domenica 31 marzo 2024

Roland Barthes, “Frammenti di un discorso amoroso” (1977)

 


Consigli di lettura


Classici


Roland Barthes, “Frammenti di un discorso amoroso” (1977)


«La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso è oggi “d’una estrema solitudine”. Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un‘“affermazione”. Questa affermazione è in definitiva l’argomento del libro che ha qui inizio.»


«Il discorso amoroso è solitamente un involucro liscio che aderisce all’Immagine, un morbidissimo guanto intorno all’essere amato. E’ un discorso devoto, benpensante. Quando l’Immagine si altera, l’involucro di devozione si strappa; una scossa viene a sconvolgere il mio proprio linguaggio.»


«Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero d’esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.»


«… ho una specie di difficoltà profonda a sopportare la stereotipia, l’elaborazione di piccoli linguaggi collettivi che conosco bene per il mio lavoro in un determinato ambiente, l’ambiente studentesco. Sento quindi molto facilmente questi linguaggi stereotipati della marginalità, la stereotipia della non-stereotipia. Li sento nel loro formarsi. All’inizio la cosa può anche procurare una sorta di piacere, ma a poco a poco pesa. Per un certo tempo non oso spostarmi altrove e alla fine, spesso per una circostanza della mia vita personale, prendo il coraggio di rompere con questi linguaggi.»


«La cultura di massa è una macchina che indica quali sono le cose da desiderare: questo è ciò che deve interessarti, dice, come se intuisse che gli uomini sono incapaci di trovare da soli chi devono desiderare.»


«… perché la cultura di massa sviluppa tanto i problemi del soggetto amoroso? In realtà, quello che mette in scena sono dei “racconti”, degli episodi, non il sentimento amoroso in sé. E’ forse una distinzione un po’ sottile, ma ci tengo molto. Ciò significa che, se lei mette un soggetto innamorato in una “storia d’amore”, con ciò stesso lo “riconcilia” con la società. Perché? Perché raccontare fa parte delle grandi costrizioni sociali, delle attività codificate dalla società. Con la storia d’amore la società ammansisce l’innamorato.»


Questo saggio di Roland Barthes uscì nel 1977, e fu pubblicato in Italia per la prima volta nel 1979, ed è l'edizione che posseggo anch'io, nella ristampa del 1982. Fu, quindi, influenzato dall’atmosfera culturale di quel periodo, e che a sua volta influenzò, rappresentando in particolare, in senso simbolico, un sostanzioso segmento alternativo ai canoni della cultura ufficiale.

L’autore era comunque già ampiamente conosciuto e ammirato dal movimento di contestazione al sistema sociale, così come lo erano altri strutturalisti, come lo erano Sartre, Foucault, Deleuze. Questi tre, tra l’altro, citati diverse volte nel libro.


Questo testo, però, accrebbe notevolmente la sua fama, almeno qui da noi, divenne in certi ambienti una sorta di best seller; se fu però realmente compreso, non saprei, visto che l'autore stigmatizzava la stereotipia della non-stereotipia, propria dei linguaggi di certa cultura della “marginalità”, certo conformismo dell’anticonformismo. Inoltre, sosteneva che l'argomento amore “romantico”, tra due persone, non avesse dimora tra l’intellighenzia del tempo, perché ritenuto “fuori moda". Non lo facevano né il marxismo, né la psicoanalisi, che parlava piuttosto di analisi dei “sentimenti” e della sessualità. 


Quel che è certo è che segnò un'epoca. Anche se non è di così difficile lettura, è comunque un saggio che si pone a più livelli di interpretazione e di complessità. 

Nelle edizioni più recenti, in appendice, come postfazione, ci sono anche tre interviste dell’autore: “Frammenti di un discorso amoroso”, “Il più grande decrittatore di miti del nostro tempo ci parla d’amore” e “L’ultima solitudine”. Sono interviste imperdibili e affascinanti, così come lo è il saggio.

Non è un libro sul discorso amoroso, dice Roland Barthes nella prima intervista, ma è invece l’ipotetico discorso di un soggetto amoroso.


È un saggio che mantiene tutta la sua attualità, dato che le dinamiche descritte, adattandosi all’amore sono universali ed eterne.

Non è solo un incontro di esistenzialismo e strutturalismo con l’amore, è un saggio filosofico, di semiologia, non dichiaratamente psicoanalitico, di grande profondità, ma, come dicevo, di abbastanza agevole lettura, considerata la divisione del testo in ottanta “figure”(i frammenti), e in ordine alfabetico.


“Frammenti di un discorso amoroso” è un po' a tratti la rappresentazione di un monologo teatrale, ma racchiuso nell'intimo, in un io che immagina di parlare all’altro, ma lo fa dentro di sé.  È un viaggio nell’altro, verso la conoscenza dell’altro, ma anche di se stesso, dell’io narrante.


«La mia convinzione profonda sul soggetto amoroso è che sia un marginale. Donde la decisione, in certo modo, da parte mia di pubblicare questo libro in quanto darebbe voce a una marginalità oggi tanto più forte nella misura in cui non è neppure nella moda dei marginali. Un libro sul discorso amoroso è molto più kitsch, per esempio, di un libro sui drogati.»


La rappresentazione avviene per mezzo di figure con le quali ognuno può riconoscere e riscontrare degli aspetti della propria esperienza personale e riempire le singole figure (assenza, lettera, io-ti-amo, solo ecc.) di ulteriore significato. Si è quindi, per Barthes, resa necessaria una nomenclatura.


Ogni figura ha il suo argomentum, una definizione poetica posta in capo alla prima pagina, come un titolo, spesso diverso da quello della figura stessa, che esprime come in una sorta di istantanea le motivazioni delle singole voci, senza la pretesa di essere esaustivo. Motivi che restano in sospeso, una frase troncata, un’altra parola o la stessa con enfasi differente.

E inoltre, accanto al nome della figura, troviamo un brevissimo riassunto della voce stessa.


Non esiste nessun ordine nell’emersione delle figure all’interno di un discorso. Vengono fuori a caso, senza una logica, si legano alle esigenze del momento. 

Proprio per il fatto che ogni figura segue un discorso a sé stante, orizzontale, senza nessuna gerarchia, l’ordine scelto è quello senza un significato particolare: l’ordine alfabetico. Perché non si tratta di una storia d’amore, o della storia di un amore. Quindi, le figure non compongono i diversi capitoli di una sorta di narrazione romanzata, pur ispirandosi in maniera assai preponderante, proprio a uno specifico romanzo: il Werther.


L’ordine alfabetico evita anche le insidie del caso che avrebbe potuto generare delle sequenze logiche ancora più arbitrarie. Tuttavia, nella mia recensione azzarderò l’ipotesi di qualche correlazione, avvalendomi del diritto di introdurre più di qualcosa di mio, anche se forse violerò l’intenzione dell’autore. 

Essendo il mio un gioco arbitrario, non userò tutti i nomi delle figure, ma tesserò una rete di connessioni, e non è detto che le figure che userò io, siano quelle più importanti, sono probabilmente quelle che sento più mie, nel momento in cui elaboro la mia condizione.


Ma è pur vero che Barthes stesso scrive: «Ciò che qui si è potuto dire dell’attesa, dell’angoscia, del ricordo, non è mai altro che un modesto supplemento offerto al lettore affinché se ne impossessi, vi aggiunga del suo, vi tolga ciò che non gli serve e lo passi ad altri: intorno alla figura, i giocatori fanno correre il furetto; talora, con un’ultima parentesi, l’anello viene trattenuto ancora un istante, prima di passarlo. (Idealmente, il libro sarebbe una cooperativa: “Ai Lettori - agli Innamorati - Riuniti”).» Quindi, ne approfitto e adatto a queste figure il mio ipotetico discorso amoroso.


“Frammenti di un discorso amoroso”, nonostante Roland Barthes ci tenga ad affermare che non ha come oggetto un profilo psicologico, ritengo sia un considerevole strumento di autoanalisi.

Tuttavia, sempre nella prima intervista ammette che il suo libro ha un rapporto interessante con la psicoanalisi, anche se ambiguo. Si è servito, insomma, delle sue descrizioni, perché sono oramai topiche, e in qualche modo obbligano al loro utilizzo.


A margine del testo, compaiono i riferimenti che sono filosofici (Nietzsche, Platone…), letterari, soprattutto, onnipresente, il Werther di Goethe, Balzac, lo Zen, Freud, svariate letture, qualche richiamo cinematografico, financo le frasi degli amici di Roland Barthes. Riferimenti presi a prestito, rielaborati, attraverso la sua memoria. Ma è il “Werther” il principale “protagonista”, che «è l’archetipo stesso dell’amore-passione.»


Quindi, la catalogazione, risultando, oserei dire, anche come una sorta di dizionario del discorso amoroso, è funzionale alla consultazione, oppure a modalità di lettura diverse, organizzate magari secondo le esperienze o le esigenze dei lettori. Non importa se i frammenti siano contraddittori, è il discorso amoroso ad esserlo.


Se da una figura bisogna iniziare, io mi sento di farlo con l’unione. Cerco l’unione ideale con l’altro, la perfetta sintesi, l’equilibrio. Non posso fare a meno allora di rivolgermi al mito di Aristofane del “Simposio” di Platone, all’essere androgino ancestrale, all’ermafrodito primigenio, ma è inafferrabile, mostruoso, non praticabile, e resta del tutto ideale, in quanto astratto. E allora, l’ideale unione concreta, è quella dell'unità nella differenza, dell’autonomia, del ritrovarsi sempre, restando distinti. È l’unico modo per evitare una relazione limitata.


Mi trovo, quindi, a dialogare, tramite l'immaginazione, con l’oggetto amato per rinnovare lo sforzo della sintesi, della seduzione.

È una grammatica dell'affermazione del desiderio dell'io: la proiezione del desiderio sull'altro, che si ripete nelle variazioni delle figure, nell'amare l’amore stesso e nel desiderare il desiderio, e che desidera per mezzo dell’opera della proibizione, della frustrazione e della manipolazione esterna.


L’innamoramento, il colpo di fulmine, infatti, è come un rapimento. Voglio essere rapito, mi predispongo ad accogliere l’altro e a perdermi, per ritrovare me stesso.

L’altro coincide col mio desiderio, che però non saprei definire. È il suo movimento, la sua voce, il suo atteggiamento, qualcosa che mi sfugge e mi rapisce, folgorandomi. Il rapimento rivive se stesso nel ricordo e nel rimpianto. E qui, casualmente, con queste tre figure, una successiva all’altra, senza nessun’altra a interrompere la consequenzialità, l’ordine alfabetico funziona, almeno per me, per il mio discorso amoroso.


Non posso accontentarmi dei segni, perché sono ambigui e interpretabili. Occorre il linguaggio chiaro, esplicito, senza ambiguità serve la dichiarazione degli intenti. 

È in questa rappresentazione che interviene la lettera d’amore che è una delle espressioni più palesi del desiderio. Un desiderio che vuole essere ripagato dalla risposta a dimostrazione di una vera e propria “corrispondenza” di amorosi sensi.

Ma, oggi, la sentimentalità è ridicola, è estrema, è "sovversiva", veste i panni dell’incomprensione. Per il nuovo moralismo l’osceno non è più il sessuale, ma il sentimentale.


È l’atto dello scrivere che diventa impellente per l’innamorato, scrivere il proprio romanzo. Tuttavia, voler scrivere vuol dire anche dover rinunciare al proprio immaginario per confrontarsi col reale e dare dimensione a un altro immaginario. Vuol dire fare i conti con il linguaggio, «quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme “troppo” e “troppo poco”, eccessivo (per l’illimitata espansione dell’io, per la sommersione emotiva) e povero (per i codici entro i quali viene costretto e appiattito dall’amore).»


E allora vado alla ricerca della verità, perché penso che la mia relazione sia la più vera la più autentica, non possa fare a meno della verità. Ma in realtà, produco uno «spostamento: non è la verità ad essere vera, è il rapporto coll’illusione che diventa vero. Per essere nel vero, è sufficiente che io mi fissi su una cosa: se un‘“illusione” viene riaffermata all’infinito, a dispetto di tutto, quell’illusione diventa verità.»


Purtuttavia, è anche l'annichilimento dell'altro, la fascinazione che provo è soprattutto uno specchio della mia immagine, e ciò che emerge alla fine è la mia solitudine, la deformazione dell’oggetto amato operata attraverso la solitudine. Dalla solitudine scaturisce anche l’essenza della dedica, del dono, proiezione dei miei desideri e della mia volontà di dominio sull’oggetto amato. 

È quello che avviene con la letteratura. Quando scatta l'identificazione con l'innamorato dei romanzi, con le sue sofferenze, frustrazioni, gioie.


La solitudine spesso evoca i demoni.

«Noi siamo i nostri propri demoni, noi ci espelliamo dal nostro paradiso» (Goethe). Mi faccio del male da solo, evoco immagini che possono tormentarmi: gelosia, abbandono, umiliazione. Mi espello costantemente dal mio paradiso. Anche tenendo aperte le ferite, posso alimentare il mio amore, la sofferenza e il desiderio. L’io innamorato non si risparmia, sono entusiasta e portato al dispendio, fin quando non mi rendo conto di essere diventato mostruoso, perché soffoco l'altro col mio discorso amoroso ossessivo e possessivo, e gli chiudo ogni spazio, costringendolo al mutismo. 


La figura centrale del discorso amoroso resta io-ti-amo. È il soggetto che si fa energia stessa, azione e pensiero. È il godimento della frase-parola, che ha valore nel momento in cui viene pronunciata. L’io-ti-amo e il “ti amo anch'io" hanno una valenza rivoluzionaria, in quanto sconvolgono la vita di chi li proferisce. Definiscono nuove regole.

Mi lascio andare alle lacrime, perché in amore piangere non è dimostrazione di debolezza, ma è invece liberatorio, e dimostra che l’io-ti-amo è pura sensibilità.


La svolta in un rapporto avviene Con la scenata domestica. Quando i due soggetti litigano, vuol dire che sono già in qualche modo “sposati”. È il momento della tragedia teatrale di maggior spessore della relazione. Possono essere a turno il “soggetto”, mentre l'altro è nel ruolo di “oggetto”, ma anche entrambi soggetto. È il “dialogo” amoroso che si fa cruento. Nella scenata ciò che è argomento iniziale della discussione spesso si perde e resta solo la scenata in quanto tale.

La scenata è, nel suo ripetersi, interminabile, fa parte del linguaggio amoroso, si trova in quel “luogo” dove i soggetti sognano entrambi di avere l'ultima parola, come asservimento al proprio desiderio narcisistico di affermazione.


Nonostante possa accadere qualsiasi cosa, l'affermazione dell'amore è come un indiscutibile valore assoluto felice e infelice allo stesso tempo. Devo affermare il mio amore in ogni caso. Ciononostante, il discorso amoroso può anche essere guastato da un’alterazione, anche minima, un particolare che percepisce solo il soggetto, un difetto fisico o dell’anima, appena accennato, in cui l’immagine buona, tanto amata può rovesciarsi nel suo contrario. Quante volte può capitare e quante volte ciò si abbatte su di me come una piccola catastrofe, di cui sono depositario solo io?


Una delle voci, una delle figure più interessanti e importanti è quella dell’assenza. 

L’assenza è una figura classica del discorso amoroso e riguarda sempre l’altro, il soggetto, infatti, è quello che vive in stato di "abbandono".

L’assenza dell’altro si basa sull’allenamento alla sopportazione della mancanza. Ma vuol dire anche oscillare tra bisogno e desiderio: invocare il ritorno per l’appagamento. Perché il vagare da un amore all’altro in cerca di una perfezione che non esiste, una chimera che è un alibi, non mi ha mai riguardato veramente.


All’assenza, a ben vedere, potrebbe essere legata anche la figura dell’attesa, anche se non sono interdipendenti. Perché ci può anche essere assenza senza attesa, e attesa senza assenza.

L’ansia che produce l’attesa va nascosta o no all’altro? Questo dubbio sul nascondere o meno l'emozione, mi trascina in un corto circuito, in cui il nascondere è sia bene che male, contraddittorio, perché io desidero comunque che qualcosa trapeli del mio sforzo a nascondere, e che sia evidente proprio questo “eroico” sforzo. 


Oltre all'attesa, l'assenza è legata alla de-realtà, che non è irrealtà, in cui l'assente sono io, non l'altro; anche se può scaturire dall'attesa dell’altro, resta comunque una sensazione di estraneità dal reale, al limite della follia. L’innamorato pazzo vive nella de-realtà.

Nell'amore, l'altro è inclassificabile, unico e irripetibile, lontano dagli stereotipi, così come più la relazione è inclassificabile, più è originale.


«… una memoria estenuante impedisce di uscire “a piacimento” dall’amore, in altre parole di viverlo assennatamente, con intelligenza… la 

“iettatura” amorosa è indissolubile: la faccenda non si può “accomodare” (l’amore non è né dialettico né riformista).»

La perdita dell’oggetto amato, mi conduce irrimediabilmente all’esilio, sono costretto ad allontanarmi non solo fisicamente, ma anche con la mente. La fine, quindi, non è solo quella della relazione, ma anche quella dell’immaginario. 

E allora si affaccia la disperazione e penso al suicidio.


All'esilio è collegato anche il sottrarsi dell'oggetto amato a qualsiasi contatto, senza rivolgerlo altrove (il fading, la dissolvenza). 

Mi appare peggiore della gelosia, perché l’altro si e ci allontana, finendo in una sorta di zona d’ombra in una terra di nessuno, è come se rimanesse solo una debole voce distante e stanca. Sono terrorizzato dalla stanchezza dell’altro, mentre nella memoria è ancora viva la festa e la gioia del contatto e dell’innamoramento. Ma posso sempre ri-affermare l’amore e dire all’altro, vecchio o nuovo che sia: ricominciamo!


Alla fine della recensione, mi accorgo che potrei riscriverla anche con connessioni diverse, riferendomi a figure diverse e in un ordine diverso. Questo perché il discorso amoroso non segue un criterio certo e razionale, è il delirio di un pazzo, di un folle d’amore che cerca di uscire dal proprio soliloquio. 

È di fatto il solipsismo dell’uomo filosoficamente solo.


«L’amore non è cieco. Al contrario, ha una potenza di decifrazione incredibile, che dipende dall’elemento paranoico che è in ogni innamorato. Un innamorato, lei sa, coniuga estremi di nevrosi e di psicosi: è un tormentato e un pazzo. Vede chiaramente, ma il risultato è spesso lo stesso che se fosse cieco.»

giovedì 28 marzo 2024

Breve viaggio tra le prossime letture


 Breve viaggio tra le prossime letture


(Il mio personale messaggio simbolico per un autentico Giovedì Santo di fratellanza)



SINOSSI


Henry Corbin*, “Storia della filosofia islamica” (1964)


«Henry Corbin è stato uno dei grandi maestri degli studi islamici, anzi un vero maestro del pensiero filosofico-religioso, dedito per decenni all’immensa impresa di reintrodurre, o presentare per la prima volta, in Occidente le portentose ricchezze del sapere islamico. E non solo di quella parte di esso con cui l’Europa, durante il Medioevo, ha avuto rapporti fittissimi e tuttora in buona misura da esplorare – basti pensare all’importanza che ebbero Avicenna e Averroè – ma di tante scuole e ramificazioni che erano fino a oggi, da noi, quasi del tutto ignote o malamente capite.

Scopriremo così che alla loro base è il diverso atteggiamento esegetico verso il Corano: atteggiamento che va dal letteralismo legalistico sunnita al vertiginoso esoterismo shi’ita.»


*Henry Corbin, protestante, fu tra i fondatori del "Centro internazionale di ricerca spirituale comparata”, finalizzato alla promozione dell’ecumenismo abramitico, per favorire lo studio e il confronto delle tre religioni monoteistiche: Ebraismo, Cristianesimo e Islam.



Hans Kung*, “Ebraismo. Passato, presente e futuro” (1993)


«La più antica delle tre religioni monoteistiche rimane, nonostante lo scarso numero di seguaci, una potenza spirituale mondiale grazie soprattutto alla sua vitalità, al suo dinamismo e alla sua capacità di rinnovarsi nella continuità. Quest'opera complessa e interdisciplinare alterna al racconto della storia millenaria e travagliata dell'ebraismo, dalle origini fino ai giorni nostri, la riflessione più specificatamente teologica e l'analisi dei rapporti fra religione, politica e società. Per Hans Küng, nessun cristiano può ignorare l'ebraismo odierno e non interrogarsi sul confronto tra le grandi religioni proprio a partire dall'eredità del passato e dalle radici comuni. Ripercorrendo la storia di questo popolo con il suo Dio, questo libro vuole indicare un percorso di dialogo possibile tra ebrei, cristiani e musulmani.»


*Teologo e cattolico “critico”, Hans Kung diede un contributo fondamentale al Concilio Vaticano II, al quale fu chiamato a collaborare da Papa Giovanni XXIII.

Questo saggio fa parte di una trilogia su Ebraismo, Cristianesimo e Islam.



Pietro Citati, “Israele e l’Islam” (2003) 


«Pietro Citati compie una lunga investigazione nel cuore di due grandi religioni monoteiste, attraversando ventisette secoli di storia e di letteratura: dal racconto del libro della "Genesi" alla vocazione di Maometto, fino al Novecento e all'antisemitismo cristiano e musulmano. Appaiono paesaggi d'Oriente e d'Occidente: mari, oceani, città, deserti, re, imperatori, santi, mistici, assassini. Alla fine del viaggio la comune eredità spirituale di Israele e dell'Islam e il fascino della diversità emergono con la medesima forza.»



Gabriele Boccaccini e Piero Stefani, “Dallo stesso grembo” (2012)


«Il rapporto tra ebrei e cristiani ricorda quello dei due figli di Rebecca: Giacobbe ed Esaù. Due fratelli gemelli, così simili e così diversi: l’uno peloso e l’altro glabro, l’uno così forte, l’altro troppo furbo; si combatterono fin nel ventre materno per condurre una vita nello scontro, nella paura o nell’indifferenza reciproca. Ma poi l’impossibile accadde: dopo anni di separazione e pur tra mille sospetti e ripensamenti, le loro strade si incontrarono di nuovo e allora, corsisi incontro, si abbracciarono, si baciarono e piansero (cf. Gen 33,4). Il volume intende fare luce sulla complessità delle origini cristiane e del giudaismo coevo, per leggerne vicinanze e richiami, difficoltà e malintesi. Nella prospettiva che le due strade si incontrino di nuovo.»


mercoledì 27 marzo 2024

Amos Oz, “Non dire notte” (1994)


 Consigli di lettura


Classici


Amos Oz, “Non dire notte” (1994)


«Si piega verso il buio per guardare l’orologio, trova sì le lancette fosforescenti ma dimentica la domanda. Forse, sta cominciando il processo di lenta discesa dal dolore verso la tristezza. I cani riprendono ad abbaiare, questa volta con impeto, con furia: abbaiano nei cortili e negli spiazzi aperti ma anche dal uadi e oltre, dal buio remoto, dalle alture, cani pastore dei beduini, e cani randagi, avranno fiutato una volpe, ecco un latrato si trasforma in un ululato e un altro gli risponde, penetrante, disperato, come perso per sempre. Questo è il deserto nelle notti d’estate: antico. Indifferente. Vitreo. Né morto né vivo. Presente.»


«Assai di rado veniva una paura: non proprio paura, un vago timore che l’assenza di sofferenza significasse perdere qualcosa di irreparabile. Senza avere la minima idea di cosa fosse, questa cosa irreparabile, e se fosse mai una perdita. A volte gli pareva di avere dimenticato una cosa che non andava dimenticata e quando con il pensiero si sforzava scopriva di avere dimenticato che cosa c’era di dimenticato.»


«Sul confine dell’udito il cieco ascolta il fruscio della notte perché, dietro l’alito del silenzio e sotto il fischio del grillo, gli pare s’insinui un gemito di morti: lieve e straziante come fiato che svapora nel fiato. Il pianto dei morti freschi che ancora non si rassegnano suona sottile e candido, offeso, come lo strillo di un bimbo abbandonato nel deserto. I morti vecchi singhiozzano con un mugolio monotono, quieto: un pianto di donna, quasi soffocato nel buio sotto una coperta pesante. Mentre i morti vetusti, ormai dimenticati da tutti, donne beduine estinte dalla fame su queste colline, nomadi, pastori di secoli fa, inviano dagli abissi una specie di lamento desolato, cavo, silente ancor più del silenzio: voce del loro aspirare al ritorno. Profondo e ottuso, dietro tutto, alita anche il grugnito dei cammelli morti, il grido di un capro sgozzato ai tempi di Abramo, la cenere di un fuoco ancestrale, il crepitio di un albero fossile che forse fu verde, qui nel uadi, una primavera di tante ere fa e il suo rimpianto ancora bisbiglia nella tenebra della pianura.»


Tra Noa e il sessantenne Theo ci sono quindici anni di differenza; la coppia sembra in crisi, o quantomeno si trova ad affrontare qualcosa di molto simile: un muro di sordo e inespresso fastidio e di incomprensione si erge tra i due, un muro più solido e indistruttibile di qualsiasi altro. È venuto su con gli anni, costruito dall’inerzia, l’inerzia che è comune a tante altre coppie. Il loro rapporto si è trasformato in un amore muto, che non trova più le parole adatte.  

Il fatto che lei sia più giovane appare forse solo un pretesto.


Lui è un affermato urbanista, lei è un'appassionata professoressa di lettere che ha il compito di occuparsi, dopo la scuola, di un progetto finalizzato a un centro di recupero di giovani tossicodipendenti.

La storia è in parte narrata in soggettiva, le voci si alternano nei capitoli senza numeri: ora quella di lui e, poi, a sua volta, lei, inframmezzati in contrappunto da capitoli raccontati da una voce narrante fuori campo. 


Amos Oz usa questo espediente per evidenziare le differenti prospettive, sensazioni e riflessioni nel vivere anche gli stessi momenti, nel divenire del tempo, e mette in scena la plastica rappresentazione di una crisi, in un prevedibile crescendo conflittuale, delineato con implacabile precisione chirurgica.

Eppure il loro rapporto era nato in forma gioiosa e passionale, un amore intenso e spontaneo, come ricorda Theo con nostalgia, in quelle che sono tra la pagine più struggenti del romanzo.


La menzogna che non è proprio autentica menzogna, ma omissione, l’artificio, la mortificazione di sé e dell'altro, il dolore e la rabbia per l’incomunicabilità, per il desiderio frustrato, per l’abitudine, il sordo rancore tra persone che condividono lo stesso destino, sono un terribile inferno e Amos Oz lo rende alla perfezione.

Eppure, erano arrivati insieme nel deserto, scelsero di andarci per iniziare una nuova vita. Tutto iniziò con serenità, con desiderio appagato, con un amore quieto ma equilibrato, con una vita sociale intensa. Ma era solo l’inizio.


In parallelo ci sono pagine assai suggestive dedicate alla descrizione del contesto. Siamo nel distretto Meridionale di Israele, presumibilmente alla fine degli anni ottanta, nella piccola immaginaria cittadina di Tel Kedar, costruita pochi anni prima, circondata dal deserto del Neghev, nei pressi della città di Be’er Sheva. La popolazione della cittadina proviene da trenta paesi diversi. L’ultima immigrazione è arrivata da poco dalla Russia.


Assai evocativa è la prosa nella descrizione dell’ambiente circostante, in piena estate, con un’afa assoluta, nel periodare fitto e incessante, come l’atmosfera polverosa che si fa incandescente, sempre in bilico tra angoscia ed esaltazione, in un turbinio di soggetti, luoghi, eventi. Sembra di essere su una giostra, oppure in una festa grandguignolesca alla luce del sole.


Le schermaglie tra i due protagonisti si estendono, quasi per contagio, anche agli altri personaggi, di particolare rilevanza è Muki Peleg, l’amico di Noa, rivelando un intreccio di notevole spessore, attraverso il quale Amos Oz costruisce gradatamente la trama dell’intera vicenda e rappresenta la complessità di Israele e del mondo ebraico coi suoi conflitti interni.

L'uso dei dialoghi incastonati nel testo, senza soluzione di continuità, né di virgolette, non appesantisce affatto la narrazione, la rende invece più fluida e riflessiva.


Uno studente della sua scuola, Immanuel Orvieto, è morto per overdose e questo ha influito sulla scelta di Noa di dedicarsi al progetto di realizzazione del centro sulle tossicodipendenze, coinvolta da Avraham, il padre del ragazzo, perché Immanuel, studente problematico e solitario aveva stima solo di lei, era una sorta di infatuazione, e lei invece si era accorta a malapena della sua esistenza.


Da questo momento in poi la “missione” di Noa diventa un’ossessione, talmente si sente invasa dal senso di colpa. E questo, ovviamente influenza ancor più il rapporto con Theo, sia nel bene che nel male, confermando una certa staticità.

Il romanzo sociale si sovrappone così alla storia esistenziale. Le riflessioni e i ricordi su Immanuel, offrono l’occasione per aprire uno squarcio sulla vita di provincia di Noa e Theo e sulle relazioni umane di quel contesto, con tutti i pregiudizi di qualsiasi altra provincia; e un’occasione alla coppia di fare riemergere anche vecchi e recenti ricordi.


Sullo sfondo, ci sono la vita quotidiana in Israele, il senso di precarietà, i conflitti mai del tutto esplicitati, il nemico esterno come fosse un “convitato di pietra”, una cupa presenza che accompagna l'atmosfera malinconica del romanzo.

Sono semplicemente da antologia le pagine sulla descrizione minuziosa della cittadina, quasi in piano sequenza cinematografica. 


Lo sguardo dello scrittore si alza, si abbassa, scruta lontano, arretra e avanza, fa una panoramica dei piccoli agglomerati di case, dei quartieri, per poi, scendere nei particolari: gli edifici, che sembrano venuti su direttamente dalla terra polverosa e acquitrinosa, i personaggi, il deserto, l’architettura, la struttura delle strade. Un paesaggio che ora palpita, ora è spoglio e scheletrico, ora ricco di luce, quasi abbagliante.


“Non dire notte” è un romanzo incantevole, incredibilmente poetico, contiene anche delle piccole deliziose e terribili storie all’interno del plot principale. È un romanzo colmo di sapori, di odori, di parole, di rassegnata malinconia, di un’atmosfera quasi fiabesca con la presenza perenne, polverosa, inevitabile e imprescindibile del deserto.

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

  Cinema Cult movie “Otello” (1951) regia di Orson Welles con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier. «Fosse pia...