provenienza dei musicisti tutti di ambito strettamente jazz (neanche jazz rock), musicisti con conoscenze musicali notevoli e con alle spalle collaborazioni illustri. Anzi, furono proprio queste conoscenze che permisero loro di cogliere il momento di trasformazione, e di conseguenza di sintetizzare, con particolare sensibilità, una serie di influenze che saranno fondamentali nella formazione del "Perigeo sound".


"Abbiamo tutti un blues da piangere", secondo album della loro esperienza musicale, è senz'altro quello che racchiude meglio e in maniera più articolata la loro opera. Qui i cinque musicisti (Giovanni Tommaso, basso; Franco D'Andrea, tastiere; Claudio Fasoli, sax; Bruno Biriaco, batteria; Tony Sidney, chitarra) misero insieme delle composizioni quasi perfette, di una resa sonora cristallina, che andavano dalla gioia intensa ad una calda malinconia, emozioni espresse nella migliore tradizione blues. Un blues, che non ha tratti canonicamente distinguibili, ma, ed è quello che più conta nel blues, si esprime scolpendo direttamente nell'anima.

martedì 14 marzo 2023

"Diabolik" (1968)

CULT MOVIE

"Diabolik" (1968)

Regia di Mario Bava


Con: John Phillip Law, Marisa Mell (doppiata da Rita Savagnone), Michel Piccoli (doppiato da Gigi Proietti), Adolfo Celi, Claudio Gora, Terry Thomas, Renzo Palmer, Carlo Croccolo, Lucia Modugno.

Musiche di Ennio Morricone

Effetti speciali: Carlo Rambaldi e Mario Bava


Mario Bava aveva il potere di catturarti e di trasportarti immediatamente in un'altra realtà, fossero atmosfere horror, thriller, noir o di fantascienza. Guardare i capolavori di Bava è come ascoltare una sinfonia o una suite. Non sono film normali, la cui bellezza possa esaurirsi nel corso di un'unica visione. Anche se bistrattato, il suo cinema è parte integrante del cinema dei grandi maestri, da studiare nei minimi particolari. E il suo "Diabolik" non fa certo eccezione.


Eccessivo, divertente, ironico, psichedelico, futurista, visionario, politicamente scorrettissimo, non solo per gli standard dell'epoca, con una tensione notevole, un film volutamente ingenuo e sempre sopra le righe, fedelissimo al fumetto delle sorelle Giussani, ma che va oltre, passando dal bianco e nero a un colore abbagliante. Anticipatore di mode, film, anche di animazione, e idealmente vicino a certi fumetti (Manara, Pratt, Crepax, i Bonelli).


L'estro del regista si esprime qui pienamente, attraverso la realizzazione di un'originale versione del mito del Re del Terrore, e il risultato è uno dei migliori film di estetica pop art degli anni sessanta. A tratti, prende l'aspetto di una vivida allucinazione onirica, con elementi fortemente perturbanti.

È liberamente tratto da tre episodi del criminale in calzamaglia: "Sepolto vivo!", "Lotta disperata" e "L'ombra della notte".


Rilevanti le interpretazioni di una sensualissima Marisa Mell, nei panni di Eva Kant, e quella di John Phillip Law, col suo sguardo di ghiaccio, in quelli di Diabolik, ma anche di Michel Piccoli nella parte di Ginko e di Adolfo Celi in quella di Valmont. Un cast di attori nel suo complesso di grande spessore.

Incantevoli i costumi indossati dalla coppia di criminali. Alcune sequenze sono da manuale e nulla hanno da invidiare ai migliori James Bond. 


Gli effetti speciali di Rambaldi e le musiche di Morricone conferiscono al film un tocco di classe in più. Tutt'altro quindi che un semplice b-movie.

Mi spiace dirlo, ma il pur più che discreto remake dei Manetti Bros. del 2021 non regge il confronto, nonostante l'ottima interpretazione di Valerio Mastandrea nei panni dell'ispettore Ginko.

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

  Cinema Cult movie “Otello” (1951) regia di Orson Welles con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier. «Fosse pia...