venerdì 29 dicembre 2023

Terry Pratchett "Il colore della magia" (1983)


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Terry Pratchett

"Il colore della magia" (1983)


«In un remoto scenario multidimensionale, in un piano astrale mai destinato a volare, le volute di foschia stellare ondeggiano e si dividono...

Guarda...

Viene A'Tuin la Grande Tartaruga, nuotando lenta nel golfo interstellare, le membra poderose ricoperte d'idrogeno ghiacciato, l'enorme carapace antico bucherellato da crateri di meteore. Con occhi grandi come il mare, incrostati dai reumi e dalla polvere di asteroidi, fissa la Destinazione.

Nel suo cervello più grande di una città, con lentezza geologica, pensa soltanto al Peso.

Naturalmente la maggior parte del peso è sostenuta da Berilia, Tubul, Gran'T'Phon e Jerakeen, i quattro giganteschi elefanti sulle cui larghe spalle color delle stelle riposa il disco del Mondo, inghirlandato alla sua circonferenza dalla lunga cascata e sormontato dalla volta celeste del Cielo.»


«Il fuoco divampava nella città gemella di Ankh-Morpork. Lambendo il Quartiere dei Maghi, le fiamme si fecero blu e verdi, coronate da scintille dell'ottavo colore, l'ottarino. Quando le lingue di fuoco attaccarono i serbatoi e i depositi di petrolio della Strada dei Mercanti, avanzarono in una serie di fontane ardenti e di esplosioni; nelle strade dei profumieri il fuoco bruciava con un aroma dolce; quando toccò i fasci di erbe secche e rare nei magazzini degli erboristi, gli uomini impazziti cominciarono a parlare con Dio.»


«E adesso che succede?» chiese Duefiori.

Hrun si stuzzicò l'orecchio con un dito che guardò poi meditabondo. «Oh, mi aspetto che fra un minuto apriranno la porta e mi trascineranno nell'arena di un tempio dove lotterò forse contro due ragni giganti e uno schiavo di due metri proveniente dalla giungla di Klatch e poi libererò una principessa legata all'altare e ammazzerò un po' di guardie o roba del genere e poi la fanciulla mi mostrerà il passaggio segreto per andare via da quel luogo e libereremo due cavalli e scapperemo via con il tesoro».

Hrun appoggiò la testa sulle mani intrecciate, guardò il soffitto, fischiettando piano.

«Tutto questo?» domandò Duefiori.

«Di solito».


Una tartaruga gigante se ne va in giro alla deriva per il cosmo e porta sul suo guscio quattro elefanti anch'essi giganti e decisamente magici. Ma non è finita qui: gli elefanti sorreggono un disco enorme, che è un mondo intero, fatto di paesi e di terre, l'una diversa dall'altra, abitate dagli dei, dagli uomini e da uno svariato numero di creature fantasmagoriche.


È questa in poche righe la descrizione del "Mondo Disco", luogo fantastico di creazione di Terry Pratchett, fantasia da cui ha preso forma la produzione di non pochi volumi che vanno a formare una saga in piena regola.

"Il colore della magia" è il primo atto di questa saga, un romanzo spumeggiante e frenetico, che ha valso all'autore una meritata ed indiscussa fama planetaria.


Una cosa è certa: con Terry Pratchett si ride e molto, provare per credere. Aveva un senso dell’ironia e del grottesco fuori dal comune. I suoi romanzi sono una certezza da questo punto di vista. L’originalità è fuori discussione: unire il fantasy alla comicità è già un’idea unica di per sé. Ma non facilmente realizzabile, anzi, tutt’altro.


Il fantasy, come si sa, è un genere inflazionato, con un sacco di prodotti scadenti, che ripetono spesso lo stesso schema e con i soliti stereotipi. Tuttavia, esistono, come in ogni altro settore della narrativa, prodotti buoni e addirittura eccellenti, che in questo caso costituiscono delle eccezioni.

Terry Pratchett, le sue novelle e le sue saghe rientrano a pieno titolo in questa tipologia. E' difficile non restare affascinati dalle sue pagine, o quantomeno è quasi impossibile non divertirsi a leggerle.


Potrebbe essere definito come il creatore del genere fantasy umoristico per quanto riguarda la letteratura contemporanea, visto che per quella di tutti i tempi ci ha pensato almeno un certo Francois Rabelais con i suoi romanzi della saga "Gargantua e Pantagruele".

Un filo che lega due autori così diversi, a prescindere dalla vaga appartenenza ad una convenzione letteraria, potrebbe comunque essere rintracciato nella scanzonata fustigazione di certi costumi e nel vivace e geniale uso dell'ironia.


In ogni caso, Pratchett si rivela già dalle prime righe più che un ottimo artigiano, facendo sfoggio di tutti quegli ingredienti che impreziosiscono una trama, riuscendo ad incuriosire anche il lettore meno disposto a farsi catturare.

Pratchett usa tutta la "chincaglieria" tipica del genere, dai personaggi classici alle creature fantastiche, dai luoghi canonici alle situazioni tipiche. Ma va ben oltre, la sua ironia, il suo senso giocoso dello sberleffo caricano di un'energia inusuale le pagine del libro, stravolgendo il canone e le regole stesse del fantasy.


Ma non è solo questa l'arma vincente dello scrittore inglese. Quello che stupisce di più è l'uso, spesso in costante crescendo, del sense of wonder. Il paradosso, il visionario, la magia, l'avventura, l'assurdità delle situazioni spiazzano continuamente il lettore e lo divertono senza soste, con un insaziabile caleidoscopio di luci e di colori.

Tutto questo è "Il colore della magia", ma è anche la storia delle avventure del mago Scuotivento, del turista Duefiori e di un impossibile "bagaglio”.

mercoledì 27 dicembre 2023

Henry James, “La lezione del Maestro” (1888)


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Classici


Henry James, “La lezione del Maestro” (1888)


«Henry James fu un insuperato maestro dell’ambiguità e dell’indecisione […] un disdegnoso gentiluomo dolente, che tenta invano di nascondere sotto eleganti attributi convenzionali ciò che denuncia il suo sguardo tristissimo: che è il più sventurato degli uomini».

Jorge Luis Borges


«Mentre i suoi occhi grigi si posavano su di lui – lo spazio tra essi era piuttosto ampio, e la distribuzione dei suoi capelli dal colore vivido, così compatti che arrivavano a essere lisci, vi creava sopra un ampio arco – quasi si vergognò di quell’esercizio della penna che lei in quel momento era incline a elogiare. Era conscio che avrebbe preferito piacerle di più in qualche altro modo. I lineamenti del suo viso erano quelli di una donna adulta, ma la bambina continuava a vivere nel suo colorito e nella dolcezza della sua bocca. Soprattutto era naturale – ciò era fuor di dubbio in quel momento – più naturale di quanto lui avesse dapprima ritenuto, forse a causa dei suoi bei abiti, che erano anticonvenzionali in maniera convenzionale, suggerendo quella che lui avrebbe definito una spontaneità tortuosa.»


«Questo era troppo – lui era un demonio beffardo. Paul si separò da lui con un puro e semplice cenno del capo di buonanotte e con la sensazione nel cuore dolorante che prima o poi nel lontano futuro avrebbe potuto tornare da quell’uomo e dalla sua disinvolta signorilità, dalla sua maniera raffinata di combinare le cose, ma che in quel momento con lui non riusciva a fraternizzare. Era necessario al suo dolore credere per quell’ora nell’intensità del suo risentimento – tanto più crudele dato che non era legittimo.»


«Fu lieto di uscire nella notte onesta, buia, non sofisticata, di muoversi in fretta, di avviarsi verso casa a piedi. Camminò a lungo, sbagliando la strada, non prestando attenzione. Pensava a troppe altre cose. I suoi passi ritrovarono la direzione giusta, comunque, e in capo a un’ora si trovò davanti alla porta di casa nella stradina deserta e inelegante. Si soffermò ancora a interrogarsi prima di entrare, senza nulla intorno e sopra di sé tranne l’oscurità senza luna, uno o due inutili lampioni e delle fioche stelle lontane.»


Ed eccoci di nuovo a Henry James e ad una delle sue piccole perle, uno dei suoi imperdibili romanzi brevi o racconti lunghi, che dir si voglia. Anche quando l’inizio è banale e anonimo come in questo caso, non bisogna farsi fuorviare, perché il tesoro letterario in poche pagine si rivelerà per quello che è.


Da fine indagatore dell'animo umano, James mette in scena un apologo perfetto sul mondo letterario inglese dell'epoca, senza lesinare in sottile ferocia.

La prosa è come al solito fluida, poetica fino all'estasi dolorosa. Lo scrittore ci annuncia sempre la sua miracolosa perfezione, fatta di giochi ambigui, di perversioni sottintese e appena accennate.

Quanto ci sia di autobiografico si percepisce, ma non se ne ha mai certezza, né se ne riescono a individuare i contorni.


Siamo a Londra e un giovane scrittore, Paul Over, vive abbeverandosi al mito di uno scrittore affermato, Henry St. George, al quale, però, non vengono risparmiate critiche perché la sua qualità pare stia scemando.

Overt che fa di tutto per conoscerlo, viene invitato a un incontro mondano nel quale finalmente fa la sua conoscenza.


Henry James, con l’ironia che lo contraddistingue, descrive lo stato d'animo del giovane che si perde a osservare ogni minimo particolare di ciò che riguarda St. George: dalla moglie alla gestualità del suo idolo. Tutto lo impegna in un'analisi contraddittoria, in cui le sensazioni negative di Overt vengono tenute a freno dall’alone di mito di cui ha rivestito il suo vate.


La descrizione dell’incontro con Marian Fancourt, la figlia del padrone della casa che ospita la riunione mondana, ha qualcosa di magicamente incantevole, è da antologia, richiama i quadri dei pittori preraffaelliti. Le pulsioni erotiche vengono tenute a bada come al solito da James, mascherate in sottintesi di compassata vittoriana discrezione.


La suggestione degli echi delle pagine di “Daisy Miller” si ripropone per intero nell’innocente, ingenua ambiguità di Marian.

Tuttavia, l’ambiguità raggiunge il suo vertice nell'assoluta incondizionata e adorante ammirazione che nutre per St. George, nonostante ne riconosca i limiti e i difetti.


Non esiste un cedimento nello stile di James, e i dialoghi non sono da meno delle descrizioni, così come la cura che mette nell’intreccio, trasformando appunto anche la banalità in qualcosa di avvincente.

Le tracce che dissemina nel testo, anche in uno breve come questo su analogie, riferimenti, ammiccamenti sono molteplici.


Quando, per esempio, il «grand’uomo» si ferma ad ammirare un dipinto di Gainsborough, Overt esclama che sembra San Giorgio e il Drago, cosa che porta il curatore della mia edizione a scrivere una nota molto rivelatrice.

Cito testualmente:

«L’affermazione di Paul Overt ha suggerito in buona parte della critica un esplicito invito a un parallelismo tra la vicenda del romanzo e la leggenda di San Giorgio e il Drago, (con Paul Overt nella parte del drago, al quale il cavaliere San Giorgio/Henry St George strappa la fanciulla Marian Fancourt). Si osservi che nelle sue opere Henry James ha sempre cura di fornire ai propri personaggi dei nomi in un certo qual modo “parlanti” o simbolici. In questo caso, si noti che overt in inglese significa “palese”, “evidente”, “manifesto”; Marian, oltre a reminiscenze legate al folclore intorno alla leggenda di Robin Hood, come aggettivo significa “mariano”, nel senso di relativo alle regine Maria Stuart e Maria Tudor, ma anche “mariano” in senso religioso. Per quanto riguarda il cognome della ragazza, si osservi che court significa “corte”, anche nel senso di “corteggiamento” (proprio come in italiano). Infatti to make court to significa “fare la corte a”, con lo stesso significato della lingua italiana.»


Il dialogo tra i due scrittori avviene in un’atmosfera di placida astrazione, all’insegna di una dissonante, appena percepibile, ambiguità. Il giovane, pieno di ipocrita degnazione, ma che pone sopra ogni cosa, la sua ammirazione per il Maestro e per il suo successo, è l'astro nascente, mentre St. George, consapevole del suo declino, sembra non aver bisogno di fingere. Le sue sono parole amare, ma che appaiono sincere. Il contrasto tra i due non dovrebbe essere più evidente di così, se lo scrittore non insinuasse tra le righe un sospetto capovolgimento.


Ed è durante questo dialogo, nel mentre i due si lasciano andare a considerazioni letterarie e all’ammirazione per Marian e per il suo incantevole modo in cui esprime entusiasmo per i due scrittori, che St. George, dopo aver gratificato il giovane per la sua scrittura, infila elegantemente un breve accenno a quale sarà alla fine la sua “lezione”.


Il racconto prosegue con questa altalenante situazione di ambiguità a tre dove gli altri sono solo delle comparse. Overt è preso da entrambi per motivi opposti. Ma prova invidia e gelosia per il rapporto così intimo tra il Maestro e Marian. Una relazione che al giovane appare così innocente, ma anche così insolita, presentimento che viene confermato anche nell’incontro successivo che Overt ha con la fanciulla, nel quale a parti scambiate l’oggetto dell’ammirazione è il Maestro, mentre con lui ora parla Marian.


Tuttavia, tutto ciò nella mente del giovane sfuma, mentre più intensa si fa la discussione con Marian su altri temi, quasi in un crescendo di intesa intellettuale, durante la quale il tempo sembra fermarsi e le sue percezioni gli appaiono uguali a quelle di lei, una suggestione che lo infiamma e lo perde irreversibilmente.


Nell’ultimo incontro prima della partenza che ha con il Maestro, questi rende solo in parte più esplicita, con fine doppiezza, la sua lezione, dilungandosi molto sulla propria autodemolizione. Gli mostra in maniera contraddittoria tutta la sua infelicità insita nella soddisfazione delle gioie materiali, connesse alla gloria e alla realizzazione della stabilità familiare. Rinnova in maniera sottile il suo consiglio, incontrando la sorpresa perplessità del suo giovane “allievo”.

Una perplessità che si rivelerà dopo due anni a Overt in tutta la sua crudele evidenza al suo rientro a Londra.


La sensazione di trovarsi al cospetto di una sorta di ponte gettato tra “Daisy Miller” e “Il giro di vite” è fortissima. Un misto tra le due opere, la prima già scritta e la seconda che verrà. Sembra come se James in ogni sua creazione dovesse tornare a rivivere o ad anticipare le altre. Come se ci fosse un filo invisibile, ma concretamente palpabile che il lettore debba rintracciare di volta in volta, un puro gioco intellettuale, ambiguo, sottile e leggero.


domenica 24 dicembre 2023

Philip K. Dick Trilogia di Valis 2 : "Divina Invasione" (1981)


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Classici della fantascienza 


Philip K. Dick

Trilogia di Valis 2 : "Divina Invasione" (1981)


«Il tempo che attendevate è giunto.

L’opera è completa; il mondo definitivo è qui.

Egli è stato trapiantato ed è vivo»

VOCE MISTERIOSA NELLA NOTTE


«Abbiamo progettato la Rivoluzione americana» disse Elias. «Un nostro gruppo. Per un certo periodo siamo stati gli Amici di Dio, e i Fratelli della Rosacroce nel 1615... Io sono stato Jakob Böhme, ma probabilmente non lo conosci. Il mio spirito non vive in un solo uomo, non è un’incarnazione. Una parte del mio spirito torna sulla Terra per legarsi a un umano che Dio ha scelto. C’è sempre qualcuno di questi umani, e io sono sempre lì. Martin Buber, per esempio, che la sua nobile anima riposi in pace. Che uomo caro e dolce. Anche gli arabi hanno portato fiori sulla sua tomba. Persino loro lo amavano.»


«A volte penso che questo pianeta sia sotto un incantesimo» disse Elias. «Stiamo dormendo, o siamo in trance, e qualcosa ci fa vedere quello che vuole farci vedere e ricordare e pensare quello che vuole farci ricordare e pensare. Il che significa che noi siamo ciò che questa ‘cosa’ vuole. Il che a sua volta significa che non possediamo una vera esistenza. Siamo in balía di una volontà capricciosa.»


«Esistono nel tempo tre eoni o epoche: la prima è un’era di grazia, la seconda o attuale è un’era di severa giustizia e limitazioni, e la terza, ancora da venire, è un’era di misericordia. Esiste una Torah diversa per ciascuna era, eppure vi è una sola Torah. Esiste una Torah primaria, o matrice, in cui non vi sono punteggiatura o spazi fra le parole; anzi, le lettere sono caoticamente mischiate fra loro. In ciascuna delle tre ere le lettere assumono la forma di parole alternative, secondo lo svolgersi degli avvenimenti.»


Visto che oggi ricorre la Vigilia, questo potrebbe anche essere considerato un buon racconto di Natale, seppure molto sui generis e visionario.

I romanzi che compongono la trilogia di Valis di Dick, pur essendo in teoria inseparabili, possono essere letti anche isolatamente, dato che sono praticamente autoconclusivi. 


Non siamo di fronte ad una saga, alla quale saremmo legati per questioni imprescindibili di trama. Non è questo, quindi, il motivo per cui la lettura completa, e nella sequenza cui sono stati scritti e presentati, è necessaria per la piena comprensione di questa opera e, oserei dire, anche per l'intera produzione letteraria di Dick. Tra l’altro, l’edizione oggi più frequente è quella in volume unico.


Ma questa considerazione in qualche modo era già stata sottolineata nella mia recensione precedente. Va comunque ricordata di nuovo, perché qui ci troviamo di fronte a un capitolo del tutto "folle". Chi volesse leggere "Divina Invasione", in maniera separata dal resto della trilogia, non potrebbe fare a meno di percepire questo romanzo soprattutto come un delirio fantascientifico, ben scritto e ben confezionato, ma solo ed esclusivamente un delirio, che segue il filo di precedenti prodotti dickiani, portando all'esasperazione ultima alcuni concetti.


Invece, "Divina Invasione" si inserisce in maniera razionale all'interno della trilogia, è economicamente funzionale allo sviluppo del discorso di Dick e della sua "autoterapia" letteraria.

Non va dimenticato che nello stesso periodo lo scrittore americano scriveva quel suo famoso diario, la cosiddetta "Esegesi", interminabile resoconto di più di ottomila pagine, apparentemente sconclusionato con cui cercava di dare un volto alle sue ossessioni di cosmogonia, religione e filosofia. Alcuni spunti di quel suo diario vengono ripresi in "Valis" e servono da contrappunto per la Trilogia. 


L'Esegesi non fu scritta per vedere le stampe e Dick mai si pose questo problema, ma fu pubblicata postuma nel 2011. Aveva solo la funzione più evidente di terapia personale. Questi suoi scritti pesarono non poco nella formazione dei tre romanzi, operazione non solo più razionale, ma vero manifesto del pensiero dickiano. Quindi, qui abbiamo a che fare col tentativo di sistemazione logica e sintetica da rendere pubblica all'esterno, come premessa e, nello stesso tempo, come vera e propria postfazione alla sua intera opera e alla sua esistenza.


"Divina Invasione", nel suo "delirio", ha il ruolo di far comprendere meglio il punto di arrivo della narrativa "utopica" di Dick, ma non solo, è anche il suo lato schizoide, quello che in "Valis" spetta ad Horselover Fat. E allora è un liberatorio e libertario rito in cui lo scrittore dà sfogo a tutto il suo bagaglio speculativo.


Il romanzo in sé è assolutamente divertente, narra del ritorno sulla terra del figlio di Dio, il Secondo Avvento, che ha come fine quello di liberare il nostro mondo dal Demiurgo, Belial, dio maligno e vero creatore del mondo illusorio della realtà quotidiana, e di ristabilire l'equilibrio e il potere del Padre. Il tutto sotto la vigile presenza misteriosa dell'ente di intelligenza artificiale denominato "Valis", ente che in vari modi e forme si incarna in tutti e tre i romanzi della serie. 


Sembra insomma, che lo scrittore volesse sposare le idee del manicheismo e di certo gnosticismo. Certo, c’è anche questo. C’è l’esplorazione del bene e del male, come la farebbe Dick. Una sorta di trattato di fantagnosticismo e di fantateologia giudaico-cristiana. 

È per dei versi, infatti, anche un originale omaggio alla Torah, un omaggio alla maniera del grande scrittore americano.

Nel romanzo vengono nominate anche altre forme vagamente religiose: una chiesa cristiano-islamica e un non meglio precisato Legato Scientifico che ha come simbolo la falce e martello.


Tuttavia, non è solo questo. Il concetto della realtà e della de-realtà in Dick è assolutamente centrale ed estremizzarlo al massimo livello, come fa in queste pagine, è di un'efficacia sorprendente. La sua è una vera e propria provocazione nei confronti dei lettori, perdersi nei meandri delle argomentazioni presentate da Dick in questo romanzo e già evidenti in "Valis", vuol dire cedere alla tentazione di dare spiegazione razionale alla sua Esegesi. Ma contemporaneamente, vuol dire anche rintracciare le ispirazioni culturali fondanti della sua produzione letteraria. È, infatti, impressionante l’alto livello culturale che era proprio dello scrittore.


A una lettura che resta in superficie potrebbe sembrare che l’unica risposta stia nel delirio e nella incoerenza del pensiero speculativo, non solo dello scrittore, ma in genere di ogni pensatore che cerca di dare una risposta necessariamente "razionale" ai quesiti ultimi dell'esistenza. La conseguenza naturale è appunto la schizofrenia, la patologia più "razionale" di tutte le patologie. 


Per questo la provocazione serve invece a dimostrare che l'opera di Dick è l'opera di un uomo guarito dalle sue ossessioni, o meglio di un uomo che ha capito che con le proprie ossessioni bisogna conviverci, per poterle poi ridimensionare, ma anche approfondire e tentare di analizzarle “follemente” per poterle comprendere. Ed è quello che vedremo meglio con l'ultimo capitolo della trilogia.

giovedì 21 dicembre 2023

Il pensiero duale o binario


 Il pensiero duale o binario


Indirizzare la visione critica dell'esistente solo o prevalentemente verso la contestazione di un astratto pensiero unico non ha più molto senso. Certo, resta comunque valida l’analisi circa la tendenza alla trasformazione in senso totalitario degli strumenti digitali di sorveglianza e di controllo a livello globale, così come l’uso collegato ai suddetti strumenti finalizzato all’impoverimento delle classi subalterne, ma questo fa parte per lo più della strategia legata alla ristrutturazione capitalistica in atto, che tende verso la quarta rivoluzione industriale, della quale nessun grande attore geopolitico è esente. È sempre bene ricordarlo ai tifosi.


Tuttavia, nel corso della transizione a questo nuovo modello di governance globale, sta parallelamente prendendo piede, accanto al pensiero unico tecnocratico, quello che insomma ironicamente abbiamo definito del dominio de Lascienzah, un altro, quello che io chiamerei pensiero duale o binario. Pensiero che regola la gestione di tutti gli altri conflitti che si generano all’interno della società, e che è proprio di tutti i regimi, i sistemi politici, le bolle reali e virtuali e i gruppi di appartenenza.


Questo sistema di strutturazione e ristrutturazione del pensiero ha come fondamento essenziale il manicheismo, non in senso teologico, ma in senso politico-religioso e sistemico. È, in breve, un sistema ideologico che regola gli antagonismi, in base alle cosiddette “posizioni” a favore o contro, e all’automatismo di queste connesso alle categorie amico/nemico o al buono/cattivo, pensiero strettamente apparentato con la mania di affibbiare categorie a chiunque o a qualunque cosa.

L’atteggiamento più patologico, però, in questo contesto è quello di quanti sanno già in partenza per chi o cosa tifare, a prescindere dalle evidenze, e nessun fatto o ragionamento potrà mai scalfire le loro granitiche certezze. Individui già perfettamente omologati a questo schema.


È ovvio precisare che sia le posizioni, che le categorie suddette restano comunque necessarie all’interno di una logica della reale definizione delle scelte, quando la contrapposizione non può che essere netta, e in cui l’una è alternativa all’altra, ma anche in questo caso è sempre opportuno tenere continuamente acceso un costante inflessibile senso critico verso la propria scelta. 

Quello che, invece però, sta diventando patologico è il non contemplare più la possibilità, laddove le alternative non sono solo due, ovvero nella maggioranza degli aspetti della vita quotidiana e pubblica, di non ritrovarsi d’ufficio “arruolato” in uno dei due presupposti e predeterminati schieramenti.


Ovvero, laddove la libera elaborazione prevederebbe, invece, come auspicabile una complessa polifonia di pensieri individuali, ognuno singolarmente unico e irripetibile, ma anche flessibile, che ha cura delle sfumature e dei dettagli, non rigidamente dato da presupposti dogmatici sui quali poi modellare e stravolgere la realtà, come dimostrazione che noi siamo il bene e chi si oppone a noi è il male. 

Lo schema duale è divenuto un sistema legittimato da entrambi gli schieramenti che si formano via via laddove emerge un conflitto sezionale quasi sempre eterodiretto dal sistema dominante, e che dà la misura del degrado culturale dell’epoca che stiamo vivendo. È l'indiscutibile campo di gioco, insomma. 

Ci rappresentiamo, infatti, come facenti parte di un immenso immaginario parlamento, di un’arena, a cui i social hanno offerto un’adeguata tribuna.


Ma si badi bene, proprio per la “presenza” nell’immaginario collettivo di questo fantasmatico parlamento, non sto promuovendo affatto il neutralismo, proprio perché, anzi, questo si trasforma spesso, anche se non sempre, in ignavia; sto parlando di molteplici scelte diverse che si adattino all’individuo e non alle greggi.

Contestare e opporsi, almeno individualmente, al pensiero duale, non è per niente facile, perché prevede una mente flessibile, che sappia mettere in discussione anche le proprie elaborazioni e che individui trappole ideologiche e semantiche. Non è sufficiente individuare questa contraddizione solo negli altri, anzi sarebbe un errore riproducente la stessa dinamica duale, ma vigilare costantemente quando questa si insinui dentro di noi.

mercoledì 20 dicembre 2023

Dan Simmons, "Hyperion" (1989)


 Consigli di lettura


Classici della fantascienza 


Dan Simmons, "Hyperion" (1989)


«Gli scrittori di fantascienza sono come i canarini nella miniera, sono il segnale d'allarme che annuncia la catastrofe.»

Kurt Vonnegut 


«… negli ultimi secondi prima dell’orgasmo Kassad cerca di tirarsi indietro… le mani sulla gola di lei, che premono… lei gli si attacca come una sanguisuga, una lampreda pronta a prosciugarlo… rotolano contro i corpi dei morti…

… gli occhi di lei come gemme rosse, occhi che ardono d’un folle calore simile a quello che gli riempie i testicoli doloranti, che si espande come fiamma, che si riversa…

… Kassad pianta a terra le mani, si solleva, si stacca da quella creatura… da quella cosa… con forza disperata ma insufficiente, mentre terribili gravità premono a tenerli uniti… risucchiano come bocca di lampreda, mentre lui minaccia di esplodere, la guarda negli occhi… la morte di mondi… la morte di mondi!»


«Sol ebbe la visione di adulti nudi che sfilavano fra uomini armati verso i forni, di madri che nascondevano sotto mucchi d’indumenti i propri figli. Vide uomini e donne, la cui carne pendeva in brandelli bruciati, portare bambini sbigottiti via dalle ceneri di quella che un tempo era una città. Sol capì che queste immagini non erano un sogno: erano la sostanza stessa del Primo e del Secondo Olocausto.»


«Se l’umanità avesse scelto il sistema sociale orwelliano del Grande Fratello, lo strumento dell’oppressione sarebbe stato di sicuro la carta di credito. In un’economia totalmente priva di denaro liquido, con semplici residui di un mercato nero basato sul baratto, le attività di un individuo possono essere rintracciate in tempo reale tenendo d’occhio la traccia della sua carta di credito universale. Esistono leggi severe per la protezione della segretezza della carta, ma le leggi hanno la brutta abitudine d’essere ignorate o abrogate, quando una società cade nel totalitarismo.»


“La caduta di Hyperion”, per chi non lo sapesse, è un piccolo poema epico incompiuto scritto da John Keats nel 1815 che aveva per oggetto la titanomachia. Un tentativo di costruzione mitologica in chiave poetica. 

Il romanzo di Dan Simmons vuol essere quindi un omaggio a John Keats, ribadito anche dal fatto che la capitale del pianeta Hyperion si chiama appunto Keats; e si chiama John Keats anche un cìbrido, un cyborg ibrido, protagonista di uno dei racconti dei pellegrini, un’intelligenza artificiale, costruita proprio sulle caratteristiche fisiche e intellettuali del poeta inglese.


Sarà ancora un omaggio anche il secondo capitolo della serie che avrà lo stesso titolo del poemetto di Keats.

A prescindere dall'intera tetralogia (più un romanzo breve) dei Canti di Hyperion, a prescindere dagli altri capitoli e dal giudizio che si possa trarre sulla qualità o sulla riuscita o meno di questi ultimi, non credo si possa fare a meno di pensare a "Hyperion", il primo volume della serie, come qualcosa di unico, un grande capolavoro o almeno un'opera di notevole qualità.


"Hyperion" è un fenomeno letterario indiscusso, un romanzo che ha fatto gridare al miracolo lettori e critica. È insomma un oggetto di culto che riesce a mettere tutti d'accordo e sul quale non si discute.

In effetti questo libro ha una sua carica particolare, racchiude in sé tutto quello che si può volere dalla fantascienza, sia da quella classica, sia da quella apocalittica e distopica, che da quella sociologica, ma anche da quella più d'avanguardia come il cyberpunk. 


Questo libro è il parto di un grande visionario, simile a poche altre opere di fantascienza. Dan Simmons non fa mancare nulla a Hyperion, compresi i viaggi nella realtà virtuale, il thriller, le storie d’amore e la guerra di un fantomatico TecnoNucleo delle I.A. finalizzata alla distruzione dell'intero genere umano.


Il romanzo va comunque contestualizzato all’epoca in cui fu scritto, certi richiami culturali sono tipici di un periodo storico ben preciso. Così come le conseguenti proiezioni nel futuro.

Definirlo in poche parole è assai arduo, c'è chi l'ha etichettato come un eccelso esempio di space opera, che racchiude in sé anche tutti gli elementi nominati sopra, e chi addirittura, folgorato sulla via di Damasco, ha voluto sottolineare che, a causa della sua elevata qualità, costituisce un'eccezione all'interno del genere s.f.. Poveri noi, ignoranti appassionati di fantascienza!


Amo particolarmente questo romanzo. È certamente una delle opere fondamentali della fantascienza e della letteratura tout court, inoltre non è neppure di così facile interpretazione.

I livelli di lettura dell'opera di Simmons sono molteplici e non tutti di così facile interpretazione, contenendo anche tutto e il contrario di tutto. Un’opera letteraria della complessità e della contraddizione.


Non solo. La ricchezza e gli spunti che contiene esigono almeno una seconda lettura, avendo indissolubilmente intrecciati al suo interno molti aspetti anche dissonanti, che in alcuni casi, danno l'impressione di incoerenza e incongruenza. Ma non è affatto così.

Un'opera intelligente, colta e difficile, ma pure una lettura che, intesa anche solo su un lineare e determinato piano narrativo, seguendo appunto l'impronta da space opera, può procurare semplice, piacevole e divertita evasione.


Un romanzo colto perché il suo riferimento più palese è quello ai "Racconti di Canterbury" di Geoffrey Chaucer, e, ad una lettura più approfondita che sappia cogliere gli aspetti più sottili, anche al "Settimo Sigillo" di Ingmar Bergman. Ma, di pari passo, riesce, soprattutto, a far suo il mondo delle fiabe, dell’epica e del fantastico, si pensi al "Mago di Oz", a "Gulliver", ad "Alice nel paese delle meraviglie”, alle opere omeriche, e soprattutto all’immancabile fonte di ispirazione che è “Il Signore degli Anelli”.


Siamo nel XXVIII secolo, parecchi secoli dopo l’Egira, esiste L’Egemonia, una sorta di confederazione intergalattica, c’è il Console, uno dei suoi leader, c’è la flotta della Confraternita dei Templari, che fa parte dell’Egemonia, c’è la nave-albero Yggdrasil (chiamata come l’albero cosmico della mitologia norrena), c’è il remoto pianeta Hyperion, le cui Tombe del Tempo si stanno per aprire, una minaccia per l’umanità. Il pianeta sta per essere attaccato dagli alieni Ouster, gli Espulsi, ma probabilmente più umani degli stessi umani.


Ma soprattutto, si è risvegliata la minaccia più grande: lo Shrike, un potente terribile mostro che comunica solo attraverso la morte. Lo Shrike ha anche una propria chiesa che celebra il suo culto: la chiesa della Redenzione Finale.

Il Console è stato scelto a capo di un gruppo di persone che deve andare in “pellegrinaggio” verso Hyperion per scoprire cosa sta accadendo. 

I pellegrini, compreso lo stesso Console, sono in sette. Sette eccentrici e stravaganti personaggi. Tra i quali c’è anche una spia, un doppiogiochista, ma forse anche no.


Di particolare interesse, inoltre, sono gli elementi di cosmogonia, teogonia, etnologia, geologia e zoologia sparsi nella narrazione; anche se assai fantasiosi, sono estremamente particolareggiati, a dimostrazione dell’elevato livello culturale dell’autore.

Hyperion è un “mondo labirinto”, uno dei nove tra quelli conosciuti, il labirinto è un manufatto misterioso di cui si ignora l’origine e l’autore.


È un poema epico, talmente pieno di vicende, di significati e di personaggi di una potenza assoluta, da lasciare storditi. Un approccio così visionario, da procurare una vertigine quasi dolorosa. Un incubo apocalittico di guerra, con immagini e suggestioni di estasi erotiche. 

È un romanzo filosofico sul tempo che passa, che viene manipolato e sulla memoria umana così effimera, così impalpabile.


Inoltre, dato il suo finale in sospeso, credo che a torto lo si ritenga solo il primo capitolo di una serie, seppure il più riuscito. Certo non discuto, questo era il palese intento dell'autore, che voleva chiaramente prepararci ai sequel. 

Ma a ben vedere, a prescindere dalla volontà di Simmons, a me pare invece, perfettamente autoconclusivo, ma contemporaneamente pronto agli altri sviluppi successivi, con quel finale talmente onirico, che riempie invece di senso l'attesa angosciosa, che può riprodursi all'infinito, come accade spesso nella letteratura, nell'arte in genere e, quel che più conta, anche nelle più naturali vicende umane.


E in definitiva, proprio grazie alla struttura alla Chaucer, l'evento centrale del romanzo si ha con i racconti che fanno i pellegrini, facendo passare in secondo piano, o almeno sullo stesso piano, tutto il resto. Storie diverse, che tuttavia, hanno un fondamentale filo conduttore comune, atto a decifrare la missione su Hyperion e il ruolo dello Shrike.


Tra queste storie, quella di Martin Sileno è assai significativa. È la parabola ascendente e poi irrimediabilmente calante di un poeta con una prima opera di grande successo, per poi diventare uno scrittore commerciale seriale, che, tuttavia, sarebbe disposto a sacrificare ogni cosa pur di poter tornare ad essere un autore di qualità, proprio con un’opera ancora incompiuta: “I canti di Hyperion”, che ha, guarda caso, lo stesso titolo dell’intera saga di Simmons.

È chiaramente un riferimento critico e autocritico a una categoria di scrittori di successo e ai compromessi a cui si sottomettono, penalizzando la qualità, in particolar modo nella narrativa di genere.


Tuttavia, il racconto più bello, intenso e toccante è quello dello studioso “ebreo errante” Sol Weintraub e di sua figlia Rachel. Una storia talmente incredibile da restare impressa indelebilmente nella mente del lettore.

Ma è con il racconto del Console che tutto si ricompone alla fine, regalandoci anche il colpo di scena maggiore del romanzo.

E ai pellegrini, come a noi lettori, non spetta altro che affrontare “La caduta di Hyperion”.

sabato 16 dicembre 2023

Israel Joshua Singer, “I fratelli Ashkenazi” (1937)


 Consigli di lettura

Classici


Israel Joshua Singer, “I fratelli Ashkenazi” (1937)


«Terribili notizie, amici miei,

che disgrazia sugli ebrei.

Maggio è appena iniziato,

guardate che cosa c’è capitato.


Sono venuti con le torce, i bastoni e i coltelli,

hanno bruciato le case e fatto sfracelli,

hanno incendiato e ucciso senza pietà,

hanno lasciato in rovina mezza città.


Oh Dio, padre nostro, che sei nei cieli sopra di noi,

guardaci, proteggici, ora e poi.

Stendi sulle nostre teste la Tua potente mano,

riportaci in Terrasanta, il nostro regno lontano.»


«Sei solo un ragazzo, un tempo anch’io la vedevo come te, pensavo quello che pensi tu oggi. Ma l’esperienza mi fu maestra di vita. A Łódź arrivarono i primi stabilimenti a vapore, i telai a mano persero mercato, e la gente se la prese con gli ebrei. Gli studenti uccisero lo zar, e la gente se la prese con gli ebrei. Oggi, al primo sciopero, gli operai se la prendono con gli ebrei. Prima o poi pure i rivoluzionari se la prenderanno con gli ebrei…».


«Però, da’ ascolto alle mie parole. Tutta questa storia di operai e rivoluzioni… C’è stato un tempo in cui anch’io me la prendevo, ci credevo sul serio. Volevo fare la mia parte, aiutare a costruire il nuovo mondo, un posto più bello anche per i gentili… Quando ho visto il primo pogrom ho capito… Lascia perdere, non esisterà mai un tempo senza pogrom».


«Il socialismo però eliminerà le classi».

«Questi sono solo sogni, parole vuote, giovane amico mio. Esisteranno sempre due classi reciprocamente ostili: da una parte i lavoratori, dall’altra gli intellettuali improduttivi. I lavoratori sono solo la fanteria dell’esercito degli intellettuali, che portano avanti la loro guerra privata per la conquista del potere. È successo esattamente questo nella rivoluzione francese. Ci fu una lotta tra Danton e Robespierre per arrivare al potere, ma il sangue che venne versato per risolvere la contesa apparteneva al popolo. Lo stesso accade oggi in Russia…»


«Gli ebrei, solo loro, rimasero dov’erano, nei pressi delle loro case, delle sinagoghe, dei vecchi cimiteri. Ovunque, nelle loro città e nei villaggi, tutte le pareti erano tappezzate da cartelli e manifesti che parlavano della tempesta che stava per abbattersi su di loro. I ragazzini in età scolare, primi studenti dello Stato polacco recentemente liberato, si affannavano con i loro gessetti per scrivere sui muri slogan offensivi e minacciosi. «La Polonia appartiene ai polacchi. Fuori gli ebrei. Devono andare in Palestina, e se non ci andranno, sanno già che cosa gli capiterà». Il rumore dei vetri rotti dai sassi lanciati contro le abitazioni ebraiche iniziò a sovrastare la musica militare che accompagnava le masse in corteo.

Le sofferenze peggiori erano capitate agli ebrei della Galizia orientale, nei pressi di Leopoli. I cosacchi, ai tempi dell’avanzata russa, avevano messo a ferro e fuoco città e villaggi; molti ebrei erano stati costretti a scappare, altri erano stati portati in Siberia. Una terribile carestia aveva seguito le orme dei soldati invasori, e poi la peste aveva seguito la carestia. Le decine di migliaia di soldati ebrei che erano stati presi in seno alla popolazione galiziana per andare a irrobustire i ranghi dell’esercito austriaco facevano adesso ritorno in una terra piagata da povertà e devastazione.»


Finora non ho mai lavorato ad una recensione di un romanzo così intensamente come in questo particolare caso, tanta era la materia a disposizione e tanto lungo era il filo della narrazione da dipanare.

Sarebbe necessario liberarsi da stolti pregiudizi, appresi “all'università dei social”, o su passati e presenti pamphlet antigiudaici e antisemiti, se si vuole affrontare la lettura di questo straordinario libro. 


Perché “I fratelli Ashkenazi” non è solo un romanzo storico, ma è un’opera dalla quale apprendere la storia di un’epoca, di un popolo e di un pezzo d’Europa. Uno dei migliori romanzi del novecento. E come si può chiaramente evincere anche dal titolo, questa è a tutti gli effetti una saga familiare. 

Il titolo del romanzo è metaforico, ideato dallo scrittore per rappresentare un pezzo fondamentale del percorso dell’ebraismo ashkenazita.


Attraverso le vicende della famiglia Ashkenazi, vengono infatti ricostruiti storia e conflitti del popolo ebraico dell'Europa centro-orientale tra Polonia, Germania e Russia. È inevitabile, a questo proposito, che, durante la sua lettura, possa venire in mente, fatte le dovute differenze e proporzioni, un’altra grande saga familiare pubblicata all’inizio del XX secolo: quella de “I Buddenbrook” di Thomas Mann, di cui il fratello minore di Israel Joshua, Isaac Bashevis Singer, aveva tradotto “La montagna incantata”. Lo stesso Isaac, tra l’altro, riconobbe di essere molto debitore a Thomas Mann.


Le analogie tra le due grandi saghe sono molteplici, ma sono da rintracciare in particolar modo nella forma da grande affresco storico che le caratterizza entrambe; nel caso di Israel Joshua Singer, mediante le vicende di una famiglia ebrea, il romanzo ci conduce parallelamente nella descrizione dello sviluppo della cultura ebraica con le varie disparate tendenze, partendo dal chassidismo, e nella ricostruzione dei maggiori eventi storici, comprese la guerra russo-giapponese, la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione Russa. 

Israel Joshua Singer tornerà un po' di anni dopo alla saga familiare con “La famiglia Karnowski”, altra sua importante opera.


Ma a proposito di influenze letterarie, è abbastanza evidente anche un parallelismo tra i due fratelli Ashkenazi e Ivan e Alëša, due dei fratelli Karamazov. Personaggi paralleli, ma non sovrapponibili. Troppe le differenze tra le due coppie di fratelli, anche se una qualche affinità la si può rintracciare.

Israel Joshua Singer, col piglio del grande romanziere, ma con la fredda determinazione del cronista, ci accompagna attraverso decenni di fatti e di fenomeni sociali, nell'arco di quasi un secolo. Tutto questo visto dalle particolari condizioni e dalla prospettiva di uno scrittore ebreo polacco.


Il romanzo, nel quale non sono quasi mai nominate le date, ma che procede nel fluire continuo del tempo, si apre con la migrazione dei tessitori ebrei tedeschi della comunità chassidica ortodossa verso la Polonia nel XIX secolo. In Germania infatti, dopo le guerre Napoleoniche, la situazione economica stavano peggiorando, e con essa stava aumentando l'antisemitismo, mentre in Polonia le risorse erano ben diverse. I tessitori, quindi, vennero convinti a emigrare da inviati governativi e da condizioni tributarie vantaggiose. Questo anche perché «altrimenti nessuno avrebbe fatto i vestiti per i polacchi.»


In molti si fermarono nel villaggio di Łódź, altri continuarono verso altre città. Tuttavia, era Łódź il centro dell’attività dei tessitori, il cui potere a mano a mano cresceva, facendo crescere anche la cittadina e, contemporaneamente, espandendo la loro influenza ben oltre le sue mura. 

Quel che più importava fu che, nonostante inevitabili conflitti iniziali, i tessitori portarono lavoro per tutti.

Più tardi a Łódź e in Polonia arrivarono anche gli ebrei moscoviti, che avevano lasciato il loro Paese a causa delle espulsioni e delle persecuzioni sotto lo zar Alessandro III, e poi anche gli ebrei espulsi dalla Lituania.


Quella degli ebrei dell’Europa centro-orientale è una triste storia costellata da feroci discriminazioni, dai continui pogrom, passando per le persecuzioni hitleriane e staliniane, costretti quindi a trapiantare per lo più in America e in Israele la loro civiltà, continuando il flusso migratorio già inaugurato precedentemente a causa dei pogrom russi. La fuga, le persecuzioni e lo sterminio nei lager nazisti determinarono, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, un’estesa parte d’Europa quasi senza più ebrei, la cui scomparsa causò un grave impoverimento culturale e sociale del continente.


La produzione letteraria dei fratelli Singer è toccata e influenzata inevitabilmente da tali vicissitudini.

“I fratelli Ashkenazi” è un romanzo corale, anche se incentrato sulle figure dei due fratelli, due gemelli, ma, fin dalla nascita, completamente diversi. A tal proposito, assai poetici e suggestivi nel crudo realismo sono il parto e l'allattamento. «Uno è il ritratto sputato della madre, l’altro il ritratto sputato del padre». Sono i figli di Reb Abraham Hirsh Ashkenazi, chassidico osservante e studioso del Talmud.


La grandezza di questo romanzo sta soprattutto nella capacità di Singer di descrivere le differenze, le complessità e le particolarità minuziose dei singoli caratteri della galleria dei personaggi che affollano questa splendida opera. Figure, che sono simbolo di diverse concezioni delle tradizioni, della vita privata, del capitalismo e del nascente socialismo. L'autore rifugge dalle semplificazioni, dagli schematismi. Rende con estremo realismo, anche se con fantasiosa inventiva, le mille sfaccettature proprie del mondo ebraico. Possiede una visione estremamente eclettica che gli consente di assumere punti di vista diversi, anche opposti.


È un mondo affascinante e assai suggestivo, colmo di pietas e inventiva, spesso volgarmente marchiato dagli antisemiti con ignoranza, stupidità, disprezzo e fellonia attraverso l'uso di spregevoli e offensivi stereotipi. 

Ma l’intento di Singer non è affatto apologetico, è il fine autore che parla, che dà voce all’anima ebraica, non per questo si risparmia in critiche, anche spietate, usando perfino un pesante sarcasmo. Ma lo fa sempre con amore ed empatia. 


Crescendo, le differenze tra i due gemelli si evidenziarono sempre di più: Jacob Bunim era forte e robusto, socievole, generoso e sempre allegro; Simcha Meyer invece era debole e mingherlino, cupo e isolato, creava una barriera con le altre persone: gli amici e il resto della famiglia. Era caratterialmente molto astuto, subdolo ed egoista.

Singer punta molto su questo contrasto che gli permette di descrivere analiticamente una relazione di potere, a cui i legami familiari conferiscono un’intensa esaltazione.


“I fratelli Ashkenazi” è inoltre un romanzo su un pezzo importante della storia della Polonia, che prende il via dalla conflittuale, difficile convivenza tra polacchi, tedeschi, russi ed ebrei nella città di Łódź. Sono conflitti trasversali, tra popoli, tra generazioni e tra classi sociali, in alcuni casi anche particolarmente feroci.

Le pagine sulla rivolta operaia di Łódź e la degenerazione della stessa nel pogrom contro la popolazione ebraica, toccano vette di straordinaria, tremenda e rassegnata lucidità.


Singer descrive con tinte vivide le dinamiche di mostruoso sfruttamento degli strati più poveri della società, che prescindono dall’identità culturale, la corruzione di un universo degradato, l’ipocrisia e lo sciacallaggio, i soprusi sessuali, e lo fa con grande maestria e crudo realismo.

È, in definitiva, un romanzo su trionfo, splendori e miserie della Seconda Rivoluzione Industriale.

Lo scrittore riesce magicamente a creare una serie di episodi e storie diverse dentro il plot principale, di cui sono protagonisti ebrei e non ebrei.


Simcha Meyer, nella sua contraddittorietà, incarna lo spirito del capitalismo, l’ascesa e la decadenza della borghesia polacca dell'epoca. Intriso di un misto di spietatezza e pragmatismo, un autentico predatore, ed è colui che ha perso l’identità. Ma che, nella disperazione, la vorrà ritrovare a tutti i costi, attraverso un conflitto interiore irriducibile e commovente, nel momento in cui sembra sia giunta per lui la nemesi.

Assai significativa, in questo senso, è la rivalità tra i due fratelli, nemici in tutte le questioni personali, fatta di un disprezzo forse insanabile.


Tuttavia, il vero antagonista sociale e politico di Simcha Meyer, non è il fratello, ma Nissan Eibeshutz, ebreo che ha rinunciato ai suoi privilegi per schierarsi dalla parte degli sfruttati, uno dei leader socialisti di Łódź. Caparbio e volitivo allo stesso modo di Ashkenazi, ne rappresenta però il lato opposto, ingenuo e generoso, impregnato di ideologismo, così come il capitalista è colmo di delirio di onnipotenza. 

In definitiva, sono entrambi preda di un esaltato furore quasi messianico. Quello che va compiendosi è il loro destino parallelo. Entrambi saranno testimoni privilegiati a Pietrogrado della Rivoluzione Russa, ma dai lati opposti della “barricata”.


Ciononostante, il personaggio verso cui mostra più empatia Singer è Dinah, l’infelice moglie di Simcha Meyer, vittima delle convenzioni familiari, costretta a un matrimonio senza amore con un uomo egoico, prigioniera del suo ruolo, alla quale però lo scrittore non risparmia un insopportabile conflitto interiore per la sua volontaria sottomissione.


Assai memorabili sono le pagine di taglio dostoevskijano del dialogo tra il subdolo e astuto colonnello nichilista della gendarmeria, ex rivoluzionario, e un prigioniero politico, per mezzo del quale Singer dimostra tutta la sua arte di sapersi immedesimare in punti di vista diversi, persino opposti.

Così come lo sono le pagine della deportazione e dell’emigrazione verso la Russia, durante l’invasione tedesca alla fine della Grande Guerra, quando gli ebrei polacchi vennero chiusi in una morsa tra i due paesi nemici, con Łódź degradata in una crisi tremenda. Ebrei nel ruolo di vittime sacrificali di un conflitto che non li riguardava.


Da manuale le pagine sulla fine della Prima Guerra Mondiale, in un mondo completamente impazzito, in disgregazione, nel quale imperversarono i nascenti nazionalismi, con gli ebrei, senza una patria a cui fare ritorno, insultati, perseguitati e offesi, patirono di nuovo le discriminazioni, in modo ancora più feroce. Stretti, soprattutto tra ucraini e polacchi che si contendevano la Galizia.

Singer con maestria racconta tutto con toni apocalittici. Terribili e di un’attualità sconvolgente sono le pagine del pogrom di Leopoli del 1918 da parte dei polacchi. 


“I fratelli Ashkenazi”, è insomma una miscela di romanzo borghese e parabola chassidica, così come avviene anche nelle opere del fratello Isaac Bashevis e in quelle di Franz Kafka, raggiungendo tutti e tre un superbo livello qualitativo. 

Israel Singer punta molto sulla critica della dispersione dell’identità giudaica che corrisponde all’inevitabile caduta. In questo, la parabola di Simcha Meyer si specchia molto anche in quella del Faust di Goethe.

Alla fine arriverà una tragica, commovente, ma vana ricomposizione, con il tempo del sacrificio e del pentimento.


La letteratura yiddish, massima espressione di questa cultura, avrà proprio in America la possibilità di esprimersi più compiutamente, diffondendosi nelle comunità ebraiche americane e divenendone anche il mezzo con cui identificarsi. I fratelli Singer: Israel e Isaac (premio Nobel), saranno i rappresentanti più autorevoli e famosi.

Pur se scritto negli anni trenta del secolo scorso, il capolavoro di Israel Joshua Singer è in buona parte assimilabile anche al grande romanzo ottocentesco, sia per struttura, sia per spirito, che per buona parte della contestualizzazione storica. 

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