venerdì 30 giugno 2023

Vladimir Nabokov "Ada o Ardore - Una cronaca familiare" (1969)

 


Consigli di lettura


Vladimir Nabokov

"Ada o Ardore - Una cronaca familiare" (1969)


«“Tutte le famiglie felici sono più o meno diverse tra loro; le famiglie infelici sono tutte più o meno uguali” dice un grande scrittore russo al principio di un famoso romanzo (Anna Arkadievitch Karenina, trasfigurato in inglese da R.G. Stonelower, Mount Tabor Ltd., 1880). Questa asserzione ha poco, se non niente, a che vedere con la storia che verrà ora narrata, una cronaca familiare, la prima parte della quale è, forse, più vicina a un'altra opera di Tolstoj, Detstvo i otrocestvo (Childhood and Fatherland [Infanzia e patria], Pontius Press, 1858).»

[N.B.-citazione di Tolstoj intenzionalmente capovolta]


«Il nostro modesto Presente è, allora, il lasso di tempo di cui si è realmente e direttamente consapevoli, con l'indugiante freschezza del Passato ancora percepita come parte della sua immediatezza […] non ha nessuna importanza che noi non possiamo mai godere del vero Presente, che è un istante di durata zero, rappresentato da una grossa macchia, così come il punto senza dimensioni della geometria è rappresentato da un bel punto di inchiostro su un palpabile foglio di carta.»


«La vita di un individuo, secondo Ada, consisteva di un certo numero di classificazioni: le «cose vere» erano rare e non avevano prezzo, le «cose» e basta formavano il materiale ordinario della vita; e poi c'erano le «cose fantasma», altrimenti dette «foschie», come la febbre, il mal di denti, le delusioni atroci, e la morte. Se tre o più «cose vere» si verificavano contemporaneamente si formava una «torre», se si verificavano in un'immediata successione di tempo si otteneva un «ponte». Le «vere torri» e i «veri ponti» erano le gioie della vita, una serie di torri equivaleva al rapimento supremo che, però, non si verificava quasi mai. In alcune circostanze, in una certa luce, una «cosa» neutra poteva sembrare, o perfino diventare, realmente «vera», o anche, per converso, poteva coagularsi in fetida «foschia». Se capitava che le gioie e le assenze di gioia si mescolassero, simultaneamente o per gradi lungo la rampa della loro durata, ci si trovava di fronte a «rovine di torri» e «crolli di ponti».»


Questa è una recensione esagerata, con aggettivi esagerati, per un libro esagerato e minuziosamente "esasperante", ma in un senso, per così dire, positivo. Perché si può, e a volte si deve, essere anche dolcemente esasperanti. 

Nabokov in questo era un genio assoluto. Un genio letterario di un'originalità disarmante, non solo per quello che scriveva, ma soprattutto per come lo scriveva. 

Questa è una recensione scritta con grande difficoltà, per miei limiti personali, ma anche perché una qualsivoglia recensione mal si adatta alle opere di Nabokov, tanto sono ricche di particolari e sfumature difficilmente riassumibili e questo romanzo lo è ancora di più.


Una prosa sublime che è un incanto, col suo estremismo descrittivo e con le sue coloratissime iperboli. Un incanto che ti prende, ti rapisce e ti conduce per mano in dimensioni inesplorate. 

Leggere Nabokov non è mai facile. Pretende un'intensa concentrazione nel momento in cui ci si abbandona alla sua lettura. Coi suoi continui estenuanti riferimenti letterari, culturali e artistici, con le sue ossessive annotazioni, le torrenziali divagazioni e con il contrappunto dei suoi interludi.

Magari, è necessario anche dover rileggere più volte, non solo per capire, ma per assaporare meglio, con un fremito di piacere, che solo la lettura di grandi scrittori può dare.


Lo scrittore russo era un autore autenticamente fuori dagli schemi, e in questo romanzo lo conferma in maniera radicale.

"Ada o ardore" è qualcosa di inesplicabile, forse addirittura più penetrante di "Lolita", l'altro suo grande capolavoro del periodo americano, senz'altro più folle. 

È un romanzo totale e totalizzante. Una provocazione letteraria di grande spessore. 

A introduzione della storia, c'è un albero genealogico, nudo e crudo, che attraversa un arco di tempo di qualche secolo, dal diciottesimo, fino agli inizi del ventesimo. Ma con una particolarità: il mondo non è il nostro.


All'inizio del libro, si viene travolti da una vertigine, perché non si riesce a capire di che luoghi geografici si stia parlando, di quale contesto, e che personaggi siano quelli. Si resta completamente disorientati. "Ada o ardore" ha tutto l'aspetto di un romanzo ucronico e di universi paralleli con trovate steampunk, anche se ogni definizione è limitante. Perché potrebbe anche essere una saga familiare, un romanzo di formazione, un dramma sentimentale, un romanzo erotico su un amore proibito, un omaggio al grande romanzo ottocentesco, con chiari riferimenti a Tolstoj, Dickens, Dostoevskij, Puŝkin, Henry James e Proust, se non fosse per il fin troppo esplicito, voluttuoso, anche se incredibilmente poetico, contenuto erotico.


È tutto questo insieme. Però è anche molto di più: è un libro scandaloso, ma nel senso più ampio del termine. Scandaloso innanzitutto perché abbatte le convenzioni letterarie.

Il tutto condito dalla prosa travolgente, magnifica, eccitante ed eccitata, lussureggiante, perversa, allucinata, gotica, paradossale fino all'inverosimile, con un amore maniacale per il dettaglio, e con continue citazioni letterarie, deliziosamente e abilmente contraffatte, ma prese da autori reali del nostro mondo.


Il romanzo si apre con la famosa citazione di Tolstoj sulle famiglie felici e infelici, ma esattamente capovolta, la cui ironia ha come bersaglio le traduzioni letterarie che sovente deformano i concetti, ma anche per annunziare che il mondo ivi narrato non è il nostro.

La storia d'amore tra Ada e Van è il leitmotiv che fa da sfondo al romanzo, e che si protrae per una vita intera.

Tra tappeti volanti, immaginifiche larve, misteriose macchine, una flora lussureggiante e complice, avviene l'incontro con un inevitabile andamento voluttuoso.


Tutta la prima parte, di gran lunga la più estesa, è dedicata alla minuziosa descrizione dell'estatico, "impudico", ma nel contempo innocente, innamoramento preadolescenziale dei due bambini, e più tardi, di quello, con accenti decisamente più perversi, dei due ragazzi. 

Frequenti sono i richiami a "Lolita". La narrazione in terza persona dell'autore sfuma in quella preponderante del primo protagonista Van Veen, un racconto senza una delimitazione certa, e a sua volta, alternando la terza e la prima persona, e in quella delle immaginarie annotazioni di Ada.


Così, veniamo a scoprire che i luoghi hanno nomi diversi, che le nazioni si estendono oltre i loro limiti, che i popoli vivono entro diversi confini da quelli noti a questa nostra dimensione, si mischiano e si scambiano di posto. Si favoleggia che la nostra Terra sia un'altra versione della Antiterra, il mondo di questo romanzo che sarebbe invece quello reale, mediante la finezza di un abnorme ed efficace capovolgimento. 

Quando le persone muoiono, una comune credenza vuole, "ovviamente", che finiscano su Terra.


Per lo più, l'azione si svolge in un immaginario Estotiland Orientale, una parte del Canady, un mondo che è un insieme di Russia, Francia, Inghilterra e America, che è poi una rielaborazione immaginaria della regione reale così denominata, che appare nella Carta di Zeno, una mappa dell'Atlantico del nord del sedicesimo secolo, e che comprendeva i territori del Labrador, del Quebec e di Terranova, regioni attuali del Canada orientale.


Probabilmente, questo espediente narrativo rispondeva alla proiezione di un desiderio di Nabokov, appunto, su Russia, Francia, Inghilterra e America, riunite insieme. Il territorio che invece corrisponde con qualche approssimazione alla Russia di Terra si chiama Tartaria.

Non sono comunque molte le descrizioni di questo universo che concede lo scrittore ai lettori, lasciandole in buona parte alla loro immaginazione, facilitata dalla forza suggestiva della sua narrazione.


Ma non è un esercizio fantascientifico pretestuoso fine a sé stesso. È invece il desiderio di ricreare un mondo e un tempo, adatti alle speculazioni filosofiche di cui è caratterizzato il romanzo, all'ambigua duplicità dell'esistenza, e che tornano più volte tra le sue pagine, in particolare quelle sul Tempo e sullo Spazio, alle quali è dedicata quasi per intero la quarta parte, con il libro di Van Veen la "Tessitura del Tempo".


Era il modo in cui Nabokov cercava di rendere una pur vaga dimensione del suo immaginario, delle sue percezioni rispetto alla realtà. Della futilità e, al tempo stesso, della concretezza della vita.

Tutto ciò stimolato ancor più dalla sinestesia (ossessiva associazione di due parole appartenenti a due sfere sensoriali diverse) di cui lui stesso autore si diceva affetto.

Con la seconda parte, cominciamo a capire meglio le differenze tra Antiterra (anche detta Demonia) e Terra, grazie al riferimento a un romanzetto di fantascienza "Lettere da Terra", scritto da un Van ormai non più adolescente, nel quale immagina la nostra Terra. 


Intanto, dopo una pausa di qualche anno, e il racconto delirante della conseguente separazione, la storia tra i due riprende con contorni ancora più inquietanti, con un primo inaspettato, provvisorio, drammatico epilogo.

Con la terza, quarta e quinta parte, via via sempre più brevi, ma sempre più intense, il romanzo si conclude.

Lo scrittore russo crea un universo letterario originalissimo e personaggi di grande spessore, senza, tuttavia, prendere parte per nessuno di loro, come aveva già fatto anche in "Lolita". Non concede al lettore di empatizzare. Resta sempre in bilico tra la doppia prospettiva.


Questo romanzo è, infatti, anche un luminoso, decadente, impietoso, ma pur tuttavia, in qualche modo, apologetico affresco della classe aristocratica e di quella alto borghese con i loro vizi, manie, ipocrisie e splendori, a cavallo tra due secoli, aldiquà e aldilà della linea temporale. Aspetti che lo scrittore conosceva molto bene, date le sue origini.

Il suo sguardo è distaccato. Cosa che gli permette di evitare qualsiasi moralismo. Uno sguardo da entomologo, attività che, tra l'altro, Nabokov aveva realmente praticato.

mercoledì 28 giugno 2023

Niccolò Machiavelli - Strambotti


Strambotti


"STANZA

Io spero, e lo sperar cresce ‘l tormento:

io piango, e il pianger ciba il lasso core:

io rido, e el rider mio non passa drento:

io ardo, e l’arsion non par di fore:

io temo ciò che io veggo e ciò che io sento;

ogni cosa mi dà nuovo dolore;

così sperando, piango, rido e ardo,

e paura ho di ciò che io odo e guardo.


ALTRA

Nasconde quel con che nuoce ogni fera:

celasi, adunque, sotto l’erbe il drago:

porta la pecchia in bocca mèle e cera

e dentro al picciol sen nasconde l’ago:

cuopre l’orrido volto la pantera

e ‘l dosso mostra dilettoso e vago;

tu mostri il volto tuo di pietà pieno,

poi celi un cor crudel dentro al tuo seno."


Niccolò Machiavelli


[Nell'immagine: "Niccolò Machiavelli nello studio", Stefano Ussi, 1894]

martedì 27 giugno 2023

Tommaso Landolfi, "Racconto d'autunno", 1947 - incipit


 «La guerra m'aveva sospinto, all'epoca di questa storia, lontano dai miei abituali luoghi di residenza. Due formidabili eserciti stranieri si scontravano allora sul nostro suolo, conducendo una campagna cruenta e che parve infinita alla maggior parte della popolazione, la quale ne fu, come si immagina, direttamente e barbaramente danneggiata. Inoltre le esose pretese, in uomini e materiali, d'uno di questi eserciti (l'invasore, che lentamente s'andava ritirando attraverso il paese, davanti all'altro, detto liberatore), nonché spirito patriottico o compromissione politica, costrinsero numerosissime persone a cercar rifugio per lunghi mesi o anche per anni in posti selvaggi e discosti dalle grandi strade, abbandonando i propri interessi, i propri averi e le famiglie medesime. Dove, coloro che ne avevano la possibilità o se ne sentirono il genio, si organizzarono per una resistenza armata o addirittura per l'offesa, altri resisterono almeno passivamente alle imposizioni degli invasori, altri infine badarono soltanto a togliersi dal folto della mischia.»


(Tommaso Landolfi, "Racconto d'autunno", 1947)

venerdì 23 giugno 2023

Thelonious Monk "Thelonious Himself" (1957)

 


I Classici del Jazz


Thelonious Monk

"Thelonious Himself" (1957)


Il piano di Monk è sicuramente la colonna sonora migliore per un lieve giorno di pioggia, di fronte a una finestra attraverso la quale poter guardare l'acqua che si posa sul vetro e che scorre via, lasciando una miriade di goccioline.


In questo caso l'ideale sarebbe Thelonious che suona da solo, o al massimo accompagnato da un sax, magari di Coltrane. L'esperienza sarà a dir poco suggestiva, considerato l'alto grado di romantica malinconia, ma assolutamente priva di sdolcinatezza e carinerie, propria della musica del nostro grande pianista.


A prescindere dalle suggestioni, sono i lavori che Monk ha eseguito da solo quelli che rendono maggiormente l'idea del suo genio. Anche se onestamente è molto difficile scegliere tra le sue opere discografiche, considerato il livello qualitativamente molto alto delle sue produzioni.


Sarebbero quattro, comunque, i dischi da ascoltare, registrati dal pianista in questa forma: "Monk Piano Solo", "Thelonious Himself", "Alone in San Francisco" e "Solo Monk". Registrazioni che splendono della potenza sonora e della bellezza che soltanto lui sapeva tirare fuori dal piano, con quel suo stile unico e inimitabile.


Quel suo modo di suonare basato sulle sovrapposizioni armoniche, che sconfinava a volte nella dissonanza atonale, ma che restava nello stesso tempo così infinitamente dolce e suadente, viene completamente fuori quando può eseguire i suoi pezzi più famosi, e spesso non solo questi, in completa e magnifica solitudine.


Il mio consiglio cade su un album in particolare, quel "Thelonious Himself" che contiene anche il suo capolavoro assoluto, la sua composizione più famosa: "'Round Midnight". Esiste un'edizione in cd, in cui è presente in due differenti versioni, una delle quali supera addirittura i venti minuti. Il grande classico viene rieseguito, destrutturato, scomposto e stravolto, mantenendo, però, inalterata tutta la sua seduzione. 

Solamente nel brano "Monk's Mood", il pianista viene affiancato da John Coltrane al sax tenore e da Wilbur Ware al contrabbasso.


Non c'è noia nel Monk che suona in solitudine, la bellezza dei suoi suoni è così intensa, da conquistare chiunque, anche chi non è un appassionato di jazz e anche nei brani più lunghi.

Una musica che ha il potere di soggiogare ancora oggi, tanto si mantiene attuale, unica e seducente.


domenica 18 giugno 2023

Laudato sie

 


"Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,

spetialmente messor lo frate sole,

lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.

Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:

de te, Altissimo, porta significatione" 


Francesco D'Assisi

sabato 17 giugno 2023

Richard Matheson "Tre millimetri al giorno" (1956)


Consigli di lettura 

Richard Matheson

"Tre millimetri al giorno"

(1956)


Richard Matheson era uno scrittore unico, con notevoli capacità letterarie e di sintesi, un puro inventore di storie straordinarie.

Torno a recensirlo di nuovo e per la terza volta, dopo "Io sono leggenda" e "Io sono Helen Driscoll", con quest'altro suo grande capolavoro.

Lo so, amo ripetere spesso che è stato uno degli scrittori chiave del novecento, uno scrittore relegato purtroppo da certa critica in una nicchia, portando come motivazione il fatto che la narrativa di genere fosse un'espressione poco degna di appartenere al canone letterario. Ma è proprio per questo che non basta mai ricordarlo.


Matheson, è vero, è stato certamente uno scrittore di genere, come lo sono stati molti altri, come lo furono anche, al di là di ogni paragone, Edgar Allan Poe e Alexandre Dumas, per fare solo due esempi assai illustri. Però, si pensi anche a "La metamorfosi" di Kafka, da cui chiaramente Matheson ha tratto ispirazione per "Tre millimetri al giorno". Quindi, questa "appartenenza" non dovrebbe togliere nulla al valore reale di un certo tipo di letteratura.


In Italia, abbiamo, d'altronde, un capolavoro immenso come la "Divina Commedia", che va sicuramente annoverata nella letteratura di genere, (che cos'è se non anche un poema fantasy?), e nessuno credo che, per questo, sarebbe portato ad attenuarne l'imprescindibile importanza, anzi. Dante è stato forse il più grande creatore di mondi immaginari.


La fantascienza, il fantastico, il romanzo storico, il thriller, l'horror, quando sono di alto profilo, offrono soprattutto un eccellente pretesto per raccontare altre cose, per scandagliare l'animo umano, per analizzare i rapporti sociali. 

In verità Matheson non è stato un mero scrittore di genere, ma un maestro della "contaminazione" tra generi.

La paccottiglia si trova dappertutto, anche nel mainstream, anche tra la narrativa da premio letterario.


Matheson, a prescindere da queste implicazioni, non solo è stato un grande scrittore di romanzi e di racconti, ma anche un grande sceneggiatore di film, in particolare di diversi film di Roger Corman, e di alcuni episodi di serie tv storiche come "Ai confini della realtà", "Star Trek" e "Alfred Hitchcock presenta".

Tuttavia, il suo grande capolavoro come sceneggiatore, resta comunque "Duel" di Steven Spielberg, tratto dal suo più celebre racconto.


E a proposito di "Duel", Matheson, a prescindere dalle classificazioni, è stato comunque un grande poeta della solitudine.

Come definire, infatti, alcuni suoi romanzi e molti suoi racconti, se non come un'impietosa, minuziosa e implacabile analisi, in forma narrata, della solitudine umana? 

Una metafora della solitudine e non solo.


Tralasciando, ma non troppo, il caso di "Io sono Helen Driscoll", prendiamo come esempio questo romanzo e "Io sono leggenda". Due libri che traggono spunto da due idee se volete semplici e banali. Il primo racconta del graduale rimpicciolimento del protagonista a causa di una nube di radiazioni e il secondo di un uomo costretto a vivere in un mondo nel quale gli esseri umani sono gradualmente scomparsi, trasformandosi in vampiri.


Il genio di Matheson traduceva queste idee in pura letteratura, servendosi della simulazione del punto di vista dei protagonisti. Nelle sue pagine, la quotidianità e il microcosmo assumono l'aspetto del mostruoso, dove l'eroe è una persona comune: debole ed emarginata: è considerato un diverso a causa di un concorso di circostanze, e non per scelta o per nascita; colpito in un caso dall'indifferenza, dovuta alla progressiva impossibilità di comunicare; e nell'altro dalla violenza dei suoi simili, che simili non sono più.


Ma, mentre "Io sono leggenda" è un romanzo, in cui l'orrore prende il sopravvento, una storia interamente nera, nella quale ha senso solo, almeno apparentemente, la rassegnazione, in questo libro Matheson va oltre in senso filosofico. Fa affrontare l'orrore al suo protagonista, che resiste strenuamente e non si dà per vinto, neanche di fronte all'evidenza. Nel primo, inoltre, erano gli altri a trasformarsi, nel secondo, invece, chi si trasforma, il mostro che perde la normale struttura fisica, è il protagonista, che diventa mostro anche per sé stesso. 


Rischiamo di diventare tutti mostri gli uni per gli altri, o così potremmo arrivare a sentirci. Mostri, incapaci di comunicare. Sembra suggerire lo scrittore.

Pensiamo di essere presenze, ma rischiamo di diventare assenze, proiezioni.

Proiezioni, in una continua e infinita reciprocità, fino a diventare astrazioni, aberrazioni, fino a precipitare nell'abisso del nulla più assoluto. E per contrastare questo destino, si continua a combattere, a esistere e ad amare.

Da qui, di conseguenza, a Scott Carey si impone l'urgenza dell'adattamento, perde il contatto con il mondo normale e va alla ricerca di un altro mondo, che può diventare la sua nuova casa. Non è un'opportunità per cambiare, ma una necessità per poter sopravvivere. 


Se andassimo oltre, potremmo ipotizzare ulteriori analogie, a prescindere dalla stessa volontà di Matheson, qualcosa che lui intuiva, nel prevedere il progressivo decadimento e annientamento dell'umano a opera dell'uomo stesso, qualcosa che, però, ancora non poteva conoscere. L'uomo che si rimpicciolisce è l'uomo (a)social, un piccolo essere astratto che entra nei social network e nelle I.A., viene masticato e ridotto alle dimensioni di una pulce, a puro flusso elettronico di informazioni. 


Non ha più un'identità fisica, ma si ciba di virtuale ed è cibo virtuale egli stesso. Vive in un mondo fantasmatico, illusorio, ma allo stesso tempo con nuove concrete regole, persino troppo concrete, dal quale rischia di essere inghiottito irreversibilmente. Si convince sempre più che esistere vuol dire mostrare un'identità preconfezionata, artificiale, che vivere è la rappresentazione continua di questa identità. Una scatola vuota. La materializzazione di un incubo, la personificazione stessa di un delirio allucinatorio.


Da questo romanzo fu tratto nel 1957 dal regista Jack Arnold, e con la sceneggiatura dello stesso Matheson, un film molto bello e divertente: "Radiazione BX distruzione uomo". Una delle mitiche pellicole di quello che chiamano cinema di "serie b".

giovedì 15 giugno 2023

Molière e l'ipocrisia

 


Molière e l'ipocrisia


Scritto quasi quattro secoli fa. 

Ditemi se non è ancora attuale.

Soprattutto la parte finale relativa a coloro che sono in buona fede. 

Molière subì la censura e diversi feroci attacchi proprio per la sua dura critica, espressa nelle sue opere, in particolare nella commedia "Il Tartufo", nei confronti di personaggi che esercitavano più o meno potere, che usavano già allora manipolare vittime ingenue, vittime che si trasformavano sovente a loro volta in carnefici.

Una storia lunga secoli e millenni, vecchia, come è vecchio il potere, la sua ipocrisia, e il conseguente correlato moralismo. Adattabile, inoltre, a qualsiasi contesto.


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"Il personaggio dell’uomo onesto, oggigiorno, si presta più di qualsiasi altro ad essere imitato, e quella degli ipocriti è la migliore delle confraternite. È un’arte in cui l’impostura viene sempre rispettata; ed anche quando viene scoperta non si osa dire nulla contro di essa. Tutti gli altri vizi umani sono esposti al biasimo, e chiunque è libero di attaccarli apertamente; ma l’ipocrisia è un vizio privilegiato, che, di sua mano, chiude la bocca a tutti, e gode tranquillamente di una sovrana impunità. A forza di infingimenti, si stabilisce fra le persone della stessa risma un legame strettissimo. Basta allora toccarne una sola per averle tutte contro; ed anche quelli che sono conosciuti per la loro buona fede e che tutti tengono in conto di veri devoti, costoro, dico, sono lo zimbello degli altri; cadono con innocenza nella pania degli impostori e diventano ciechi difensori proprio di quei tali che delle loro azioni sono le scimmie."


Dal "Don Giovanni o Il convitato di pietra" (1665)


mercoledì 14 giugno 2023

Incipit da Cormac McCarthy, "La strada" (2006)


 «Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti piú buie del buio e giorni uno piú grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro. Si tolse di dosso il telo di plastica, si tirò su avvolto nei vestiti e nelle coperte puzzolenti e guardò verso est in cerca di luce ma non ce n’era. Nel sogno da cui si era svegliato vagava in una caverna con il bambino che lo guidava tenendolo per mano. Il fascio di luce della torcia danzava sulle pareti umide piene di concrezioni calcaree. Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito. Profonde gole di pietra dove l’acqua sgocciolava e mormorava. I minuti della terra scanditi nel silenzio, le sue ore, i giorni, gli anni senza sosta. Poi si ritrovavano in una grande sala di pietra dove si apriva un lago nero e antico. E sulla sponda opposta una creatura che alzava le fauci grondanti da quel pozzo carsico e fissava la luce della torcia con occhi bianchissimi e ciechi come le uova dei ragni. Dondolava la testa appena sopra il pelo dell’acqua come per annusare ciò che non riusciva a vedere. Rannicchiata lí, pallida, nuda e traslucida, con le ossa opalescenti che proiettavano la loro ombra sulle rocce dietro di lei. Le sue viscere, il suo cuore vivo. Il cervello che pulsava in una campana di vetro opaco. Dondolava la testa da una parte all’altra, emetteva un mugolio profondo, si voltava e si allontanava fluida e silenziosa nell’oscurità.»


Cormac McCarthy, "La strada" (2006), incipit

domenica 11 giugno 2023

"I fantasmi della Ciociaria - Storie di spettri e presenze dei luoghi più infestati del territorio" (2023) AA. VV.


 
Consigli di lettura


"I fantasmi della Ciociaria - Storie di spettri e presenze dei luoghi più infestati del territorio" (2023) AA. VV.


Questo consiglio di lettura, ovviamente, è diretto soprattutto a chi ha legami con la Ciociaria, come il sottoscritto, o in genere con il Lazio.

C'è una leggenda che gira tra gli abitanti del paesello paterno, in cui si narra che l'anima di un soldato tedesco, morto durante la Seconda Guerra Mondiale, si aggirerebbe la notte nei pressi della "Tromba cantante", tornante dalla particolare forma della strada che si inerpica verso Pescosolido e proveniente da Sora, così soprannominato per la vaga rassomiglianza con la curva della tromba del grammofono. Allo stesso modo circolano voci, non meglio precisate, sul cimitero. 

Qualche mistero, anche noi cugini, da piccoli e da ragazzi, forse suggestionati, ci raccontavamo pure sulla casa paterna.


Pescosolido, probabilmente per le sue piccole dimensioni, e quindi poco conosciuto ai curatori, che sono andati a caccia di storie presso i ciociari locali, purtroppo non è rappresentato in questa raccolta. La pubblicazione è un'originale e suggestiva iniziativa editoriale del gruppo "Italian Ghost Story", che oltre ai libri, promuove eventi e spettacoli a tema sui fantasmi.

"I fantasmi della Ciociaria" fa parte di una serie di volumi dedicata al Lazio. Sono stati infatti già pubblicati anche: "I fantasmi di Terracina", "I fantasmi della Tuscia",

"I fantasmi dei Castelli Romani" e "I fantasmi di Fondi".


Questo volume contiene una serie di affascinanti racconti horror e mistery che sono rielaborazioni di leggende del luogo. Le storie sono legate a diversi paesi e cittadine della provincia di Frosinone, capoluogo compreso.

È un progetto che, da quello che ho capito, si ha intenzione di ampliare anche fuori dal Lazio, e che dovrebbe far parte di una più complessiva iniziativa denominata "ghost tourism", estesa a tutta Italia, che oltre ai libri, comprenderebbe anche gli eventi e gli spettacoli.

Una curiosità: la grafica della copertina di questo volume è stata curata da Matteo Brandi. Suppongo che sia così anche per altri progetti. 

mercoledì 7 giugno 2023

Sorvegliare, punire e riabilitare

 


Sorvegliare, punire e riabilitare


Nel 1981, si tennero alcuni referendum: il più famoso fu quello sull'aborto, con due quesiti di segno opposto. Furono indetti, però, anche altri tre quesiti su alcuni articoli del codice Rocco, eredità del regime fascista. Uno di questi prevedeva l'abrogazione dell'ergastolo, referendum promossi soprattutto dai Radicali. All'epoca ero un movimentista, "cane sciolto", reduce dal movimento del 1977. Votai sì e feci anche nel mio piccolo, un pò di campagna referendaria, che allora, si faceva dal vivo (oggi, diremmo in presenza 🙈). 


Spesso mi scontravo dialetticamente coi Radicali, ma ero sovente d'accordo con loro sulle battaglie libertarie. Quella fu la grande stagione dei referendum, quando avevano ancora ragion d'essere, perché si riusciva a coinvolgere l'intero Paese nel dibattito, e quindi si riusciva sempre a superare il quorum. 

Il referendum si perse (in tutti e cinque, prevalse il no), ma sull'ergastolo, si raggiunse il discreto risultato del 22%.


Tuttavia, col tempo, si rivelarono una grande illusione anche dal punto di vista testimoniale, considerato che nei decenni successivi, vennero dissipate decine e decine di battaglie, senza aver prodotto ben poco nelle coscienze, se non sconforto e rassegnazione. 

Alcuni referendum, inoltre, sono stati assolutamente disattesi, come quello sull'acqua pubblica. Per non parlare del boomerang rappresentato da quelli con cui non si raggiunse il quorum e di quelli non ammessi con spirito altamente "neutrale" dalla Corte Costituzionale, dopo l'enorme dispendio di energie e costi economici, fisici e morali, e del ricorso all'istituto referendario per questioni marginali, di scarso valore, contribuendo così alla sua svalutazione.


E l'uso dello strumento degenerò, quindi, anche per motivi opposti. Ma soprattutto per la manifesta obsolescenza della costituzione, come d'altronde abbiamo potuto constatare in questi ultimi tre anni.

C'è chi oggi si ostina ancora a riporre fiducia nello strumento referendario, quando è quasi del tutto assente la capacità di riuscire a fare massa critica, con il rischio di regalare al sistema un consenso schiacciante, con un esito contrario alle nostre aspettative.


La tendenza al "facciamoqualcosismo" è una delle componenti più deleterie dell'attivismo a tutti i costi. Prodotta da una distorta percezione della realtà e delle proprie potenzialità, ostacola la riflessione e la consapevolezza, e favorisce la coazione a ripetere sempre gli stessi errori, con grave dispendio di energie, favorendo anche la rassegnazione.


Oggi, solo per fare un esempio del tutto ipotetico, la nuova ondata giustizialista e forcaiola sulla pena di morte e sulle "pene esemplari", che è diffusa anche in buona parte dell'area del cosiddetto dissenso, renderebbe ridicolo qualsiasi  referendum sull'ergastolo. All'epoca, almeno un minimo di garantismo era ancora presente nella società, grazie alla mobilitazione di buona parte dell'opinione pubblica.


La sua prevedibile nuova sconfitta finirebbe per sdoganarne un uso più frequente e più duro, visto che oggi nel nostro Paese è applicato in casi limite.

Per non parlare degli errori giudiziari, che sono spesso causati da sentimento di vendetta.

Il desiderio di vendetta rende ciechi gli umani, facendo emergere gli istinti peggiori. Chi parla di "risarcimento" delle vittime, non sa di cosa parla, sta parlando solo di vendetta. La giustizia, seppur parziale, è ben altra cosa. È facile costruire il capro espiatorio, quasi sempre funzionale al potere dominante.


Premesso che la pena di morte è un vero abominio: gli uomini giocano a fare Dio, vorrei ricordare, a tal proposito, la vicenda di Sacco e Vanzetti, di cui ho scritto un po' di giorni fa, con la recensione di un libro. 

I due anarchici innocenti, morirono sulla sedia elettrica. Ma di fronte allo sconto di pena, tramite carcere a vita, risposero: "O libertà, o morte". E si rifiutarono di chiedere la grazia con la commutazione della pena, andando avanti con lo sciopero della fame, che interruppero solo grazie all'intervento di amici e parenti che riponevano ancora fiducia nella giustizia degli uomini. 

Oltre a non riconoscere, in piena coerenza, nessuna autorità, sapevano benissimo che il carcere a vita con regime duro, li avrebbe condannati ad una morte morale peggiore di quella fisica, e per due spiriti liberi come loro, sarebbe stata la dannazione.


Un discorso a parte meriterebbe l'istituto carcerario tout court, con l'intento dichiarato di rieducazione dei condannati, rivelatasi solo una favoletta illusoria per cuori teneri. Ci troviamo al cospetto di un sistema giudiziario e carcerario appositamente disfunzionale che non garantisce un processo equo, favorendo discriminazioni e privilegi, e di conseguenza, non garantisce la certezza della pena e un percorso di riabilitazione.

Ogni regime, inoltre, ha tutto l'interesse a mantenere le carceri un inferno, non per riabilitare e rieducare, ma per favoreggiare la radicalizzazione dei comportamenti criminali, con abusi, soprusi, sevizie, funzionali alla riproduzione del sistema sociale stesso. Di tutti i sistemi di potere. Si pensi solo al fatto che i peggiori criminali comuni venivano usati come kapò nei lager.

domenica 4 giugno 2023

Lo strano caso dello Studio Khanna, ovvero come giocare a fare Dio e perdere.


Lo strano caso dello Studio Khanna, ovvero come giocare a fare Dio e perdere.


Già negli anni cinquanta, l'impostazione malthusiana del pensiero scientifico dominante era abbastanza evidente, con la tendenza a medicalizzare diversi aspetti dell'esistenza umana. 


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«La sovrappopolazione è una malattia sociale che produce senza dubbio il logoramento del corpo, della mente e dello spirito come fanno altri noti flagelli — la lebbra, la tubercolosi, il cancro... — [II] problema in India [è] di proporzioni epidemiche... Alla pianificazione familiare manca l’elemento spettacolare di una penicillina... La motivazione abituale è resistenza effettiva della tubercolosi o della sifilide, o che una famiglia ha troppi bambini... Nella considerazione e nella conoscenza basilare delle cause dei differenti tipi di sovrappopolazione, il mondo del 1953 è suppergiù nella stessa situazione dei pionieri della fine del XIX secolo in rapporto a molte malattie adesso controllabili.»


Dal Piano originale di analisi dello Studio Khanna per la riduzione delle nascite nel Punjab del 1953 (finanziato anche dalla Fondazione Rockefeller), citazione tratta dal libro di Mahmood Mamdani "Il mito del controllo demografico (Medicina e potere)" (1977)


La vicenda legata a questo piano fu assai singolare. La maggioranza della popolazione del Punjab prese per il naso questi sperimentatori, che credevano di essere stati convincenti: mentre assicurava loro che avrebbe preso le pillole e usato altri prodotti antifecondativi, li buttava o li destinava ad altri usi, come quello decorativo: un tizio aveva fatto addirittura una statua con i vari tipi di contraccettivi.

Gli espertoni ci misero qualche anno prima di scoprirlo, ma anche in quel caso non impararono nulla: da perfetti colonialisti e classisti, in possesso della verità scientifica, attribuirono il fallimento all'ignoranza dei locali e credettero che il problema si sarebbe risolto con un'informazione maggiormente pervasiva.

Intanto, l'incremento demografico, non diminuì, ma si stabilizzò, per motivi naturali, economici e in base al cambiamento di abitudini culturali, a dispetto degli interventi dei malthusiani.

Gli abitanti del Punjab erano consapevoli della situazione demografica, ma agirono razionalmente, assecondando le loro esigenze di carattere economico, che ritenevano giustamente prioritarie, e in qualche modo regolarono anche l'aspetto demografico, con le emigrazioni verso zone con maggiori possibilità lavorative, che portavano sostentamento ai nuclei familiari di origine. In definitiva, esisteva un problema socio economico che fu del tutto trascurato. E il piano fallì.


E così conclude Mamdani:


«Nell'analisi definitiva, c’era ben poca differenza nelle conclusioni dei direttori e dei funzionari, dei membri americani e di quelli indiani dello Studio Khanna. Se si eccettuano due funzionari, nessuno era disposto ad ammettere che gli abitanti della zona di Khanna agissero razionalmente. 

I componenti il gruppo di studio avevano mal riposto i propri timori di agire sotto la spinta di un pregiudizio culturale. Era stato compiuto ogni sforzo per far sì che gli operatori settoriali fossero tutti punjabi e che i supervisori americani avessero una notevole familiarità con l'India. Ma i funzionari, sebbene punjabi come gli abitanti dei villaggi, appartenevano tutti alla classe media urbana e istruita. Ciò che avevano in comune con i direttori era una cultura borghese. Non fu un pregiudizio nazionale (occidentale in opposizione a indiano) a inquinare lo studio, ma un pregiudizio di classe. Questo pregiudizio permeò indifferentemente sia i funzionari sia i direttori, senza distinzione di razza, di religione o di "cultura."»

sabato 3 giugno 2023

Citazione da "Ada o ardore"


L'infanzia è un mondo pieno di cose, di sensazioni, di sentimenti espressi e inespressi, molto più di quel che si pensa solitamente, di giochi, ma anche di tanti conflitti interiori. Si filosofeggia, senza esserne consapevoli, per questo i concetti creati sono integri, privi di altre finalità se non quella di trovare un senso a ciò che ci circonda. Né migliori, né peggiori, ma diversi, perché si svolgono su un altro piano. A volte più intensi, a volte meno, rispetto all'età adulta. 

Per questo non serve tanto osservare i fanciulli, quanto cercare di ricordare ciò che si era, per non perderlo definitivamente.



👇Da " Ada o ardore" di Vladimir Nabokov:👇

“Ci sono bambini capaci di concepire sistemi filosofici purissimi, e anche Ada ne aveva elaborato uno tutto suo. Era a malapena trascorsa una settimana dal suo arrivo, quando Van fu ritenuto degno di essere iniziato alla sua rete di sapienza. La vita di un individuo, secondo Ada, consisteva di un certo numero di classificazioni: le «cose vere» erano rare e non avevano prezzo, le «cose» e basta formavano il materiale ordinario della vita; e poi c'erano le «cose fantasma», altrimenti dette «foschie», come la febbre, il mal di denti, le delusioni atroci, e la morte. Se tre o più «cose vere» si verificavano contemporaneamente si formava una «torre», se si verificavano in un'immediata successione di tempo si otteneva un «ponte». Le «vere torri» e i «veri ponti» erano le gioie della vita, una serie di torri equivaleva al rapimento supremo che, però, non si verificava quasi mai. In alcune circostanze, in una certa luce, una «cosa» neutra poteva sembrare, o perfino diventare, realmente «vera», o anche, per converso, poteva coagularsi in fetida «foschia». Se capitava che le gioie e le assenze di gioia si mescolassero, simultaneamente o per gradi lungo la rampa della loro durata, ci si trovava di fronte a «rovine di torri» e «crolli di ponti».

I particolari pittorici e architettonici della sua metafisica rendevano le notti di Ada meno difficili di quelle di Van, e quella mattina — come la maggior parte delle mattine — lui aveva la sensazione di ritornare da una contrada molto più remota e sinistra di quella da cui arrivava lei con la sua luce solare.”

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

  Cinema Cult movie “Otello” (1951) regia di Orson Welles con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier. «Fosse pia...