Consigli di lettura
Classici
Dino Buzzati, “Il segreto del Bosco Vecchio” (1935)
«Piacquemi, in quel di Fondo, pascere la mia vista di una mirabile visione; visitai una ricca foresta, che quegli alpigiani denominano Bosco Vecchio, singolare per l'altezza dei fusti, superanti di gran lunga il campanile di San Calimero. Come io ebbi a notare, quelle piante sono la dimora dei geni, quali trovansi anche in boschi di altre regioni. Gli abitanti, a cui chiesi notizia, pareano ignari. Credo che in ogni tronco sia un genio, che di raro ne sorte in forma di animale o di uomo. Sono esseri semplici e benigni, incapaci di insidiare l'uomo.»
«In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi. È impossibile stabilire precisamente quando, e non ci sono sintomi appariscenti che ne diano preavviso. Lo si capisce da qualcosa di speciale che in quelle occasioni c'è nell'atmosfera. Molti uomini, la maggioranza anzi, non se ne accorgono mai. Altri invece l'avvertono subito. Non c'è niente da insegnare al proposito. È questione di sensibilità: alcuni la posseggono di natura; altri non l'avranno mai, e passeranno impassibili, in quelle notti fortunate, lungo le tenebrose foreste, senza neppur sospettare ciò che là dentro succede.»
«Questo fenomeno, finora poco studiato, si verifica in qualsiasi bosco, campagna, forra, pascolo o palude: animali e piante manifestano una speciale vitalità quando si trovano in compagnia di bambini e le loro facoltà di espressione si moltiplicano tanto da permettere veri e propri colloqui. Basta però la presenza di un solo uomo adulto a rompere questa specie di incanto.»
“Il segreto del Bosco Vecchio” esce per la prima volta nel 1935. Dino Buzzati è giovane, ha ventinove anni.
Ci troviamo al cospetto del suo secondo adorabile romanzo, una storia di genere fantastico che parla di un bosco incantato. Pura evasione, allora? Non proprio.
Tutto ha inizio in modo apparentemente realistico con un’eredità di cui il colonnello Sebastiano Procolo viene in possesso: il Bosco Vecchio e la relativa casa: una suggestiva magione.
L’andamento del romanzo è lineare e costante, è quello della fiaba, in cui poco alla volta la dimensione fantastica prende possesso della realtà.
Il Bosco ha delle origini molto particolari e può godere della sollecita protezione degli abitanti dei dintorni, quelli della Valle del Fondo.
La realtà si tramuta in sogno con grande e poetica naturalezza. Il mondo del colonnello si popola di animali parlanti e di strane creature. Nulla viene a turbare l’incanto della prosa di Buzzati.
Il dolce incedere della fiaba è spiazzante. Il tempo si dilata per comprendere il misterioso passato del Bosco.
Questa breve novella potrebbe essere, in definitiva, interpretata come un apologo ambientalista contro il disboscamento e la manipolazione sulla natura e sull’umano, con protagonisti anche alberi secolari e genî protettori del bosco, titolari di un singolare vincolo di tutela, gufi e ombre parlanti e creature fantastiche come il vento Matteo e il vento Evaristo, quest'ultimo portatore del “Bollettino Segnalazioni”, un servizio orale di diffusione di notizie fantastiche che interessano la regione del bosco.
Dai toni epici, poetici, ma anche ironici e spassosi, è caratterizzata la battaglia tra i due vènti per la conquista della Valle.
Apocalittico è invece l'assalto degli icneumoni ai bruchi che stanno divorando il bosco, descritto da Buzzati similmente a un girone dell’Inferno dantesco.
Un velo di malinconica suggestione avvolge ogni pagina del libro.
È, in ogni caso, anche una parabola sulla nostalgia dell’infanzia e della perduta innocenza. L’immagine dei bambini del bosco che cantano e giocano su “La Spacca" ha veramente molto di bucolico.
Sebastiano Procolo, infatti, è lo zio di Benvenuto, un bambino, a cui il colonnello fa da tutore e che ha ereditato un bosco più grande, anche se non ha nulla di magico. Tuttavia, proprio per questo suscita il disappunto del colonnello che la vive come un'ingiusta disparità di trattamento. Lui se ne fa ben poco di un bosco magico di cui non può disporre pienamente e per giunta più piccolo.
Di straniante bellezza è il dialogo tra il colonnello Procolo e il vento Matteo, durante il quale stipulano un patto.
Può sembrare che la novella di Buzzati abbia delle affinità con buona parte dello spirito che aleggia sul “Signore degli Anelli”, ma è stato pubblicata prima del capolavoro di Tolkien, e anche “Lo Hobbit” fu pubblicato la prima volta solo nel 1937. Si potrebbe forse immaginare che le fonti di ispirazione siano le stesse. Il periodo è inequivocabilmente lo stesso.
La mia è solo una sensazione, magari del tutto soggettiva, ma non credo sia casuale l’accostamento in questo caso tra Buzzati e Tolkien, perché condividono entrambi una critica alla modernità, che non è reazionaria, ma colma di nostalgia per un tempo che si va dissolvendo. Nel caso di Buzzati, ne “Il segreto del Bosco Vecchio” ciò è rappresentato essenzialmente dagli alberi che affondano le loro radici nel terreno incontaminato, a testimonianza delle radici degli uomini che vengono da un mondo passato che si sta dissolvendo.
Il colonnello è la personificazione delle forze oscure che contribuiscono al degrado di questo universo, su di lui fanno presa i desideri funesti che si aggirano in questo mondo. È un fosco signore dalle sembianze banali, ma che agisce pur sempre nel male. Ciononostante, non è affatto un Sauron, e leggendo il racconto si avrà modo di scoprirlo.
Oltre a Tolkien, comunque sia, non può non venire spontaneo l’accostamento con l’altro grande maestro del fantastico del novecento italiano: quel Tommaso Landolfi, che molte caratteristiche narrative ha in comune con Buzzati, a cominciare dalle atmosfere surreali e impalpabili e alle non poche evidenti analogie nella narrazione.
Si possono inoltre rintracciare analogie anche col Ray Bradbury del “Popolo dell’autunno”, ma siamo già in un’altra epoca.
La dissoluzione è costante, ed opera sempre più nel nome di un progresso tecnologico, priva l’uomo della sua essenza. Proteggere gli alberi vuol dire ricordarsi delle nostre radici, da dove veniamo, e cercare di preservarle, di preservare la barriera naturale che ci protegge. Abbattere gli alberi vuol dire distruggere l’essenza del Bosco e di conseguenza quella dell’umanità.
Nel descrivere questa dissoluzione, Buzzati ci mostra anche l’incupirsi dell’atmosfera circostante che sfuma sempre più nell’oscurità. Scendono le tenebre e arriva la tempesta. Sogno e incubo si rincorrono in continuazione nel corso del romanzo.
I terrori della notte nel Bosco Vecchio, un vero e proprio labirinto sono tra le pagine più cupe e meravigliose della novella.
L'apologo apparentemente solo ambientalista, assume le sembianze simboliche di qualcos’altro: di un mondo alla deriva senza più identità, alienato dal proprio essere, privato dell’equilibrio, che serve a costruire anche il senso comunitario di tanti spiriti della natura, di genî, che incarnano di volta in volta, uomini e animali, ma per lo più che rappresentano lo spirito individuale dell'umano che si inaridisce e che rischia di volare via disperso dal vento.
Buzzati però non cede alla tentazione di trasformare la storia in una nera fiaba gotica. La salvezza, la redenzione e la ricomposizione, nonostante tutto, sono ancora lì a portata di mano.