domenica 27 agosto 2023

Massimo Carlotto, "L'oscura immensità della morte” (2004)


Consigli di lettura


Massimo Carlotto, "L'oscura immensità della morte” (2004)


[Questa recensione, assai riveduta e corretta nelle parti troppo contestualizzate, la scrissi all'epoca dell'uscita del libro. L'ho voluta riproporre perché il romanzo merita veramente e resta davvero attuale]


«Rassettai la cucina e poi tirai fuori dal cassetto le fotografie di Clara ed Enrico. Non erano il ricordo di momenti felici. Quelle erano sepolte negli scatoloni che conservavano la mia vita precedente in un garage preso in affitto. Le uniche foto che tenevo vicine erano state scattate sul lettino d'acciaio dell'istituto di medicina legale. Osservai il torace aperto e saccheggiato dal bisturi di mia moglie e di mio figlio. Il dolore pulsò più forte e una fitta salì dallo stomaco fino in gola, ma il pensiero della malattia di Beggiato mi evitò la consuetudine del pianto. Quel povero stronzo pensava che fossi capace di gesti nobili. Per perdonare bisogna provare sentimenti, avere una vita. Tutto quello che mi era rimasto lo tenevo in mano in quel momento.»


«Qui il buio ti ricorda che sul tuo fascicolo c'e' un timbro rosso con scritto "fine pena: mai". Che sei fottuto. E allora pensi a quanto sei stato stronzo a rovinarti in questo modo. E i ricordi ti impediscono di riposare. Ogni notte penso alla donna e al bambino. Non so davvero come ho potuto tirare il grilletto. Ma ormai e' fatta e non posso fare nulla per loro. Mi dispiace tanto però. Per sopravvivere in galera faccio il duro ma dentro di me sono pentito di aver buttato via la mia vita con il crimine. Potevo avere una vita diversa. Ho avuto tutte le possibilità. Ho scelto di fare il rapinatore, nessuno mi ha costretto, e se avevo messo in conto di uccidere uno sbirro o di essere impallinato, mai e poi mai avevo pensato di uccidere due innocenti. E' vero, ero strafatto di coca ma come cazzo ho fatto a sparare a un bambino di otto anni e alla sua mamma? Chiedo loro perdono ogni notte e la domenica mattina a messa. Non credo in Dio ma comunque ci vado. E' l'unico momento in cui gli altri detenuti sono tranquilli e ti puoi rilassare.»


Certe storie di Massimo Carlotto sono apparentemente prive di buoni sentimenti. Rintracciare nei suoi vecchi romanzi, al primo approccio, questo elemento è quasi impossibile. Eppure anche se il cinismo sembra farla da padrone, non lo è mai fino in fondo. La vera caratteristica che contraddistingue molti di questi scritti è il rifiuto di ogni tipo di manicheismo. Carlotto presenta qui una condizione individuale e sociale ridotta ad una penosa disumanità, al di là del bene e del male, per poi scavare nelle coscienze, alla ricerca di un barlume di quello che erano una volta o di quello che potrebbero essere, e tentare una disperata ricomposizione.


Probabilmente Carlotto costruisce queste storie condizionato dalla sua vicenda giudiziaria. Una vicenda giudiziaria kafkiana molto simile a quella dell'Alberto Sordi di "Detenuto in attesa di giudizio". Tuttavia, quella che può apparire come la distorsione della realtà causata da un'esperienza così dolorosa, è invece il risultato di un percorso interiore che lo ha reso immensamene più ricettivo e sensibile nell'analizzarla meglio. In un'ottica più coinvolgente, di quanto potrebbe fare chi invece si è tenuto constantemente lontano dalle contraddizioni più difficilmente digeribili della nostra società.


Ma torniamo ai buoni sentimenti. Nonostante la resistenza palese che Carlotto adopera nell'accettarli, la solidarietà e la pietà, nei confronti di chi è portato dalla vita ad affrontare grandissimi dolori, alla fine è talmente forte, da non riuscire ad impedire allo scrittore una costruzione morale dei suoi apologhi. Naturalmente le storie della sua produzione letteraria a cui mi riferisco sono interamente nere, senza speranza o quasi, come lo potevano essere la "trilogie noir" di Malet oppure molti dei romanzi di Izzo.


Il motivo principale sta appunto nel rifiuto quasi assoluto della divisione tra buoni e cattivi. I suoi personaggi, quelli più forti, quelli che fanno la storia delle vicende che racconta, e che condizionano più o meno apertamente l'andamento reale della società, sono uomini che si muovono costantemente in un'indefinita zona grigia. Esseri disperati che hanno perso tutto e si dibattono, cercando di liberarsi dal loro enorme dolore, e che, come uno dei due protagonisti di questo romanzo, sono precipitati nell'oscura immensità della morte.


Questi uomini e donne sono deboli, una parte dei deboli, quelli che, a prescindere dalle storie personali, sono non solo le vittime del fato e delle scelte individuali più o meno cercate e volute. Ma anche dell'ingiustizia di uno Stato che poco o per nulla si preoccupa di loro, di chi subisce torti assurdi, come l'omicidio di persone care, e di chi recluso, dovrebbe essere reintegrato nella società e non solo punito. Dura è la denuncia nei confronti della condizione carceraria, nonostante quello che si pensi comunemente, le carceri italiane non sono quegli idilliaci pensionati, di cui molti nostri politici vanno sproloquiando in giro.


Gli altri deboli, i più numerosi, la massa dei senza voce, sono o vittime schiacciate da un'esistenza ai margini del nulla o degli illusi che cercano di riscattare la loro incapacità di cambiare le cose, con gesti di solidarietà individuale, che, frustrati, si scontrano con il Leviatano della violenza e dell'ingiustizia.

Il dolore quindi resta una dimensione del tutto personale con la quale fare i conti senza nessuno o quasi che ti aiuti veramente, facendo prevalere alla fine solo le ragioni della vendetta personale e pubblica e quelle dell'egoismo e del pregiudizio. E a nulla servono costruzioni ipocrite, che nascondono la speculazione politica di chi vuole condizionare l'opinione pubblica o mettere a tacere la propria e l'altrui coscienza.


A Silvano Contin hanno ucciso moglie e filglio di otto anni, presi ostaggio durante una rapina. Ad assassinarli è stato Raffaello Beggiato, che viene catturato subito dopo dalla Polizia, mentre il suo complice fugge. Viene condannato all'ergastolo, ma dopo quindici anni Beggiato è ammalato di cancro, gli resta poco da vivere ed è in attesa della grazia o della sospensione della pena, ma per ottenerla ha bisogno del perdono di Contin. È su questa idea iniziale che si sviluppa il romanzo di Carlotto e durante il suo svolgimento assistiamo non solo al capovolgimento graduale di fronte tra vittima e carnefice, ma anche alla progressiva trasformazione interiore dei due protagonisti.


Carlotto usa un espediente molto efficace. A parte il prologo, i capitoli si alternano con i nomi di Silvano e Raffaello e sono raccontati con la loro rispettiva voce narrante. Il punto di vista che muta continuamente e che segue linee assolutamente mai convergenti, se non quella del legame indissolubile del crimine, è il momento centrale su cui è costruita tutta l'essenza della storia. Carlotto è bravissimo a rendere l'idea di due coscienze così diverse, identificandosi in ognuna delle due in maniera altamente partecipata ed intensa.


Siamo lontani qui dall'etica terribile e cinica dell'altro suo capolavoro, quell'"Arrivederci amore ciao", nel quale il protagonista è un essere oramai svuotato da ogni sentimento umano e che alla fine si rivela solo una sorta di macchina crudele. Vicenda dove è difficile rintracciare lo status di vittima sociale del personaggio, se non andando a scandagliare i lontani recessi della sua infanzia.


Questa invece è una commovente parabola sul rimorso e sul perdono, che trae molto ispirazione dal Dostoevskij di "Delitto e castigo". Esseri che non troveranno mai un filo per poter comunicare al di là del dolore, della sofferenza e dell'odio, e seppure uno dei due sembra condannato a ridursi al cinismo assoluto del protagonista dell'altro romanzo, alla fine non ci riuscirà, perchè sarà per sempre travolto e imprigionato dall'oscura immensità della morte. Lo sarà ancor più che all'inizio della vicenda, condizione di immenso dolore che ha sempre vissuto e vivrà in una solitudine allucinante. 


Il finale è caratterizzato da un colpo di scena incredibile e assolutamente inatteso, che esprime per intero il messaggio più squisitamente morale dell'opera.

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