lunedì 29 gennaio 2024

Dino Buzzati, “Il segreto del Bosco Vecchio” (1935)


 Consigli di lettura


Classici


Dino Buzzati, “Il segreto del Bosco Vecchio” (1935)


«Piacquemi, in quel di Fondo, pascere la mia vista di una mirabile visione; visitai una ricca foresta, che quegli alpigiani denominano Bosco Vecchio, singolare per l'altezza dei fusti, superanti di gran lunga il campanile di San Calimero. Come io ebbi a notare, quelle piante sono la dimora dei geni, quali trovansi anche in boschi di altre regioni. Gli abitanti, a cui chiesi notizia, pareano ignari. Credo che in ogni tronco sia un genio, che di raro ne sorte in forma di animale o di uomo. Sono esseri semplici e benigni, incapaci di insidiare l'uomo.»


«In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi. È impossibile stabilire precisamente quando, e non ci sono sintomi appariscenti che ne diano preavviso. Lo si capisce da qualcosa di speciale che in quelle occasioni c'è nell'atmosfera. Molti uomini, la maggioranza anzi, non se ne accorgono mai. Altri invece l'avvertono subito. Non c'è niente da insegnare al proposito. È questione di sensibilità: alcuni la posseggono di natura; altri non l'avranno mai, e passeranno impassibili, in quelle notti fortunate, lungo le tenebrose foreste, senza neppur sospettare ciò che là dentro succede.»


«Questo fenomeno, finora poco studiato, si verifica in qualsiasi bosco, campagna, forra, pascolo o palude: animali e piante manifestano una speciale vitalità quando si trovano in compagnia di bambini e le loro facoltà di espressione si moltiplicano tanto da permettere veri e propri colloqui. Basta però la presenza di un solo uomo adulto a rompere questa specie di incanto.»


“Il segreto del Bosco Vecchio” esce per la prima volta nel 1935. Dino Buzzati è giovane, ha ventinove anni. 

Ci troviamo al cospetto del suo secondo adorabile romanzo, una storia di genere fantastico che parla di un bosco incantato. Pura evasione, allora? Non proprio. 

Tutto ha inizio in modo apparentemente realistico con un’eredità di cui il colonnello Sebastiano Procolo viene in possesso: il Bosco Vecchio e la relativa casa: una suggestiva magione. 


L’andamento del romanzo è lineare e costante, è quello della fiaba, in cui poco alla volta la dimensione fantastica prende possesso della realtà.

Il Bosco ha delle origini molto particolari e può godere della sollecita protezione degli abitanti dei dintorni, quelli della Valle del Fondo.


La realtà si tramuta in sogno con grande e poetica naturalezza. Il mondo del colonnello si popola di animali parlanti e di strane creature. Nulla viene a turbare l’incanto della prosa di Buzzati.

Il dolce incedere della fiaba è spiazzante. Il tempo si dilata per comprendere il misterioso passato del Bosco.


Questa breve novella potrebbe essere, in definitiva, interpretata come un apologo ambientalista contro il disboscamento e la manipolazione sulla natura e sull’umano, con protagonisti anche alberi secolari e genî protettori del bosco, titolari di un singolare vincolo di tutela, gufi e ombre parlanti e creature fantastiche come il vento Matteo e il vento Evaristo, quest'ultimo portatore del “Bollettino Segnalazioni”, un servizio orale di diffusione di notizie fantastiche che interessano la regione del bosco. 


Dai toni epici, poetici, ma anche ironici e spassosi, è caratterizzata la battaglia tra i due vènti per la conquista della Valle.

Apocalittico è invece l'assalto degli icneumoni ai bruchi che stanno divorando il bosco, descritto da Buzzati similmente a un girone dell’Inferno dantesco.

Un velo di malinconica suggestione avvolge ogni pagina del libro.


È, in ogni caso, anche una parabola sulla nostalgia dell’infanzia e della perduta innocenza. L’immagine dei bambini del bosco che cantano e giocano su “La Spacca" ha veramente molto di bucolico.

Sebastiano Procolo, infatti, è lo zio di Benvenuto, un bambino, a cui il colonnello fa da tutore e che ha ereditato un bosco più grande, anche se non ha nulla di magico. Tuttavia, proprio per questo suscita il disappunto del colonnello che la vive come un'ingiusta disparità di trattamento. Lui se ne fa ben poco di un bosco magico di cui non può disporre pienamente e per giunta più piccolo.


Di straniante bellezza è il dialogo tra il colonnello Procolo e il vento Matteo, durante il quale stipulano un patto. 

Può sembrare che la novella di Buzzati abbia delle affinità con buona parte dello spirito che aleggia sul “Signore degli Anelli”, ma è stato pubblicata prima del capolavoro di Tolkien, e anche “Lo Hobbit” fu pubblicato la prima volta solo nel 1937. Si potrebbe forse immaginare che le fonti di ispirazione siano le stesse. Il periodo è inequivocabilmente lo stesso.


La mia è solo una sensazione, magari del tutto soggettiva, ma non credo sia casuale l’accostamento in questo caso tra Buzzati e Tolkien, perché condividono entrambi una critica alla modernità, che non è reazionaria, ma colma di nostalgia per un tempo che si va dissolvendo. Nel caso di Buzzati, ne “Il segreto del Bosco Vecchio” ciò è rappresentato essenzialmente dagli alberi che affondano le loro radici nel terreno incontaminato, a testimonianza delle radici degli uomini che vengono da un mondo passato che si sta dissolvendo.


Il colonnello è la personificazione delle forze oscure che contribuiscono al degrado di questo universo, su di lui fanno presa i desideri funesti che si aggirano in questo mondo. È un fosco signore dalle sembianze banali, ma che agisce pur sempre nel male. Ciononostante, non è affatto un Sauron, e leggendo il racconto si avrà modo di scoprirlo.


Oltre a Tolkien, comunque sia, non può non venire spontaneo l’accostamento con l’altro grande maestro del fantastico del novecento italiano: quel Tommaso Landolfi, che molte caratteristiche narrative ha in comune con Buzzati, a cominciare dalle atmosfere surreali e impalpabili e alle non poche evidenti analogie nella narrazione.

Si possono inoltre rintracciare analogie anche col Ray Bradbury del “Popolo dell’autunno”, ma siamo già in un’altra epoca.


La dissoluzione è costante, ed opera sempre più nel nome di un progresso tecnologico, priva l’uomo della sua essenza. Proteggere gli alberi vuol dire ricordarsi delle nostre radici, da dove veniamo, e cercare di preservarle, di preservare la barriera naturale che ci protegge. Abbattere gli alberi vuol dire distruggere l’essenza del Bosco e di conseguenza quella dell’umanità. 


Nel descrivere questa dissoluzione, Buzzati ci mostra anche l’incupirsi dell’atmosfera circostante che sfuma sempre più nell’oscurità. Scendono le tenebre e arriva la tempesta. Sogno e incubo si rincorrono in continuazione nel corso del romanzo.

I terrori della notte nel Bosco Vecchio, un vero e proprio labirinto sono tra le pagine più cupe e meravigliose della novella.


L'apologo apparentemente solo ambientalista, assume le sembianze simboliche di qualcos’altro: di un mondo alla deriva senza più identità, alienato dal proprio essere, privato dell’equilibrio, che serve a costruire anche il senso comunitario di tanti spiriti della natura, di genî, che incarnano di volta in volta, uomini e animali, ma per lo più che rappresentano lo spirito individuale dell'umano che si inaridisce e che rischia di volare via disperso dal  vento.

Buzzati però non cede alla tentazione di trasformare la storia in una nera fiaba gotica. La salvezza, la redenzione e la ricomposizione, nonostante tutto, sono ancora lì a portata di mano.

venerdì 26 gennaio 2024

Jeffrey Veidlinger, “L’olocausto prima di Hitler. 1918-1921” (2021)



Consigli di lettura


Jeffrey Veidlinger, “L’olocausto prima di Hitler. 1918-1921” (2021)


«I pogrom che ne derivavano erano pubblici, partecipativi e ritualizzati. Avevano spesso luogo in un’atmosfera carnevalesca di balli e canti in stato di ebbrezza; la folla consentiva una condivisione della responsabilità, attirando cittadini perbene e persone comuni che in circostanze diverse forse non avrebbero preso parte agli avvenimenti. Spesso era proprio la partecipazione di conoscenti stretti, clienti fidati e amici di famiglia ad amareggiare ancora di più le vittime, instillando in esse un senso di impotenza e alienazione, un trauma che durava più a lungo delle ferite fisiche. A conflitto inoltrato, la violenza divenne sempre più organizzata e metodica, attuata da unità militari che agivano su ordine diretto. Questi attacchi ripetuti non avevano alcuno scopo militare ma esprimevano piuttosto la convinzione che la popolazione civile ebraica fosse una minaccia esistenziale al nuovo ordine politico, sociale ed economico. Per le vittime angosciate, le quali avevano sperato che l’esercito le difendesse e ristabilisse la legge e l’ordine, gli attacchi rappresentarono un enorme tradimento.»


«I bolscevichi li disprezzavano in quanto nazionalisti borghesi; i nazionalisti borghesi li bollavano come bolscevichi; gli ucraini li ritenevano spie della Russia; i russi li sospettavano di essere simpatizzanti dei tedeschi e i polacchi dubitavano della loro lealtà verso la neonata Repubblica polacca.»


«I tedeschi, i tedeschi di ferro con i catini sulla testa, erano apparsi a Kiev con il feldmaresciallo Eichhorn e una splendida fila di carri tutti allineati. Partirono senza il feldmaresciallo, senza i carri e perfino senza mitragliatrici. I contadini furiosi avevano tolto loro tutto quanto.» 

Michail Bulgakov


«Molti erano convinti che fosse giunto il momento di vendicarsi degli eccessi dei tribunali bolscevichi, della polizia segreta sovietica, del furto della loro terra e del loro grano, della chiusura delle loro chiese e dell’uccisione dei loro giovani. La propaganda tedesca, facendo rivivere temi che erano stati imperanti durante la guerra civile, convinse tanti a incolpare gli ebrei. Coloro che avevano vissuto i pogrom avevano visto ciò che era possibile in un’epoca di guerra totale. Perfino nel cuore dell’Europa civile.»


È inutile sottolineare che questo saggio è caldamente consigliato a chiunque voglia approfondire una pagina di storia fondamentale per la comprensione delle cause dello sterminio nazista degli ebrei, questa è una delle molteplici cause che contribuirono all’Olocausto.

L’idea nasce all’autore, quando era ricercatore e conduceva interviste ad anziani di lingua yiddish in Ucraina. 


È facile, quindi, comprendere perché la sua analisi è soprattutto limitata ad un territorio e ad un periodo storico; e di conseguenza, non va assolutizzata in senso più esteso, ma compresa per le connessioni legate a quello stesso contesto. L’autore ha preferito, quindi, concentrarsi su un tema ben preciso, e su quanto questo ebbe una ricaduta importante e per dei versi determinante sulla Shoah.


Tra il 1918 e il il 1921 nel cuore dell’Europa dell’est, furono organizzati pogrom e violenze contro le popolazioni ebraiche, come sconsiderata reazione alla miseria che colpì quella zona dopo la Prima Guerra Mondiale.

Se alla base, però, non ci fosse stato il pregiudizio antigiudaico cristiano vecchio di millenni sul “popolo deicida”, la costruzione del capro espiatorio probabilmente non sarebbe stata possibile, o avrebbe incontrato molto meno consensi. Il retroterra culturale in quelle zone era fondato su questo paradigma.


È Jeffrey Veidlinger l’autore di questo prezioso saggio che ricostruisce quelle vicende, storico, docente di Storia e Studi giudaici alla University of Michigan, presidente del consiglio consultivo accademico del Center for Jewish History e membro del comitato esecutivo dell’American Academy for Jewish Research, appartenente alla comunità ebraica dell’Europa dell’est.


«Tra il novembre 1918 e il marzo 1921, nel corso della guerra civile che seguì il primo conflitto mondiale, furono documentate più di mille sommosse e azioni militari antiebraiche (entrambe comunemente definite pogrom) in circa cinquecento località diverse in tutto il territorio dell’odierna Ucraina, all’epoca conteso fra russi, polacchi, ucraini e lo Stato multinazionale sovietico successore degli imperi russo e austro-ungarico.»


È una fetta di Storia rimossa e quasi dimenticata, che spesso non viene neppure citata, e che Veidlinger pone giustamente all’origine di ciò che faciliterà l’orrore dell’Olocausto. 

Contadini ucraini, cittadini polacchi e soldati russi furono tra i protagonisti di questo orrore. Le cifre delle vittime sono controverse. Ma una stima approssimativa recente dà per certo che, in quel triennio, gli ebrei morti furono più di centomila.


La ricostruzione delle vicende non è affatto semplice, complicata da tanti fattori che si intersecano e interagiscono. Veidlinger, attingendo a un numero assai ragguardevole di fonti, lo fa con molta accuratezza.

Allo stesso modo è assai complicato fare una recensione del libro adeguata ed esauriente. Ero tentato di dilungarmi, è stato molto difficile contenermi e fare una recensione più corta, tanta è la complessità del tema e degli avvenimenti trattati.

Il libro è diviso in cinque parti, e ogni parte meriterebbe una recensione a sé.


Seicentomila furono i profughi costretti a fuggire all’estero e milioni gli sfollati. 

«I pogrom traumatizzarono le comunità colpite per almeno una generazione e fecero scattare l’allarme in tutto il mondo.»

Si parlò già all’epoca con inquietante predizione di sei milioni di ebrei a rischio, questo circa vent’anni prima dell’Olocausto. Tanti erano quelli, infatti, che abitavano nei territori di Polonia e Ucraina.


«Gli storici hanno cercato spiegazioni all’Olocausto nell’antigiudaismo teologico cristiano, nelle teorie razziali del XIX secolo, nell’invidia sociale, nel conflitto economico, nelle ideologie totalitarie, nelle politiche governative che stigmatizzavano gli ebrei e nei vuoti di potere creati dal crollo statale. Ma di rado hanno fatto risalire le radici dell’Olocausto alla violenza genocida perpetrata contro gli ebrei nella stessa regione in cui la «soluzione finale» avrebbe avuto inizio di lì a soli due decenni.»


La cosa impressionante è la partecipazione popolare ai pogrom, che non furono solo manifestazioni spontanee della furia di contadini e di cittadini, furono azioni militari programmate.

Le reazioni violente contro gli ebrei trovano spiegazione anche nel fatto che a loro vennero attribuiti, tra le altre cose, i soprusi di anni di bolscevismo, le sue azioni di repressione, di saccheggio e di esproprio nei confronti di quelle popolazioni.


Le cose furono di molto peggiorate dall’intervento dell’Armata dei Bianchi. I Bianchi non erano certo poveri contadini, facevano parte della colta aristocrazia russa, che aveva come modello la cultura occidentale, ma anche il tradizionalismo religioso ortodosso, nonché lo sciovinismo russo di stampo zarista.

Si prodigarono molto nella propaganda antisemita, con mille opuscoli, volantini e manifesti, diffondendo perfino il famigerato falso de “I Protocolli dei Savi di Sion”.


E quando i tedeschi arrivarono in quei territori trovarono terreno fertile a favore dell’antisemitismo nazista, e fu più facile poter realizzare il progetto criminale che avevano pianificato, con tanti solleciti collaborazionisti e carnefici su cui poter contare.

Fu proprio l’Olocausto stesso per la sua enormità che consentì ai pogrom del ‘18 - ‘21 di essere dimenticati, relativizzandone la portata.


L’autore ci offre inoltre un excursus storico, geopolitico e sociale di ciò che era quella parte di Europa all’epoca; sulla numerosa presenza ebraica, assai composita e diversificata; su quanto peso abbia avuto la Russia, sia prima che dopo la rivoluzione; e sul devastante conflitto postbellico sul suolo ucraino, che vide appunto protagoniste soprattutto Russia, Polonia e Ucraina stessa. 


Grande Guerra compresa, «tra il 1914 e il 1921, l’Ucraina perse quasi il venti per cento della sua popolazione totale. La tormentata storia della regione si riflette negli appellativi che le hanno dato gli studiosi: «terre di sangue», «zona di frattura degli imperi», «terre di mezzo», «nessun luogo».»


Alcuni di questi fatti si trovano già citati, per esempio, nel grande capolavoro di Israel Joshua Singer “I fratelli Ashkenazi”. Qui vengono approfonditi e analizzati nel dettaglio, aggiungendo svariati altri episodi.

Parallelamente, l’autore ricostruisce la storia di pregiudizi, stereotipi e persecuzioni nei confronti del popolo ebraico, anche se «in tempi normali, i rapporti tra ebrei e cristiani erano pacifici, a volte perfino amichevoli.»


Significative sono le pagine dedicate al breve tentativo di autodeterminazione degli ucraini attraverso una Repubblica popolare democratica e socialista, con la coraggiosa esperienza libertaria del parlamento della Rada, in cui la tolleranza verso le minoranze etniche e religiose doveva essere il maggiore pilastro. Repubblica che chiedeva l’autonomia e condannava il golpe bolscevico. 

Agli ebrei non sarebbe stato riconosciuto solo il diritto di vivere in comunità, ma anche l’identità come popolo.


Il “paradosso” di questi pogrom, infatti, fu che si verificarono in un paese in cui era insediato «il medesimo governo che, appena un anno prima, era stato il primo al mondo a concedere diritti nazionali al popolo ebraico; il medesimo governo che, solo pochi giorni prima, era stato salutato come foriero di una nuova epoca per gli ebrei nella diaspora; il medesimo governo che aveva promesso di inaugurare una nuova era di pace e sicurezza per l’Ucraina. Fu un momento spartiacque, la dimostrazione, per gli ebrei dell’Ucraina e per il mondo, che perfino un governo fondato sul principio dei diritti delle minoranze e dell’autonomia nazionale non era in grado di proteggere gli ebrei dalla violenza.» Questo fin quando non avrebbero potuto avere una loro patria sulla quale poter contare.


“L’olocausto prima di Hitler” è estremamente documentato, Veidlinger dedica un intero capitolo a spiegare e a citare le sue fonti; ed è anche corredato da numerosissime note.

Una delle maggiori fonti è la documentazione lasciata dal Comitato centrale per gli aiuti alle vittime dei pogrom, e il suo principale fondatore: il cooperante e attivista socialista sionista Nokhem Gergel. Poi, ci sono gli archivi municipali delle città in cui si svolsero i pogrom, con testimonianze dirette, e le pagine che scrissero in proposito alcuni autori ucraini.


Altra fonte è costituita dalla documentazione del Comitato editoriale per la raccolta e pubblicazione di materiale sui pogrom in Ucraina, fondato da altri due socialisti sionisti. Questo «comitato raccolse testimonianze dirette da parte di vittime e testimoni, protocolli dalle varie commissioni, memorie, dichiarazioni ufficiali, ordini militari, ritagli di giornale, elenchi di vittime e fotografie.» 


Il tutto fu pubblicato in diversi periodi in una serie in sette volumi. Ma le raccolte e gli archivi che andarono a costituire tali memorie furono numerosi.

«A causa della situazione caotica sul territorio, il massiccio movimento di persone e le diverse interpretazioni su come contare e chi contare, probabilmente non giungeremo mai a un totale definitivo di vittime. Si può affermare, tuttavia, che nel complesso i pogrom del 1918-1921 siano stati la più grande catastrofe abbattutasi fino a quel momento sul popolo ebraico. E furono solo l’inizio.»

martedì 23 gennaio 2024

Dave Eggers - Valentino Achak Deng “Erano solo ragazzi in cammino” (2006)

 


Consigli di lettura


Dave Eggers - Valentino Achak Deng 

“Erano solo ragazzi in cammino” (2006)


«Questo libro è il racconto appassionato della mia vita, dal giorno in cui sono stato strappato alla mia famiglia a Marial Bai, ai tredici anni passati nei campi profughi del Kenya e dell'Etiopia, fino al mio incontro con le esuberanti culture dell'Occidente, ad Atlanta e altrove.

Leggendo queste pagine verrete a conoscenza dei due milioni e mezzo di individui morti nella guerra civile del Sudan. Quando il conflitto cominciò io ero solo un ragazzo. Essere umano giovane e indifeso, sono sopravvissuto attraversando a piedi numerosi territori inospitali, mentre tutti noi venivamo bombardati dalle forze militari governative, scavalcavamo mine e diventavamo preda di bestie feroci e uomini assetati di sangue. Ho mangiato frutti sconosciuti, erbe, foglie, carcasse di animali e a volte nulla per giorni interi. In certi momenti le difficoltà mi sono sembrate insostenibili. Sono arrivato a odiare me stesso e a desiderare di togliermi la vita. Parecchi tra i miei amici e migliaia e migliaia di miei connazionali non sono usciti vivi da queste traversie.»

Valentino Achak Deng, Atlanta, 2006.


«Oltrepassai villaggi che non esistevano più, superai autobus anneriti dalle fiamme, mani e volti ancora premuti contro i finestrini. "Maledetti tutti voi. Maledetti i vivi, maledetti i morti".»


«Noi profughi possiamo essere celebrati un giorno, aiutati e sostenuti, e poi completamente ignorati da tutti nel momento in cui ci dimostriamo una seccatura. Se ci capitano dei guai, qui, è sempre colpa nostra.»


«… mi toccò le guance come avrebbe fatto una madre, e io crollai. Fu come se le ossa non mi reggessero e caddi a terra. Ero di fronte a lei, in singhiozzi, le spalle che sussultavano, i pugni che tentavano disperatamente di ricacciare indietro le lacrime che mi sgorgavano dagli occhi. Non ero più capace di reagire a quel genere di gentilezza. La donna mi attirò al suo petto. Erano mesi che nessuno mi toccava. Mi mancava l'ombra di mia madre, ascoltare i suoni del suo corpo. Non mi ero reso conto del freddo che avevo patito in tutti quei mesi. Quella donna mi fece dono della sua ombra e io avrei voluto vivere entro il suo cono fino a quando non fossi riuscito a tornare a casa.»


“Erano solo ragazzi in cammino” (titolo originale “What is the What”) è un libro straordinario. È una via di mezzo molto originale tra romanzo e autobiografia, che ha come tramite la penna di Dave Eggers, e il risultato è eccellente.

Uscito nel 2006, “Erano solo ragazzi in cammino” conserva tutta la sua attualità. Valentino Achak Deng, profugo dinka del Sudan, detta le sue memorie allo scrittore americano e questi si limita a trascriverle, aggiungendo solo alcuni elementi di fiction. 


Eggers ha offerto la sua opera gratuitamente e insieme al protagonista hanno deciso che «tutti i proventi di questo libro andranno: alla Valentino Achak Deng Foundation, che assegna fondi ai rifugiati sudanesi in America; alla ricostruzione del Sudan meridionale, a cominciare da Marial Bai; alle organizzazioni umanitarie che lavorano per la pace in Darfur; all'istruzione universitaria di Valentino Achak Deng.»


Il libro si inserisce nel contesto delle vicende terribili di una storia spesso dimenticata, che si va ripetendo più volte nel corso degli ultimi settant'anni circa. È ambientato entro un arco temporale ben preciso, quella parte del conflitto che iniziò nel 1983 e al quale si pose momentaneamente fine nel 2005: la Seconda guerra civile in Sudan, che seguì la Prima, svoltasi tra il 1955 e il 1973, per riprendere poi più volte di nuovo, tra una pausa e l'altra, come un tremendo inferno senza fine. Bisogna quindi tenere ben presente che qui la vicenda si ferma al 2006. Tuttavia, l’idea che offre di un contesto e delle annesse sofferenze è più che sufficiente per potersene fare una chiara idea.


Una terribile storia quasi del tutto ignorata dai media e dalle piazze occidentali. Una storia fatta di milioni di morti, di profughi e di sfollati, di razzismo, di schiavismo, pratica vecchia di secoli, a cui è sottomessa la popolazione del Sud Sudan dagli arabi del nord del governo del Fronte Nazionale Islamico e del famigerato Al-Bashir, di traffici, di violenze e di stupri annessi a tale pratica, della deportazione di uomini, donne e bambini, di durissimi conflitti tribali e interetnici.


Il casus belli si determinò con la ribellione e con la spinta all’indipendenza del sud cristiano e animista, contrapposto al nord a maggioranza musulmano. Questo dopo l’abbandono degli inglesi nel 1953, che evitarono di tracciare il confine tra i due Sudan, convinti a non farlo dagli egiziani, interessati ad unico Sudan a dominio arabo musulmano.

Nel 1983 il governo nazionale islamista impose la sharija a tutto il paese, da qui partì di nuovo la ribellione del sud.


Tutti questi conflitti si intrecciarono inoltre con quello altrettanto terribile nel Darfur, con pulizia etnica, che all'epoca dell’uscita del libro era ancora agli inizi, con pulizia etnica annessa nei confronti della popolazione non musulmana,

e con gli altri conflitti dell’intera area geografica.

Il resoconto di Valentino Achak Deng, sudanese cattolico, si riferisce più che altro alla seconda guerra civile. 


Il protagonista narra della sua fuga come profugo, della vita nei campi di altri paesi africani e dell’arrivo negli USA delle illusioni e delle speranze. Del suo amore per Tabitha, conosciuta nel grande campo profughi di Kakuma in Kenya, e che ritroverà poi in America, e del profondo legame d'amicizia, con Achor Achor, conosciuto in Etiopia quando erano bambini, approdato con lui in America, e con il quale divide l’appartamento. 


Il gruppo di Valentino Achak è noto come i Ragazzi Perduti del Sudan.

«Ragazzi Perduti è un appellativo poco gradito a molti e tuttavia in fondo appropriato. Siamo fuggiti o siamo stati portati via dalle nostre case, in molti casi da orfani, e migliaia di noi hanno vagabondato per deserti e foreste per quelli che sono sembrati anni. Siamo soli da diversi punti di vista e non sappiamo bene dove siamo diretti.»


Il libro, però, si apre con il traumatico episodio della rapina e delle violenze inflitte a Valentino Achak da parte di due afroamericani, nel suo attuale appartamento ad Atlanta, malmenato e insultato, usando anche epiteti razzisti. Un trauma che vive come crudelmente paradossale, ma che gli permette di fare connessioni inaspettate con la sua storia.


Uno spaccato inedito che demolisce parecchi stereotipi, che ci dà la possibilità di osservare le dinamiche di isolamento della comunità sudanese di allora in America, caratterizzata anche da conflitti interni, di ricostruire l’odissea di queste persone, le usanze tribali, la grande ingenuità e il successivo disincanto, fino al 2006. 


Valentino Achak, legato mani e piedi, finisce per essere prigioniero nel suo stesso appartamento e il suo guardiano è un bambino a cui immagina di raccontare le  vicende che lo hanno portato fino ad Atlanta. E inizia da quel punto in poi a narrare, partendo dall’infanzia nel suo villaggio natale di quindicimila anime nel Sudan meridionale.


L’autobiografia romanzata, con il fluire della narrazione, sfuma nel romanzo storico sociale. E il racconto, dopo la parte introduttiva in cui il nostro protagonista racconta di quando aveva sei anni e della vita nel villaggio, prende maggiormente corpo quando le vicende personali si intrecciano coi concreti fatti storici e con le diversificate relazioni sociali.


Tutto ebbe inizio nel 1983 con l’approssimarsi della guerra, quando l’instabile equilibrio seguito all’accordo di Addis Abeba del 1972 che stabiliva una certa dose di autonomia al Sud Sudan, fu infranto definitivamente dalle pretese degli islamici, col governo di Khartum che voleva imporre la sharija al sud, e prendersi il petrolio, per accordarsi con la Chevron e con il sostegno di Bush padre e della Cina.


Valentino Achak descrive l’armonia che regnava a quel tempo nel suo villaggio tra i bovari arabi Baggara e i locali Dinka, cristiani e animisti. 

Con l'arrivo della guerra, quell’armonia si spezzò, i ribelli aumentarono e così nacque l’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese.

Un giorno, il suo villaggio, Marial Bai, venne devastato da un incendio dei governativi, cambiando per sempre la vita dei Deng. 


Achak assistette all'orrore portato da uno squadrone di arabi a cavallo, all'uccisione di amici, conoscenti e familiari. Marial Bai venne rasa al suolo, in quello che viene descritto come un vero e proprio pogrom. Lui, ancora bambino, riuscì a sopravvivere, compiendo una fuga rocambolesca.


E, da quel momento, tutto diventerà solo un continuo peregrinare, camminare e correre, per sfuggire a un cerchio che si chiuderà sempre più inesorabilmente, insieme ad altri centinaia di ragazzi e bambini, una ”Armata Rossa” affamata e senza armi al seguito dell'Esercito di Liberazione, diretti prima in Etiopia a Pinyudo, e poi in Kenya verso il campo profughi di Kakuma. 


Un terribile viaggio, un mostruoso inferno, in un mondo allo sbando, pieno di crudeltà e cinismo, proveniente anche da chi non se lo sarebbe mai aspettato.

Il  campo di Pinyudo degenerò presto in un regime fatto di soprusi determinati dall’arroganza dell’Esercito di Liberazione, i cui componenti non si dimostrarono essere assai migliori dei fondamentalisti islamici di Karthoum. L’orrore dei soldati bambini venne trasmesso e vissuto come una necessità, con annesso feroce addestramento.


La fuga dal campo di Pinyudo, inseguiti dai militari etiopi, colma di atrocità e sofferenze, è una delle pagine più dure del romanzo.

Tuttavia, la vita nel campo aveva riservato anche un periodo momentaneo di calma, di apprendimento con qualche piccola gioia. Valentino incontrò lì per la prima volta gli uomini bianchi. Conobbe il mondo femminile.

A Kakuma (nessun luogo, in lingua keniota), che arriverà ad ospitare fino ad ottantamila profughi, rimarrà invece dieci anni, fin quando, nel 2002, riuscirà a partire per gli USA.


Il soggiorno a Kakuma diventa l’esperienza formativa più importante nella sua vita di profugo, in considerazione del fatto che il periodo di tempo attraversato è quello della pubertà, dell’adolescenza e dell’inizio dell’età in cui si appresterà a diventare un giovane adulto. Ed è lì che si incrociano le varie etnie, e i conflitti conseguenti alla convivenza.

Il romanzo descrive molto bene le differenze etniche, le interazioni, un mondo molto complesso e con fragili equilibri.


Il punto di vista di Valentino Achang viene reso alla perfezione da Dave Eggers, sempre in perfetta sintonia col momento di vita narrato e con l'età in cui vive le sue esperienze. Lo scrittore americano usa degli espedienti narrativi per rendere la narrazione del sudanese molto suggestiva e assai commovente, mediante l’intersecarsi di linee temporali diverse e mediante i dialoghi immaginari e reali del protagonista con i personaggi che incontra nel presente. Il risultato è superbo, cosa che rende il romanzo ancora oggi attuale.

sabato 20 gennaio 2024

Léo Malet "La vita è uno schifo" (1947)



Consigli di lettura


Classici del noir


Léo Malet

"La vita è uno schifo" (1947)


“Aveva dieci anni. Mi sarebbe piaciuto avere dieci anni. La vita era uno schifo. La conferma veniva quotidianamente. Mi sarebbe piaciuto avere dieci anni. Non so perché ma mi sarebbe piaciuto avere dieci anni. Un immenso desiderio di avere dieci anni. La vita era uno schifo, era un ignobile e spaventoso ingranaggio, e noi tutti contribuivamo a perpetuarne la merda. I soldati erano schifosi, e noi pure. Maiali sanguinari da una parte e dall‘altra. Mi salì dalle budella un‘insopprimibile voglia di vomitare e balzai giù dall‘auto, con la rivoltella in pugno e con un ghigno suscettibile di provocare d‘un colpo solo l‘aborto di un esercito di donne gravide.”


“Mi svegliai con la fronte umida e le cosce appiccicose per la polluzione notturna. Quella notte l‘avevo avuta solo per me. Era stato troppo bello. Fui invaso da un‘immensa tristezza, che accentuò ulteriormente il livido albeggiare che stava entrando furtivamente in camera. Non mi piaceva lo spuntar del giorno, perché da molto tempo non avevo che risvegli da condannato a morte. Non amavo neppure il crepuscolo, che annunciava le tenebre che mi paralizzavano di terrore nella mia solitudine. M‘invase un‘immensa tristezza.”


“Si abbandonò. Colsi le sue labbra come un frutto delizioso e lo divorai affamato, e lei balbettò frasi indistinte e io dissi più volte «amore mio» come un lamento. E poi tutto si sconvolse e il mondo si trasformò meravigliosamente. Mi misi a gemere e a sospirare, fu come se mi dilaniassero le reni con un coltello, soffocai un grido d‘intensa felicità e, in un grande cataclisma, un sommovimento di terra, d‘acqua, di fuoco, di cielo e d‘inferno, il mio seme si sparse in fiotto torrentizio, un delizioso Niagara, portando con sé, in un vento d‘agonia voluttuosa, tutta la mia cattiveria e il mio odio, la mia ignominia e i miei pensieri più sporchi, e mi sentii puro, buono, affettuoso e dolce, disarmato e sensibile, e mi dissi che non era possibile che fossi stato così crudele, che era così piacevole essere buono e tenero, e posai la testa contro la testa del mio amore, mi persi fra i suoi capelli rossi, le baciai il lobo dell‘orecchio e poi lo morsi e unii il mio corpo al suo e singhiozzai dolcemente cucaracha mia, luce mia, oro dei mie occhi, la mia vita nei tuoi occhi, i tuoi seni, il tuo ventre, il tuo sesso, carne mia, seta e raso, figlia mia, amore mio, donna mia, inizio e fine, mia…”


Questo romanzo, pubblicato per la prima volta alla fine degli anni quaranta, è uno dei primi esempi di noir francese. Ed è ancora fonte di ispirazione per molti scrittori di quel particolare genere. È stato inserito successivamente all'interno della raccolta "Trilogie noire". È un inno al nichilismo anarchico, figlio delle folli teorie di Sergej Nečaev, il nichilista russo amico di Bakunin, e del travisamento della filosofia di Max Stirner. Pur non essendo un saggio, la sua lettura offre un’interpretazione politico, psicologico, filosofica di un fenomeno storico, che si è presentato più volte da circa centocinquant’anni a questa parte e che non può essere ridotto solo al banalizzante concetto di terrorismo anarchico.


Nel 1969 la trilogia fu pubblicata in Francia con la copertina di Magritte, in un volume unico dall’editore Eric Losfeld e dalla sua casa editrice “La Terrain Vague” (La Terra di nessuno), e non può sfuggire, a parer mio, il suggestivo richiamo  proprio la Nouvelle vague che in quel periodo furoreggiava. Il terzo capitolo era ancora inedito. Il nome della casa editrice lo ispirò André Breton. La trilogia divenne un caso letterario. Circondato da un alone culturale maledetto e mitico, influenzò e fu influenzato da un'intera area artistica, quella del surrealismo: letteratura, fumetti, cinema, pittura.


Il merito maggiore della pubblicazione andò però a Jean-Claude Rohmer che contattò Malet. All'epoca lo scrittore era già famoso per la serie poliziesca che aveva come protagonista il personaggio di  Nestor Burma.

Malet aveva ottenuto un gran successo, che lo portò ad essere influente su quasi tutta la produzione noir francese successiva, inserendosi anche nel filone classico del romanzo poliziesco d'oltralpe: i romanzi di Simenon col suo Maigret, la serie di Arsène Lupin di Maurice Leblanc, quella di Fantomas di Souvestre e Allain. Tutti un po' debitori di Eugène Sue e dei suoi “Misteri di Parigi”.


Léo Malet aveva perso il padre e il fratello a due anni e la madre a tre. Crebbe con il nonno, personaggio molto pittoresco, appassionato di letteratura. A sedici anni abbandonò Montepellier per Parigi. Si inserì negli ambienti anarchici parigini,  esperienza che ebbe un peso determinante sulla sua narrativa.

Nel 1931 conobbe André Breton che lo introdusse nel mondo del surrealismo e venne a contatto anche con Aragon e Prevert. 

Tuttavia, Malet non si limitò solo al noir e al poliziesco. Esplorò anche altri generi, come il romanzo di avventura.


In questo racconto lungo il protagonista è un anarchico individualista, Jean Fraiger, che fa parte di un gruppo politicizzato dedito al crimine e alle rapine per finanziare un singolare progetto rivoluzionario. In un crescendo di violenza, arriva a calarsi sempre più nel ruolo di folle disperato, e a condividere un'esasperata ed estrema visione dell'esistenza, che lo porterà progressivamente a perdersi all'interno del male in senso pieno e assoluto. 


Infatti, in quest'opera, Malet traspone, in maniera più che tangibile, tutta l'esperienza vissuta nell'anarchismo e nel surrealismo, e il dibattito interno al primo circa la scelta estrema di votarsi al crimine, condizionata ideologicamente dalla famigerata Banda Bonnot.


Una scelta dove appunto il male, per il protagonista, arriva ad incarnare paradossalmente l'ordine supremo. Si innamora di una donna, ma di un amore insano, estremo e narcisistico. C'è da dire inoltre che Malet, nel concepire questa storia, dà come l'impressione di essersi ispirato anche ai "Demoni" di Dostoevskij, non a caso ho citato più sopra Nečaev. Ci sono infatti molte affinità tra il suo Fraiger e lo Stavrogin del grande scrittore russo.


Il noir, nel contesto in cui viveva e operava lo scrittore francese, è la forma narrativa giusta per parlare di tutto ciò, con la sua moralità al di là del bene e del male e con le mille sfaccettature di cui è proprio il genere, in cui niente necessita di essere ricondotto ad un ordine preciso, come avviene nel romanzo poliziesco. 


Il noir è votato in qualche modo all'eversione, all'eresia più cupa, e quindi all'anarchia, è senza una direzione certa, segue delle strade tutte sue, che possono condurre da qualsiasi parte, privo di regole predefinite; il poliziesco, invece, va verso la ricomposizione, in cui in qualche modo, pure se in maniera distorta e a fatica, può  emergere alla fine un'idea di bene.


Opera dura, nihilista, violenta, pessimista, ma appunto mai moralista. Malet, che nella vita ha abbracciato, come ricordato, i principi base dell'anarchismo, con questo suo libro insegue un'idea tutta personale, in cui estremizza le sue posizioni, fino ad arrivare sulla soglia del nulla e della distruttività. 


È consapevole che alcuni atti portati a conseguenze ultime, sconfinano oltre la causa dell'ideale, per serrarsi senza via d'uscita alcuna in un'individualità cieca, nera e senza più speranza. Ma non c'è condanna in tutto questo, c'è solo l'amara e rassegnata constatazione che "La vita è uno schifo".


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