mercoledì 15 novembre 2023

Boualem Sansal, “2084. La fine del mondo” (2015)

 


Consigli di lettura


Boualem Sansal, “2084. La fine del mondo” (2015)


«Il lettore si guardi bene dal credere che questa è una storia vera o ispirata a una qualsiasi realtà nota. No, sul serio, è tutto inventato, i personaggi, i fatti e il resto, prova ne sia che il racconto è ambientato in un remoto futuro e in un remoto universo che non somiglia per nulla al nostro.

È un'opera di pura fantasia, il mondo di Bigaye che descrivo in queste pagine non esiste e non c'è alcun motivo che esista in futuro, proprio come il mondo del Grande Fratello immaginato dal maestro Orwell, e raccontato in modo tanto mirabile nel libro bianco 1984, non esisteva ai suoi tempi, non esiste ai nostri e non ha davvero alcun motivo di esistere in futuro. Dormite tranquilli, brava gente, è tutto assolutamente finto e il resto è sotto controllo.»

Boualem Sansal


«Non c’è mezzo migliore della speranza e del fiabesco per incatenare i popoli alle loro credenze, poiché chi crede ha paura e chi ha paura crede ciecamente.»


«Ci sarebbe molto da dire sul ghetto, sulle sue realtà e sui suoi misteri, sulle sue qualità e sui suoi vizi, sui suoi drammi e sulle sue speranze, ma la cosa davvero piú straordinaria, mai vista a Qodsabad, era questa: la presenza delle donne per strada, riconoscibili come donne umane e non come ombre fuggevoli in quanto non portavano né maschera né burniqab e ovviamente niente bendaggi sotto la camicia. Anzi, si muovevano in tutta libertà, svolgevano le incombenze domestiche per strada, discinte come se fossero in camera da letto, vendevano e compravano sulla pubblica piazza, partecipavano alla difesa civile, cantavano lavorando, cianciavano durante le pause e si abbronzavano al pallido sole del ghetto perché oltretutto sapevano trovare il tempo per la vanità.»


«Coloro che hanno ucciso la libertà non sanno che cosa sia la libertà, di fatto sono meno liberi della gente che imbavagliano e fanno scomparire... ma quanto meno si sono resi conto che avrebbero capito solo lasciandoti libertà di movimento, che avrebbero imparato guardandoti imparare... Ti rendi conto, amico? Sei la cavia di uno straordinario esperimento di laboratorio: la grande tirannia impara da te, ometto insignificante, che cosa sia la libertà!... È pazzesco!... Alla fine ti ammazzeranno, certo, nel loro mondo la libertà è un percorso di morte, disgusta, disturba, è sacrilega. Anche per quanti detengono il potere assoluto è impossibile tornare indietro, sono prigionieri del Sistema e dei miti che hanno inventato per dominare il mondo, e che li hanno trasformati in gelosi custodi del dogma e zelanti operatori della macchina totalitaria.»


Le due più famose distopie della letteratura degli ultimi decenni, nelle quali viene immaginato un futuro con un totalitarismo teocratico, sono "Il racconto dell'Ancella" di Margaret Atwood, di cui ho già scritto, e "Sottomissione" di Michel Houellebecq, di cui probabilmente mi occuperò. Romanzi controversi e di segno opposto, sia nell'ipotesi, che nell'ambientazione: più astratta quella della Atwood, ma non per questo meno inquietante, più concreta e con precisi riferimenti quella di Houellebecq. 


I racconti distopici raramente si sono occupati di teocrazie. Uno di quei rari casi è proprio rappresentato da questo romanzo di Boualem Sansal, scrittore algerino di lingua francese, impegnato nella lotta al Fondamentalismo islamico, e vittima di persecuzioni dopo la pubblicazione dei suoi libri. Sansal si ostina a vivere nel proprio paese, nonostante sia trattato come un paria e nonostante il fatto che i suoi libri non siano stati pubblicati.

Qui, si può leggere un articolo molto interessante sullo scrittore.


"2084. La fine del mondo", già dal titolo, richiama la sua principale fonte di ispirazione.

Sono infatti quei cento anni precisi dopo 1984 di Orwell che forniscono lo spunto a Sansal. Il 2084, però in questo caso non è l'anno in cui è ambientato il romanzo, ma l'anno celebrato in quel mondo futuro, collocato invece in una data indefinita, ancora più remota. Del 2084 si hanno vaghe informazioni, se n'è persa la precisa memoria. 


La perdita di memoria è infatti una delle chiavi interpretative del racconto, così come lo era nella distopia orwelliana. Non si capisce neanche bene come sia stato calcolato e a che avvenimento faccia riferimento. Si sa solo che è l'anno in cui è accaduto qualcosa che ha ispirato questo nuovo mondo, questa Nuova Era, generata dalla vittoria della Grande Guerra santa contro i makuf. Una lunga guerra.


Il romanzo è colmo di significative riflessioni sull'esistenza, sul dispotismo, sulla schiavitù. Riflessioni che sono universali e non sono solo tipiche di un contesto teocratico, come sappiamo benissimo. I dialoghi occupano una parte limitata. Sansal privilegia il racconto esplicativo che a volte assume la forma di una sorta di trattato storico, filosofico, religioso e politico.


Il mondo conosciuto è del tutto dominato dall'Abistan, il "paese dei credenti", vi si venera Yolah, unico grande dio, rivelato dal profeta Abi. I makuf, i Rinnegati della Grande Miscredenza, si dice siano confinati oltre la Frontiera, che è proibito oltrepassare. Il maligno ha nome di Balis il Rinnegato e i suoi adepti sono i Baliani.

Il protagonista del romanzo è il trentacinquenne Ati, che è arrivato a Qodsabad, capitale dell'Abistan, dopo aver trascorso diversi anni in un sanatorio.


È un mondo di feroci restrizioni quello dell'Abistan, restrizioni e coercizioni di cui non si conoscono le origini, la causa si perde nelle remote nebbie del tempo. Nessuno si chiede il perché. Sono autorizzati a circolare solo i pellegrini, ma in percorsi ben definiti e controllati, oltre che burocrati e commercianti, i quali però sono dotati di speciali salvacondotti. 


Si deportano i malati di petto in un sanatorio dove li aspetta spesso una misera morte nell'abbandono.

Quello dell'Abistan è un terribile regime dispotico da incubo, caratterizzato anche da un efficiente stato di polizia, con guardie crudeli, selezionate geneticamente e lobotomizzate dalla nascita, chiamate i Pazzi di Abi, dei veri e propri automi; e con misteriosi telepati, chiamati V.


Ci sono zone piene di rovine, resti lasciati dalla Grande Guerra santa, aree probabilmente ancora radioattive. 

La Storia è stata suggellata, cancellata e riscritta. Tutto riparte da Abi, il Delegato, e dalla Giusta Fraternità, la confraternita di quaranta dignitari, scelti da Abi in persona, dopo che lui fu eletto da Dio, per governare il popolo.


Abi è raffigurato monocolo in gigantografie installate dappertutto.

«Bigaye vi osserva!» era la misteriosa scritta apparsa improvvisamente, in lingua abiling. Anche qui è più che esplicito un riferimento a Orwell. Addirittura, ad un certo punto del romanzo le vicende del Socing del Grande Fratello e quelle dell’Abistan vengono a incrociarsi.


«Tutti sapevano che Abi era un uomo, e dei piú umili, ma non era un uomo come gli altri, era il Delegato di Yölah, il padre dei credenti, il capo supremo del mondo, insomma era immortale per grazia di Dio e amore dell’umanità; e se nessuno lo aveva mai visto, era semplicemente perché emanava una luce accecante.»

Il 2084 era una data fondante anche se nessuno sapeva di cosa.


C'erano poi il Giobe, il Giorno Benedetto, in cui si otteneva il permesso per il pellegrinaggio, giorno di festa e di sacrificio, dopo l'Aspettanza; il ministero dei Sacrifici e Pellegrinaggi gestiva anche la Propaganda.

Il pellegrinaggio era un viaggio senza fine, visto che la meta era posta sempre all'altro capo del mondo, e da questo viaggio mai nessuno tornava. Ma il fine era appunto quello di morire sulla via della santità.


«A nessuno, proprio a nessuno dei rispettabili credenti è mai passato per la testa che quei rischiosi pellegrinaggi fossero un modo efficace per allontanare dalle città le folle pletoriche e offrire loro una bella morte sulla via dell’adempimento. Così come nessuno ha mai pensato che la Guerra santa mirasse allo stesso scopo: trasformare credenti inutili e derelitti in gloriosi e proficui martiri.»


Il sancta sanctorum era la casetta dove era nato Abi, ma ogni undici anni cambiava di luogo, grazie a una direttiva della Giusta Fraternità, mentre l'Apparato addestrava gli abitanti dei luoghi prescelti a fare da testimoni della "memoria storica". Il Gkabul era il nome della santa religione e del Libro, nel quale Abi aveva raccolto i suoi insegnamenti.


«Nella sua infinita conoscenza dell’artificio, il Sistema ha ben presto capito che era l’ipocrisia a fare il perfetto credente, non la fede, che con la sua natura oppressiva porta con sé il dubbio, se non addirittura la ribellione e la follia. E ha anche capito che la vera religione non può essere che bigottismo ben regolato, assurto a monopolio e mantenuto con il terrore onnipresente.»


Il dubbio però comincia a farsi strada nella mente di Ati su varie questioni: sulla frontiera, su Yolah, su Abi, sul sanatorio, sulle dimensioni effettive dell'Abistan, sull'immobilità del mondo, sul male e sul bene, sulle mille contraddizioni. Essere miscredenti sotto il dominio del Pensiero unico è impensabile.

Ha paura di diventare un miscredente, perché sente il dubbio crescere dentro di sé, irrefrenabile. Un dubbio che porta inesorabilmente a un corto circuito esistenziale e alla ribellione.


Molto bella ed efficace la descrizione che fa Sansal della trasformazione graduale della coscienza di Ati, pronto per una nuova nascita, che passa attraverso il conflitto interiore e lo stupore per quello che sta emergendo nel suo animo, cosa che lo rende ipersensibile, ed è portato a pensare che qualcosa si sia guastato nella sua testa, tanto era stato programmato e obbligato ad interpretare la realtà solo secondo categorie imposte. Affiorano riflessioni sul bene e sul male che mai si sarebbe aspettato, comincia a percepire le contraddizioni dell'esistenza.


È un viaggio verso la pura consapevolezza quello di Ati.

«Ati non era libero e non lo sarebbe mai stato ma, forte solo dei propri dubbi e delle proprie paure, si sentiva piú vero di Abi, piú grande della Giusta Fraternità e del suo tentacolare Apparato, piú vivo della massa inerte e tumultuante dei fedeli, aveva preso coscienza della propria condizione, in ciò consisteva la libertà, nel percepire che non siamo liberi ma che abbiamo il potere di batterci fino alla morte per esserlo.»


Ci sono interi passaggi nel romanzo che sono veri e propri poetici canti alla libertà, alla libertà individuale per la quale vale battersi fino in fondo, anche a costo della vita o della riprogrammazione. Perché anche se resi di nuovo schiavi, nessuno ci potrà mai portare via quel senso di libertà che abbiamo provato con la consapevolezza di poter essere qualcosa di diverso dal sottomesso.

Il soggiorno al sanatorio aveva contribuito ad aprirgli gli occhi e ora era pronto per tornare a casa e sperimentare ciò che aveva scoperto. Temeva il ritorno a casa, ma nello stesso tempo lo desiderava.


Ati, tornato nella sua terra, a Qodsabad, trova un lavoro, entra a fare parte della burocrazia, conosce un suo collega, Koa, col quale instaura un fraterno rapporto di amicizia e condivide i dubbi.

Scopre meccanismi di controllo tecnologici assai pervasivi. Ma la cosa più sorprendente è la scoperta dei ghetti, abitati dai Rinn, altri rinnegati, chiusi in muraglie invalicabili, a cui però si accede tramite gallerie sotterranee. Sono tenuti in uno stato di continuo terrore, conoscono terribili restrizioni e miseria. Tuttavia, sono esseri liberi, parlano una lingua dimenticata, e sono in possesso di un antico sapere. Ma fanno parte della realtà, o anche i ghetti sono un’illusione?


Nel loro vagabondare, incontrano luoghi, cose e personaggi di tutti i tipi, corruzione, spie, loschi traffici, agenti provocatori, il mare, gli aerei, le cospirazioni, e soprattutto il Museo di Toz, un singolare studioso indipendente, e si rendono conto che il mondo non era come volevano fargli credere. 

Dalle nebbie del tempo vengono fuori prove archeologiche atte a dimostrare che c'era una storia prima di questa storia, una storia che non si può cancellare così facilmente. 

Ed è così che Ati  scoprì anche la complessità della realtà, cosa che è ancora meno eliminabile della storia.

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