sabato 29 luglio 2023

"The Commitments" (1990)

 


Cult Movie


"The Commitments" (1990)


Regia di Alan Parker

con Ken Mc Cluskey, Johnny Murphy, Gelim Gormley,

Angeline Ball, Andrew Strong, Michael Aherne, Robert Arkins.


"Gli irlandesi sono i più negri d'Europa, i dublinesi sono i più negri d'Irlanda, e noi della periferia siamo i più negri di Dublino. Quindi, ripetete con me ad alta voce: sono un negro e me ne vanto!" (Inutile dire che nel film, neanche un protagonista è di colore).


"Che tipo di musica dovremmo fare, Jimmy?" "Siete lavoratori, giusto?" "Beh, se ci fosse il lavoro." "Allora, la vostra musica deve ricordare l'ambiente, le famiglie da cui venite. Deve parlare il linguaggio di strada, deve parlare di fatica e di sesso. Niente canzoncine smielate del tipo tienimi stretta a te tutta la notte. Capito? Deve parlare di corpi, pomiciate, cosce, lingue, scopate, tette." "Magari... e che musica è questa?" "Il soul."


"Il soul ha il ritmo del sesso e anche il ritmo della fabbrica, ha il ritmo dell'operaio, del sesso e della fabbrica. Il soul è musica che il popolo capisce. Certo, è musica semplice ma ha qualcos'altro, qualcosa di speciale, è onesta, ecco, è sincera. Non è musica stronza, ha il coraggio di dire che viene tutto dal cuore."


Dialoghi e battute fulminanti, come fulminante e sostenutissimo è il ritmo di "The Commitments", un film scorrettissimo che ha il sapore d'Irlanda e dei suoi pub. Jimmy, giovane dublinese con la passione del soul, riesce a mettere su una band tramite un annuncio. Questa band si formerà gradatamente pescando tra cantanti e musicisti dilettanti più o meno giovani.


Per la presenza di molte analogie, è stato presentato come la risposta irlandese a "The Blues Brothers", impossibile non pensare a quel film, ma è una definizione che pecca un po' di superficialità, perché non è solo questo. È un film che chiude emblematicamente e in maniera definitiva un'epoca di libertà e di istinto, che pone un sigillo, una sorta di canto del cigno: nulla sarà più come prima; ed è sporco, trasgressivo, sanguigno, rozzo, sensuale senza essere patinato e costruito, assolutamente privo di freni inibitori, forse perfino di più del capolavoro di John Landis.

 

La storia, tratta da un romanzo di Roddy Doyle, sicuramente uno dei film più riusciti di Alan Parker, che qui evita accuratamente ridondanze e retorica, tipici invece di altre sue opere, è un omaggio alla gioventù dublinese degli anni ottanta, e in genere a tutti i giovani appassionati di musica di quel periodo. E' un omaggio anche al soul e ai suoi grandi: James Brown, Aretha Franklin, Tina Turner, Joe Tex, Otis Redding, Joe Cocker, Marvin Gaye e Wilson Pickett; ma lo è anche all'Irlanda e ai musicisti irlandesi di quegli anni. Un omaggio, soprattutto, alla periferia e alla working class di Dublino.

 

Tuttavia, "il convitato di pietra" del film, il vero nume tutelare della storia è il più grande soul man d'Irlanda: quel Van Morrison, che anche se non viene mai nominato, fa percepire la sua presenza durante tutto il film.

Opera frizzante e divertente, costruita con ironia e intelligenza, nonché con grande gusto musicale: la colonna sonora è splendida, interpretata alla grande, gli attori sono tutti molto bravi. Da segnalare a proposito di Pickett, una versione bellissima del suo hit: "In the midnight hour".


"The Commitments" riesce efficacemente a rendere l'idea del livello di creatività e di fantasia in cui era arrivato il rock negli anni ottanta, riuscendo continuamente a rinnovare i suoi canoni attraverso la contaminazione dei generi, senza  il timore di non riuscire mai a essere all'altezza. La freschezza e la spontaneità erano un regola assoluta e i risultati non si facevano certo attendere. Il film è espressamente dedicato al contributo dato da una parte di quella musica: quella di derivazione soul e rhythm 'n blues. Per fare solo un esempio, basti pensare ai Dexys Midnight Runners di Kevin Rowland.


Assai spassosa è una delle sequenze iniziali, in cui Jimmy, improvvisatosi manager, dà audizione a una galleria di personaggi fuori di testa, al limite del grottesco e dell'impossibile, che rappresentano tutte le diverse varianti del rock e della musica popolare del periodo. Da segnalare in maniera particolare Andrew Strong e la sua indimenticabile voce da soul man.


Divertentissime sono le insensate risse che spesso fanno da contrappunto e che contribuiscono all'atmosfera caotica, anarchica e folle del film. 

Semplicemente irresistibile è l'ironia che pervade tutta la pellicola. Rivisto a distanza di più di trent'anni, "The Commitments" mantiene miracolosamente intatta tutta la sua energia, la sua ingenuità e la sua freschezza.

giovedì 27 luglio 2023

Alan D. Altieri "Magdeburg. La Furia" (2006)

 


Consigli di lettura


Alan D. Altieri

"Magdeburg. La Furia" (2006)


Il compito di certa letteratura dovrebbe essere quello di riuscire a riconciliare il lettore con l'esistenza, di riuscire ad interpretare il mondo circostante, ad andare oltre l'impossibilità della politica e degli ideali filosofici, che non solo non riescono più a cambiarlo, ma, appunto, hanno non poche difficoltà nell'interpretarlo.

Di solito questo compito è affidato a quella letteratura che non usa mezzi termini, a quel tipo di romanzo che non si preoccupa minimamente di rassicurare, a quegli scrittori che scavano alle radici del male e dell'orrore dell'esistenza, senza falsi moralismi e senza avere la pretesa di voler indicare una strada per la redenzione umana. Questo era anche il compito del compianto amico Alan D. Altieri, un compito che svolgeva in maniera egregia.


La Guerra Eterna, la Guerra dei Trent'anni, è il tema anche del secondo volume di "Magdeburg". Ed è ancora il sublime Hieronymus Bosch che ci saluta dalla copertina del romanzo. 

Ci saluta, mostrandoci quello che è un mondo in preda alla "Furia", un mondo in disfacimento.

L'anta di destra del "Trittico delle Delizie" è dedicata da Bosch all'Inferno. Ed è ancora un particolare di questo inferno che ci annuncia il contenuto di questa opera di Altieri. Un'orda di esseri deformi, crudeli e allo sbando, miseri e disperati, un'orda di mostri, presi di peso dalla zoologia fantastica medievale, attraversano un paesaggio tetro e oscuro, illuminato solo dall'angoscioso rosso bagliore dei fuochi o forse del sangue. Quello che ci annuncia Bosch è che l'inferno è sulla Terra ed è quello che ci conferma Altieri nella sua "Furia".


Il nero e il rosso, di nuovo, a fare da protagonisti incontrastati. Un'oscurità ancora più profonda, un buco nero che si allarga e che è il cuore della Guerra Eterna, quella guerra che è un entità quasi sacrale, una divinità oltre ogni fede, che si incarna con la storia umana ed è quella che produce le dinamiche di odio, di distruzione e di potere.

Il rosso degli incendi, dei roghi e del sangue. Un rosso che è il lavacro di cui l'oscurità si serve per purificare ogni forma di eresia che è estranea al dio della morte e della distruzione, al dio della cupidigia e del potere.

Un'eresia che va cancellata perchè potenzialmente portatrice di speranza, una speranza che la guerra, ogni guerra non può tollerare.


In questo capitolo (il capitolo centrale della trilogia) la scrittura rasenta la perfezione, anzi è nella perfezione: i tempi, il ritmo, i dialoghi, la teatralità e i colpi di scena che si susseguono non lasciano scampo al lettore, che viene precipitato in un mondo assolutamente verosimile e nello stesso tempo fantastico, gotico. E questo è il mondo della "Furia". La Furia che assume connotati diversi, ma che appare come l'unica regolatrice di conflitti e di relazioni.

Una Furia che pretende di vestire i panni della giustizia. Ma quale giustizia? La giustizia dei potenti che corrisponde senza mezzi termini ad un'orgia di nichilismo, dove, non solo quello che prevale è il sonno della ragione, ma l'illusione del delirio d'onnipotenza.

Oppure la Furia di chi vede la vendetta, la sacrosanta vendetta per i torti subiti, come l'unica via da intraprendere per dare un significato all'esistenza, ma che alla fine è pur sempre una Furia cieca, senza redenzione.


Non è tutta oscura tenebra il secondo capitolo di "Magdeburg", qualche piccolo lume di speranza sembra accendersi, ma per ora resta confinato ai piccoli gesti, alla clandestina opera di un pugno di uomini, che non sanno bene a cosa affidarsi, ma i cui legami sembrano stringersi, verso un destino quasi ermetico, di mistero e di simboli.

Simboli che appartengono fisicamente e materialmente a questo mondo, ma che sembrano prescinderlo verso una dimensione altra, spirituale, una dimensione dove le cose hanno origine, dove ha origine il mondo sensibile, ma di cui si sono persi inesorabilmente equilibrio e armonia, senso e orientamento.


Altieri va oltre le aspettative e questo secondo libro della trilogia di Magdeburg supera sicuramente il primo, già di per sè un capolavoro.

E' un capitolo di un fascino estremo, questo dedicato alla Furia, un capitolo di una notevole complessità logica, ma di una fluida e perfetta narrazione, dove i personaggi, le vicende, l'altalenarsi dei destini, si incorciano naturalmente, catturando ancora una volta il lettore e costringendolo ad essere partecipe fino in fondo dell'apocalisse e dell'inferno qui e ora.

Un libro visionario e crudele, un affresco di un'epoca assolutamente vivido, senza concessioni al compromesso narrativo. 

giovedì 20 luglio 2023

Anomalie climatiche

 


Come appendice di carattere serio a un mio precedente "sciocco" post, vorrei sottolineare alcune cose.

Il mainstream usa sempre lo stesso schema al fine di supportare la cultura emergenziale. "Anomalo" è aggettivo usato di solito nel mondo dell'informazione con funzione terroristica, finalizzato all'adozione di vincoli, coercizioni e restrizioni, tipico dei dispotismi.


E questo a prescindere se sia in atto o meno un cambiamento climatico e di quale genere, e di quanto e quale sia la componente antropica, pur ammettendo che ci sia.

La storia della Terra e in buona parte quella dell'umanità sono state attraversate da ricorrenti cicli climatici di raffreddamento e di riscaldamento più o meno globale, dato che possono interessare anche aree limitate del pianeta, e dato che possono essere di grande e piccola portata.


La climatologia è un ramo della conoscenza che si occupa anche di questi fenomeni, distribuiti in un arco di tempo di almeno 20-30 anni. Almeno. Di solito, esperti di climatologia sono geologi e geografi, che hanno una solida formazione in questi campi e nella Storia.


Ben altra cosa è la meteorologia che si occupa di fenomeni, eventi e previsioni assai limitati nel tempo e sempre per ogni singolo contesto geografico, in relazione al tempo atmosferico, registrandone gli effetti e la misurazione delle temperature, e se fatta seriamente, in comparazione con modelli storici. Nonostante questo, spesso i metereologi sbagliano clamorosamente nelle previsioni. 


Quindi, è del tutto evidente che non si possono affidare a meteorologi, tout court, le elaborazioni di teorie sul clima, come avviene di consueto. O ancora peggio, a influencer che si improvvisano climatologi, affermando o negando la validità delle varie teorie, solo attraverso la contemplazione degli eventi naturali. "Contemplazione", atta a tirare l'acqua al proprio mulino ideologico.


Detto questo è bene ricordare che il più rilevante cambiamento climatico, che ha interessato l'umanità è stato quello del riscaldamento globale, seguito alla Grande glaciazione, che favorì nel lunghissimo periodo, la nascita della stanzialità, dell'agricoltura e della civiltà della Mezzaluna Fertile.

Condizione climatica in cui siamo ancora immersi. All'interno della quale, si sono poi alternati cicli climatici di minore intensità.


Seguono due citazioni da due libri a cui ho già ampiamente fatto riferimento in altri post negli anni passati:

"Clima, capitalismo verde e catastrofismo" di Philippe Pelletier del 2021 e, su un piano diverso, "Il primo inverno. La piccola era glaciale e l’inizio della modernità europea (1570-1700)" di Philipp Blom del 2017.

Due libri diversi, ma che focalizzano, entrambi, alcuni aspetti non riducibili alle semplificazioni dello storytelling e dei luoghi comuni dei dominanti e di quelli delle diverse tendenze dei dissidenti.


«I vertici internazionali sul clima, detti cop (Conference of the Parties), mettono regolarmente la questione climatica in primo piano sulla scena politica e mediatica. Ogni volta esperti, giornalisti e attivisti proclamano che «c’è urgenza» e che «il vertice è l’ultima possibilità», utilizzando in pratica lo stesso registro e lo stesso vocabolario usato quando si tratta di «salvare la Grecia», «gestire il debito» oppure «uscire dalla crisi».

Si ricorre cioè alla stessa logica messa in atto dal sistema spettacolare e commerciale, il quale utilizza la strategia dello shock per farci mandar giù misure più o meno draconiane, se non addirittura per farci accettare l’idea che solo la competenza e la governance globale possono dare soluzioni. In caso di fallimento resteranno delusi solo quelli che ci hanno creduto, poiché solo gli ingenui possono credere che l’onu porterà davvero la pace nel mondo e che sia un organismo internazionale intriso di fratellanza e uguaglianza.» (Pelletier)


«Provando a mettere insieme le tessere del rompicapo si mette in luce il quadro seguente: nel tardo Medioevo, fino a tutta la prima metà del XIV secolo, l’Europa conosce un periodo molto caldo, con temperature fino a due o tre gradi più elevate di quelle odierne. A partire dal 1400 circa, nell’arco di neppure un secolo, quel clima insolitamente mite si va raggelando. Le temperature precipitano, attestandosi su una media di due gradi in meno rispetto ai livelli registrati nel XX secolo, dando luogo a un’escursione complessiva di quattro o cinque gradi rispetto al tardo Medioevo.

Per quali ragioni tutto questo sia accaduto e quando esattamente il clima inizi a raffreddarsi non è del tutto chiaro. Alcuni studiosi fanno risalire i prodromi della piccola era glaciale già al XIV secolo, mentre altri, la cui periodizzazione riprendo in questo libro, situano l’esordio del fenomeno nella seconda metà del XVI secolo. Quando l’episodio si possa ritenere concluso è un punto non meno controverso…

…Anche noi, come i nostri antenati, dovremo imparare a convivere con rivolgimenti inevitabili, adattandoci in maniera intelligente, adeguandoci alle mutate circostanze, senza opporre inutili resistenze, perché altrimenti finiremo per venire sopraffatti.» (Blom)


Tornerò ancora su questi due preziosi libri.



mercoledì 19 luglio 2023

Milan Kundera, "L'identità" (1997)

 


Consigli di lettura


Milan Kundera, "L'identità" (1997)


«L'occhio è la finestra dell'anima, il fulcro della bellezza del volto, il luogo in cui si concentra l'identità di un individuo; ma allo stesso tempo è lo strumento che ci consente di vedere e che ha costantemente bisogno di essere deterso, inumidito, trattato con uno speciale liquido in cui è disciolta una determinata quantità di sale. Insomma lo sguardo, la cosa più meravigliosa che l'uomo possegga, subisce un'interruzione periodica, dovuta a un movimento meccanico di lavaggio. Come un parabrezza pulito da un tergicristallo. Al giorno d'oggi la velocità del tergicristallo si può anche regolare, in modo che fra un movimento e l'altro vi sia una pausa di dieci secondi – che è pressappoco, l'intervallo fra due battiti di palpebra…

… Pensa anche: nel suo improvvisato laboratorio artigianale, Dio è riuscito per puro caso a costruire questo modello di corpo del quale siamo costretti, ciascuno per un breve lasso di tempo, a diventare l'anima. Ma che miserabile destino è quello di essere l'anima di un corpo fabbricato alla buona, di un corpo dotato di occhi che non sono in grado di funzionare se non vengono puliti ogni dieci o venti secondi! Come credere allora che l'altro, colui che abbiamo di fronte, sia un essere libero, indipendente, padrone di sé? Come credere che il suo corpo sia l'espressione fedele di un'anima che lo abita? Per poterlo credere, è stato necessario dimenticare quel perpetuo battere delle palpebre. Dimenticare quell'improvviso laboratorio artigianale dal quale proveniamo. È stato necessario sottoscrivere un contratto che ci impiega all'oblio. Un contratto che ci è stato imposto da Dio in persona.»


L'operazione dello scrittore ceco/parigino, scomparso da poco, nella sua complessità, era abbastanza evidente. Gli piaceva giocare con le parole, i concetti e con il discorso, preferibilmente con quello amoroso.

Ma gli piaceva giocare anche con la memoria, con gli inganni della memoria e con quelli del potere.

Si vedano soprattutto, a tal proposito, "L’insostenibile leggerezza dell'essere", "La vita è altrove", "L'immortalità" e "Lo scherzo", a mio parere il suo massimo capolavoro. 

Stavolta, però, per parlare di lui ho scelto un romanzo "minore", sempre se sia lecito parlare di produzione minore a proposito di Kundera.


"L'identità" è la conferma del gioco kunderiano e precisamente quella di un doppio gioco. Lo stesso doppio gioco che viene rappresentato nel "Doppio sogno" di Arthur Schnitzler (il gioco di parole non è casuale), che è fuor di dubbio la fonte ispiratrice di questo racconto, e da cui è tratto anche l'ultimo capolavoro di Stanley Kubrick "Eyes Wide Shut". La simulazione letteraria di Kundera, anzi è ben aldilà della semplice ripetizione; è un atto di rigenerazione letteraria che "mistifica" il gioco e quindi esplicita la sua doppiezza e la moltiplica, con un effetto a "cascata".


In fondo, non si può godere appieno di questo libro senza conoscere il romanzo dello scrittore austriaco (potrebbe andar bene anche solo conoscere il film di Kubrick). Ma sbaglierebbe chi intendesse vedere in questo solo la volontà di ricopiare e cambiare alcuni motivi, riempiendoli del cinismo consolatorio del "praghese". Il minimalismo di Kundera, in fondo, non è vero, scarno minimalismo. La sua più che altro è l'opera di un entomologo che tortura il microcosmo altrui, scavando nell'interiorità e nel malessere individuale, traendone soddisfazione narrativa e la capacità estrema di trovare una via d'uscita, non un happy ending, ma solo una logica via d'uscita. Logicamente kunderiana.


Il suo è un linguaggio totale, chiaro, limpido, definitivo, circolare. Non è mai masturbatorio, anche se può apparire tale, gioca sui pensieri e sulle azioni che generano l'equivoco. Equivoco, a volte comico e spesso drammatico, drammaticamente tangibile, tanto da essere concreto, ben oltre le costruzioni illogiche, quelle si, masturbatorie di tanto minimalismo paraletterario.

Una narrazione al confine con realtà e irrealtà, un territorio in cui si sostanziano il sogno e l'incubo.


Il discorso amoroso d'altronde, come ci indica anche Roland Barthes, è quello che si espone di più all'equivoco, alla doppiezza e alla loro figlia: la trasfigurazione. Ed è proprio questo elemento a rendere ancora più vicini, a prescindere dalla loro appartenenza mitteleuropea, Schnitzler e Kundera. Il gioco si fa duro nel momento in cui il doppio non lo riconosciamo più come tale e tutta la realtà si sdoppia, con il medium dell'equivoco che il discorso amoroso tende a rendere oggetto determinante della relazione amorosa stessa. Un gioco perverso, ma anche fascinoso ed essenziale.


Non c'è negatività nel doppio sogno amoroso, c'è invece la possibilità di sublimare il conflitto mai palese e definitivo che intercorre o potrebbe intercorrere in ogni relazione sentimentale. Il doppio sogno ci aiuta a ricostruire noi stessi come individui singoli nella coppia, ma nello stesso tempo ci permette di non perdere di vista appunto la reciprocità della necessità del sogno e del desiderio.

martedì 18 luglio 2023

Tributo a Francesco Di Giacomo

 


Storia del Rock

Personaggi 


Tributo a Francesco Di Giacomo


L'altroieri, aggiornando la mia foto profilo di Facebook, l'ho accompagnata autoironicamente con una citazione del Banco del Mutuo Soccorso. Nei commenti, si è accennato a Francesco Di Giacomo.

Questi che seguono sono due miei post del 2014. Il primo, il giorno dopo la sua scomparsa. 

Il secondo, di un po' di giorni più in là, è il racconto di un sogno.

Li riporto, con qualche piccolo ininfluente taglio, senza però aggiungere nulla.



22 febbraio 2014


Conobbi musicalmente Francesco e il Banco del Mutuo Soccorso più di quarant'anni fa, avevo 14-15 anni. Alcuni amici mi avevano detto di questo fantastico gruppo. Convinto da loro e da una recensione sulla rivista "Ciao 2001", una mattina all'uscita da scuola, acquistai "Darwin". Fu una rivelazione: mi sembrava musica da un altro mondo, alla pari di quella dei Genesis, dei King Crimson, degli Area e di Jimi Hendrix, che proprio all'epoca imparavo a conoscere.


Uno dei dischi più ascoltati in vita mia, secondo forse solo a "Foxtrot" dei Genesis. Aveva una copertina incantevole e ne feci anche una registrazione su una musicassetta basf, per il mio registratore mono portatile, che usavo nei viaggi in macchina con la mia famiglia.

Avevo voluto subito bene a quel ragazzo con quella barba così folta e che mi appariva così possente, con quei suoi improbabili straccali.


Qualche tempo dopo giunse la notizia di un loro concerto a Roma e io e i miei amici ci precipitammo. Un concerto di grande energia, durante il quale il Banco eseguì i suoi primi tre mitici album. Francesco Di Giacomo confermò di essere una delle due voci più belle del panorama progressive alternativo italiano, l’altra era Demetrio Stratos degli Area.


Ma il ricordo musicale più bello risale a tanti anni dopo: una sera a metà anni novanta al Palladium di Garbatella. Mia moglie ed io versammo non poche lacrime di commozione. Un concerto senza tempo, ci sembrava di essere tornati due ragazzini e con noi molti oramai maturi spettatori.


Poi, arrivò la fase zagarolese.

Incontrammo per la prima volta Francesco sotto casa, davanti la farmacia, poco tempo dopo il nostro trasferimento a Zagarolo. Io rimasi quasi impietrito dall’emozione e mia moglie non finiva mai di abbracciarlo, dicendogli che per lei era come un fratello. Per entrambi lo era.


Da allora ci abituammo ad incontrarlo, senza mai invaderlo, lo salutavamo o gli sorridevamo con discrezione. Una presenza consueta, di cui andavamo fieri.

L’ultimo incontro, anche se da lontano, lo abbiamo avuto domenica scorsa al mercatino del contadino, per l’occasione c’era anche mia sorella (altra fan del gruppo), a cui lo indicai e che non lo aveva mai visto dal vivo… ha fatto appena in tempo…


Ora, Francesco non c’è più e lascia un vuoto incolmabile. Un dolore acuto e inesprimibile, anche per noi che eravamo semplici fans e non eravamo “amici” o parenti. Un pezzo della mia vita se ne è andato. E’ morto vicino casa mia, in maniera assurda, su una strada su cui passo quasi quotidianamente e che da oggi in poi non potrò fare a meno di percorrere senza pensare a quello che è accaduto. La consolazione della sua voce registrata è ben poco, anche se lascia qualcosa di grande e irripetibile. Che la terra ti sia lieve, Francè…



14 marzo 2014


Stanotte ho sognato Francesco Di Giacomo. 

Mi trovavo con tutta la famiglia alla stazione di Zagarolo all'interno di un bar che nella realtà non esiste, uno di quei luoghi che solo i sogni sanno creare.

Accanto a me c'erano due avventori che canticchiavano sommessamente una vecchissima canzone dei Pink Floyd dei tempi di Syd Barrett, "Matilda Mother". E io allora mi sono messo a cantare appresso a loro.


Di improvviso, i due si interrompono e viene accesa la radio del bar che magicamente manda le note de "L'Evoluzione" del Banco. Allora, da una porta sul retro, esce Francesco, con un'espressione di perplesso stupore dipinta sul volto.  E io gli faccio: "Ah France', non la riconosci sta voce, eh?". Lui mi guarda e sorride…


Poi, il sogno cambia, io la mia famiglia ci troviamo su un ponte immaginario che attraversa i binari della stazione, un ponte stranamente sterrato e pieno di pozzanghere, che sembra non finire mai e che noi percorriamo con grande difficoltà... Ma non arriviamo da nessuna parte... e il sogno si interrompe....

E ho lasciato lì Francesco che sorrideva...


giovedì 13 luglio 2023

Evgenij Zamjatin, "Noi" (1922)


Consigli di lettura

Classici


Evgenij Zamjatin, "Noi" (1922)


«La bellezza di un meccanismo sta nel suo ritmo incessante ed esatto, simile a quello di un pendolo. Ma voi, allevati fin dall’infanzia al sistema di Taylor, non siete forse diventati esatti come un pendolo?

Solo che:

un meccanismo è privo di fantasia!

Vi è mai capitato di vedere sulle fattezze del cilindro di una pompa, durante il suo funzionamento, dipingersi un sorriso assente, insensatamente trasognato? Vi è mai capitato di sentire delle gru che, di notte, durante le ore destinate al riposo, si rigirino inquiete sospirando?

No!

Sul vostro viso, invece – e dovreste arrossire! –, i Custodi colgono sempre più spesso sorrisi e sospiri di tal fatta. E – chinate lo sguardo! – gli storici dello Stato Unico chiedono di essere collocati a riposo per non dover descrivere avvenimenti incresciosi!

Ma la colpa non è vostra, siete afflitti da una malattia il cui nome è:

fantasia!

È un verme che solca la fronte di rughe scure. È una febbre che vi spinge a correre sempre oltre, sebbene questo “oltre” inizi là dove termina la felicità. È l’ultima barricata sulla via che conduce alla felicità.

Ma rallegratevi: essa è già stata fatta saltare!

La via è sgombra!

L’ultima scoperta della Scienza di Stato è la sede della fantasia: un misero plesso cerebrale nella regione del ponte di Varolio. Una volta bombardato il plesso suddetto a tre riprese con i raggi X, la fantasia non vi affliggerà più.

Per sempre!

Sarete perfetti, equivarrete a delle macchine, la via che conduce al 100% della felicità è sgombra. Affrettatevi tutti – grandi e piccini –, affrettatevi a sottoporvi alla Grande Operazione. Affrettatevi agli auditorium, dove si esegue la Grande Operazione. Evviva la Grande Operazione! Evviva lo Stato Unico! Evviva il Benefattore!»


"Tutto" ebbe inizio con "Noi".

Ci troviamo al cospetto di uno scrittore che era provvisto di notevoli doti letterarie e di un libro di importanza più che fondamentale, ma scarsamente conosciuto.

E pensare, invece, che questo romanzo è stato il primo del novecento a dare vita a un intero filone letterario: la narrativa distopica sullo stato totalitario. 

Sapete ora con chi prendervela.


Ha influenzato tutti i classici venuti dopo: dal "Mondo nuovo" di Aldous Huxley, passando per lo sconosciuto, ma sorprendente, "Kallocaina" di Karin Boye, a "1984" di George Orwell, fino a "Fahrenheit 451" di Ray Bradbury. E, ovviamente, tutta la letteratura distopica minore dello stesso periodo e quella successiva. Tutti, ma proprio tutti, hanno più di un debito con "Noi" di Zamjatin.

Tenetelo ben presente, se non l'avete ancora letto. Non è mia intenzione sostenere che gli altri siano solo delle belle e originali copie, ci mancherebbe. Ma senza "Noi", forse le cose sarebbero andate diversamente.


Invece, certa narrativa venuta prima (tra cui "I viaggi di Gulliver" di Jonathan Swift, "I cinquecento milioni della Bégum" di Jules Verne, "La macchina del tempo" e "L'isola del dottor Moreau" di H.G. Welles, "Il padrone del mondo" di Benson e "Il tallone di ferro" di Jack London), seppur può avere molti tratti in qualche modo comuni con quella a cui diede vita "Noi", non rientra però ancora a pieno titolo in una catalogazione dai caratteri ben definiti: quella in cui la realtà conosciuta viene raffigurata come del tutto dominata dallo Stato totalitario, o almeno totalmente condizionata. 


Nonostante Zamjatin avesse pure lui un debito letterario nei confronti di H. G. Wells e Jack London, da lui assai ammirati, "Noi" ha di fatto dato il via a un genere, un genere nuovo con legami strettamente connessi alle paure dell'epoca in cui sono stati scritti i classici distopici: nel periodo intercorso tra le due guerre mondiali e immediatamente successivo alla seconda, e durante i totalitarismi del Novecento.


A tal proposito, sarebbe opportuno, tracciare una differenza tra fantapolitica, ucronia e distopia, anche se sono generi assai contigui, e se spesso, ma non sempre, fantapolitica e ucronia contengano rilevanti dosi di distopia.

Nello specifico, il romanzo di Zamjatin è anche un'arguta parabola sul ruolo delle rivoluzioni e sulle loro illusioni.


Tuttavia, è stato anche un libro sfortunato sin dalla nascita: terminato nel 1922, è stato da subito censurato. 

La storia della sua pubblicazione è costellata da una serie di "false partenze", così come ci dice l'introduzione; di traduzioni parziali e di non eccelso livello. Pubblicato anche in russo, ma non in Unione Sovietica, dove vide finalmente la luce solo nel 1988.


Eppure, l'intento dell'eretico Zamjatin, che all'inizio fece parte dei bolscevichi, e per la cui adesione attiva fu arrestato durante la Rivoluzione del 1905, non era specificatamente ed esclusivamente volto a una critica al regime sovietico, ma aveva un valore ben più universale, relativo alla degenerazione delle forme statuali, ma anche alla fabbrica come istituzione totale, tanto che lui si disse d'accordo con chi, insieme a tutto il resto, ci volle vedere anche una critica al taylorismo e al fordismo.

Il libro è tra l'altro un'analisi romanzata di stampo filosofico tra energia ed entropia, in cui viene delineato un potere dispotico interamente nelle mani della Macchina e dello Stato.


Siamo alla fine del terzo millennio e D-503 è il principale protagonista del romanzo. Sì, D-503, perché non esistono più nomi e cognomi per identificare le persone, ma vengono assegnati codici alfanumerici. Infatti gli individui stessi vengono detti "alfanumeri", sia i maschi che le femmine. È un mondo dove si festeggia la vittoria di tutti sul singolo, il grande Giorno dell'Unanimità, una celebrazione di massa, simile a quella che gli "antichi" chiamavano Pasqua. E il rito celebrato sono le elezioni ridotte a una formalità, il cui risultato è già precedentemente stabilito, perché tutti fanno parte di una Chiesa Unica; e ovviamente il voto non può essere segreto, nessuno ha da vergognarsi del proprio voto, perché tutti sono "NOI".


Il protagonista è anche l'immaginario autore del libro scritto in forma di diario, dove ogni capitolo è un singolo appunto, destinato a immaginari extraterrestri; ma è anche il costruttore dell'Integrale, una nave spaziale che sarebbe destinata a portare in giro per gli altri mondi il verbo dello Stato Unico terrestre e della sua felicità in ideale assenza di libertà. E così come è stata imposta agli abitanti della Terra, verrà imposta alle altre creature sparse nell'universo. 

È un mondo circondato da una Muraglia Verde, oltre la quale ci sono alberi, animali e strani esseri, tenuti a distanza perché c'è sempre un fuori, un qualcosa di estraneo al mondo perfetto e asettico. Tematica che torna ricorrente anche in tutti i classici successivi.


È un mondo ossessionato dalla matematica e dal collettivismo. Dove tutto è programmato in maniera precisa, secondo la Tavole delle Ore: lavoro, pasti, sonno, sesso, procreazione. Nulla è lasciato al caso, così come prescrive la Scienza Unica dello Stato, custode anche della memoria storica. Dove i giorni sono tutti uguali, in una continua terribile coazione a ripetere le stesse cose, gli stessi atti e allo stesso modo, con pochissime varianti. 

Non c'è nessuno spazio per casualità e imprevisti.


Ci si trova in un perenne e immutabile "stato di grazia" che viene chiamato felicità. È stata assoggettata la Fame e abolito L'Amore, e istituito l'Ufficio Sessuale. Il sesso è stato ridotto a una normale e banale funzione fisica. «Ogni alfanumero ha il diritto di godere di ogni altro alfanumero in quanto bene sessuale di consumo».


Si vive in edifici di vetro con pareti di vetro, perché nulla deve sfuggire al controllo. È consentito abbassare le tendine, solo nelle ore stabilite per il sesso.

E come in ogni società dispotica che si rispetti, uno dei motori è la delazione.

Alla guida dello Stato, c'è il Benefattore e poco più sotto i Custodi.

È un mondo asettico, senza imperfezioni, perfino la narrazione esaltata e apologetica all'inizio è asettica.

Si ride degli usi e costumi degli uomini del XX secolo e degli altri avi.


Ma qualcosa si incrina, si insinua come un tarlo nella coscienza di D-503: la trasgressione. 

Da quel punto in poi, la prosa cambia, l'io narrante sembra preso sempre più da una febbre visionaria, cambia il ritmo dei suoi appunti, muta la prospettiva con cui guarda la realtà. D-503 è preda di un turbamento che non sa gestire. Nello Stato Unico non sono concessi turbamenti ed è vietata l'insonnia.


L'emotività gli prende la mano: inizia a percepirsi interamente come individuo, ed è colto dolorosamente, ma con intensa voluttà, dal senso di solitudine, ma anche da quella temibile e terribile parola che è l'amore.

La narrazione asettica cessa e si trasforma in prosa straordinariamente poetica, allucinata, delirante, e che, per analogia, può richiamare alla mente Dostoevskij, Kafka e Gogol'.

mercoledì 12 luglio 2023

In morte di Milan Kundera

 


Anche Milan Kundera ci ha lasciati.

Uno degli ultimi grandi scrittori ancora in vita. Uno dei protagonisti del novecento letterario.

Ripropongo alcune parti di un articolo del 2021 dall'Huffington Post.

E in coda una citazione.

Nei prossimi giorni una mia recensione di un suo romanzo, uno tra i meno noti.


"L’ultima volta che è andato in televisione – una delle poche volte in cui c’è stato – era il gennaio del 1984. La trasmissione era “Apostrophes”. Poi, Milan Kundera è sparito. “Nel giugno del 1985, ho deciso irremovibilmente: mai più un’intervista”. Era da poco uscito L’insostenibile leggerezza dell’essere, il romanzo che l’ha reso celebre in tutto il mondo...

... “Nei Paesi comunisti – ha detto Kundera – la polizia ha distrutto la vita privata, nei Paesi democratici sono i giornalisti che la minacciano”. Il lavoro l’hanno completato i social network, rendendo l’intimità sospetta, se non l’anticamera della colpevolezza. È secondario non discriminare. Fondamentale è proclamarlo pubblicamente, pretendendo che ci si inginocchi contro il razzismo. Perché chi non si inginocchia è razzista. I “ma”, i “però”: sono solo alibi, sfumature di complicità. Anche Kundera ne sa qualcosa...

... Da una parte eroe liberale, dall’altro complice del comunismo: ma qual è la verità? Nei “Testamenti traditi”, Kundera scrive questo dialogo: “Signor Kundera, lei è comunista? – No, io sono un romanziere. – È un dissidente? – No, io sono un romanziere. – È di destra o di sinistra? – Né l’uno, né l’altro. Io sono un romanziere”. Una definizione inconciliabile con una discussione che pretende si stia o di qua o di là. La sua letteratura, costruita come una sinfonia, è polifonica, irriducibile allo schieramento. Sparire – ha pensato – è l’unica possibilità di proteggerla dal ricatto del nostro tempo. Al quale, invece, molti scrittori e intellettuali si sono prestati. Si vorrebbe sperare che non sia questa l’unica via. Anche per chi non ambisce alla gloria letteraria. Ma non ne siamo affatto sicuri."


"... la maggior parte della gente si inganna con una duplice fede errata: crede nella memoria eterna (delle persone, delle cose, delle azioni, dei popoli) e nella riparabilità (di azioni, errori, peccati, ingiustizie). Sono entrambe fedi false. In realtà avviene proprio il contrario: ogni cosa sarà dimenticata e a nulla sarà posto rimedio. Il ruolo della riparazione (della vendetta come del perdono) sarà assunto dall'oblio. Nessuno rimedierà alle ingiustizie commesse ma tutte le ingiustizie saranno dimenticate."


Milan Kundera, da "Lo scherzo"

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

  Cinema Cult movie “Otello” (1951) regia di Orson Welles con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier. «Fosse pia...