martedì 31 gennaio 2023

"My Life In The Bush Of Ghosts" Brian Eno & David Byrne (1981)

 

Storia del Rock e non solo

"My Life In The Bush Of Ghosts" 

Brian Eno & David Byrne (1981)

Solo due menti geniali come Eno e Byrne potevano all'inizio degli anni ottanta concepire un'operazione musicale del genere. Capolavoro che sfugge a qualsiasi catalogazione e al quale i due contribuirono in egual misura, "My Life In The Bush Of Ghosts", come e più del "Remain In Light" dei Talking Heads, è qualcosa di assolutamente innovativo e i due, già collaboratori proprio in "Remain In Light", dilatarono ancor più il discorso musicale intrapreso con quel disco per andare oltre in assoluta libertà creativa.

Fuori dai Talking Heads, infatti, Eno e Byrne, ma in continuità con il livello musicale raggiunto con quella formula, diedero sfogo alla loro vena più sperimentale e intellettuale. Il punto di partenza però restava ancora "Remain In Light", tanto da lasciare comunque la forte sensazione che i due dischi, pur appartenendo a modalità espressive diverse, fossero un'unica cosa.

"My Life In The Bush of Ghosts" nacque, come detto, da una forte esigenza di sperimentazione, che, però, non era priva da puro e semplice divertimento. La maggior parte delle composizioni si reggeva su un ipnotico tappeto ritmico sul quale venivano a innestarsi giochi sonori tra i più svariati. Quindi, in definitiva, era pur sempre musica da ballo.

La base era la musica che andava per la maggiore in quegli anni nell'ambito più avanzato della new wave, e che veniva rielaborata e stravolta, portandola all'estremo limite con l'inserimento di effetti preregistrati: voci di predicatori radiofonici, esorcisti, rumori, cori orientali.

Il risultato fu straordinario. I due si avvalsero inoltre della collaborazione di ottimi strumentisti, tra i quali spiccava il nome di Bill Laswell, bassista e compositore della scena newyorkese, che era già protagonista in quegli anni, come lo sarà ancor più in quelli successivi, di analoghi esperimenti musicali che investiranno le più svariate tendenze.

"My Life In The Bush Of Ghosts" è un album del quale non verrà colta immediatamente tutta l'enorme carica e potenzialità innovativa, restando per lo più un prodotto fuori dagli schemi commerciali, relegato in una sorta di limbo intellettuale, quale fosse solo il capriccio straordinario delle manie di avanguardia dei due geni musicali.

Nel corso dei decenni successivi, come e forse di più che negli anni ottanta, questo disco rivelerà invece la sua imprescindibile importanza.

La storia della musica elettronica e della scena alternativa non sarebbe certamente stata la stessa senza l'esperimento di Eno e Byrne e, ascoltato oggi, si ha ancor più netta la sensazione che questa è musica al di fuori dal tempo, in cui la carica innovativa è ancora intatta e assolutamente lontana dall'essere un minimo intaccata.

Non so se ne fossero consapevoli o meno, ma i due autori, con questa operazione, stavano dando un contributo alla rappresentazione di un mondo in disfacimento, così come lo avevano fatto altri nell'era punk, e lo fecero altri ancora in quella post punk.

sabato 28 gennaio 2023

Antonio Colavito e Adriano Petta "Ipazia, scienziata alessandrina" (2004 - 2006)


CONSIGLI DI LETTURA

Antonio Colavito e Adriano Petta

"Ipazia, scienziata alessandrina" (2004 - 2006)

Sono quasi sempre i vincitori a scrivere la Storia. E se la storia è quella di una donna eretica e sconfitta, state pur certi che la rimozione e il confinamento nell'ombra sono una certezza. 

Quanti di noi hanno mai sentito parlare di Ipazia Alessandrina? Di quale fosse la sua effettiva importanza? Quale ruolo abbia avuto nella storia del pensiero umano? In quante storie della filosofia e del sapere scientifico viene menzionata la sua esistenza? Credo che i casi siano pochi e marginali. Ed è per merito di questo romanzo che io l'ho conosciuta.

Eppure, non solo Ipazia è esistita veramente, ma ha avuto anche un'importanza non certo secondaria. Nella quarta di copertina vengono menzionate poche righe che dovrebbero bastare: "Ipazia (370-415 d.C.) erede della Scuola alessandrina, filosofa, matematica, astronoma, antesignana della scienza sperimentale (studiò e realizzò l'astrolabio, l'idroscopio e l'aerometro)".

Eppure, Raffaello le dedica un posto di tutto rispetto nel suo affresco "La Scuola di Atene". È l'unica filosofa donna in mezzo a tanti filosofi uomini di grande prestigio. Ed è l'unica figura che guarda dritta davanti a sé, fuori dal dipinto, senza timore.

Inoltre, come dice Margherita Hack nella sua prefazione (un po' discutibile data la sua impostazione eccessivamente razionalista, ma erano quasi vent'anni fa), Ipazia fu la prima scienziata donna della Storia di cui ci sono state tramandate testimonianze. Eppure, tutto ciò vale molto poco. Si potrebbe obiettare che nulla di suo pugno è rimasto, se non l'epistolario con Sinesio che la consultava sulla costruzione di un astrolabio e di un idroscopio. Ma di quanti suoi "colleghi" uomini è rimasto ugualmente così poco, in determinati casi ancora meno, eppure a molti di questi non è stato negato un posto di primo piano?

L'immagine che Colavito e Petta ci presentano di lei è quella di una giovane donna, colta e sensibile, preoccupata che il sapere di secoli e millenni non vada dissipato e distrutto da un potere che non può accettare l'esistenza di idee non omologate. Ricorda qualcosa?

Una giovane donna e la sua battaglia contro l'intolleranza, ossessionata dall'idea dell'antica distruzione della biblioteca che la sua città vide secoli prima.

Un testo questo, in cui Colavito e Petta si dividono le parti. Il primo che parla con la voce di Ipazia intenta a speculare sul mondo e a riflettere sui suoi sogni, il secondo che tramite la voce narrante di Shalim, discepolo della scienziata, ripercorre in forma romanzata la cronaca di quegli anni, rendendo omaggio alla sua maestra.

E' un mondo diviso in due quello di Ipazia, che non riesce ad accettare questa separazione, tante sono invece le possibilità che l'esistenza può nascondere. E' un mondo alle soglie di una trasformazione epocale, con una Chiesa cristiana ancora giovane e da poco alle prese con le dinamiche del dominio. Si intravedono i primi scontri con alcune culture che da quel momento in poi la cristianità tollererà sempre meno e così per molti secoli a venire, intraprendendo soprattutto una guerra contro la diffusione del libero pensiero, che, al tempo di Ipazia, le ultime propaggini del mondo ellenico ancora un po' garantivano.

Nell' edizione in mio possesso del 2004 - 2005, gli scrittori soprattutto nelle introduzioni promuovono (come fa anche la Hack) una generica idea un po' troppo ingenua, tesa all'esaltazione della Ragione e al presunto oscurantismo medievale, addossando per intero le colpe alla Chiesa Cattolica. Resta comunque, al netto di queste loro considerazioni, una storia raccontata molto bene, a testimonianza di una donna coraggiosa che non volle piegarsi. L'importanza di Ipazia non sta tanto nella difesa della Ragione, che, come abbiamo potuto constatare noi sulla nostra pelle, può essere trasfigurata in un dogma al pari e peggiore degli altri. Ma nella difesa della tolleranza e del libero pensiero.

Un mondo, infatti, che ha purtroppo molte analogie col nostro, dove odio e risentimento, causati da un'idea di appartenenza fittizia e indotta, dove ogni libero pensiero è bandito, inibiscono il dialogo, la crescita, la diffusione della cultura e la mutua solidarietà tra uguali. Un mondo dove la prevaricazione e il conflitto, in nome di una qualsiasi verità rivelata e dogmatica, nutrono il pregiudizio e fanno venir meno la capacità di ascolto e di compresenza nell'altro.

Cambiano gli attori, le "fedi", tuttavia, le dinamiche di potere e di controllo sono sempre le stesse. Ma verrebbe voglia di dire anche che, purtroppo, nel corso del tempo, diventano sempre più pervasive. Come i bigotti scientisti del presente sono, d'altronde, ben peggiori di quelli di ieri, considerando che hanno anche operato un capovolgimento. Ora, l'intolleranza opera in nome della dea Ragione, e paradossalmente con l'uso di un pensiero magico, altrettanto superstizioso, che millanta di detenere l'imprimatur della vera e unica Scienza.

Il romanzo di Colavito e Petta, che ha il merito di trattare tutto ciò con drammaticità e serenità, è un'opera molto delicata, ma nello stesso tempo forte e tenace, come delicata, forte e tenace è la sua protagonista, irriducibile fino alla fine.

Il libro però narra anche di una dolcissima storia d'amore, che come le idee di Ipazia, rifiuterà di piegarsi all'insensatezza del potere.

venerdì 27 gennaio 2023

"Fantasmi a Roma" (1961)


Cult Movie

"Fantasmi a Roma" (1961)

regia di Antonio Pietrangeli

con Eduardo De Filippo, Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman,

Sandra Milo, Tino Buazzelli, Claudio Gora, Lilla Brignone, Belinda Lee, Claudio Catania

"Fantasmi a Roma" è un'opera molto particolare, un piccolo grande gioiello del nostro Cinema che fu, e che stupisce ancora oggi per quanto e come riesca a colpire l'immaginario, un esempio "sui generis" di commedia all'italiana, che pur restando per certi versi di "nicchia", ha fatto decisamente scuola anche fuori dall'Italia stessa. Una commedia di genere fantastico, fatto abbastanza inusuale per l'epoca, ma che riprende temi cari a certo teatro, in primis a quello di Eduardo: è assolutamente chiaro che sia anche un omaggio a "Questi fantasmi", suo grande capolavoro. 

Considerato un film ingiustamente minore, ha invece dalla sua parte diverse caratteristiche che lo rendono colmo di interesse. Si vedano innanzitutto il soggetto e la sceneggiatura che raccolgono insieme, nei nomi di Ennio Flaiano, Ettore Scola, Ruggero Maccari, Sergio Amidei e dello stesso Pietrangeli, un pezzo considerevole della storia del Cinema italiano e con Flaiano anche della Letteratura. E in tema di maestri, non si può non segnalare la colonna sonora composta da Nino Rota.

L'intelligenza e la cura che lo pervade, lo rende unico anche per l'epoca, ponendolo sicuramente tra le opere più altamente raffinate del genere. La storia infatti, pur scegliendo la veste fantastica, non è priva di chiari riferimenti sociali: la critica alle effimere sirene del mito del progresso e al cancro della speculazione edilizia. Critica che, però, nella sua forma lieve e divertente, non diventa mai pesantemente accademica.

Inoltre, la pellicola è un omaggio alla città di Roma, a certe sue tipiche figure umane e ai suoi luoghi. Vestendosi di una patina tra il surreale e il concreto, riesce così a cogliere alla perfezione alcuni aspetti di fantastico incanto e di miseria urbana. Fotografia e documento di quello che era la città negli anni sessanta.

E poi il regista, quell'Antonio Pietrangeli, che a causa sicuramente della presenza ingombrante di contemporanei molto blasonati, non ha goduto del giusto riconoscimento, che andrebbe invece tributatogli, sia come regista, che come sceneggiatore. La sua è una mano lieve e da grande professionista. Un professonista che nell'epoca cinematografica attuale sarebbe giudicato un gigante, a fronte dei troppi oscuri e sopravvalutati nani che la popolano.

Infine, il cast di attori straordinari, impegnati, lo si ricordi bene, tra Cinema e Teatro, e che financo nei comprimari, danno una lezione di recitazione a livello decisamente sublime nel caratterizzare personaggi e figure, che restano indelebili e che entrano senza esagerazione e in pieno diritto nel mito.

giovedì 26 gennaio 2023

Grace Slick

Storia del Rock

Protagonisti 

Grace Slick ❤️

Ci sono personaggi che nella storia del rock hanno lasciato il loro segno. Cantanti, musicisti, produttori, sono moltissimi quelli di cui si dovrebbe parlare a prescindere del valore musicale in sé, o meglio partendo proprio da questo, ma per indagare anche l'impronta lasciata nell'immaginario degli appassionati. Ci sono alcuni che sono delle vere e proprie icone.

Vorrei iniziare da Grace Slick per una serie di motivi, innanzitutto perchè di Grace Slick sono stato profondamente innamorato, soprattutto nell'adolescenza, forse l'unico caso di vero e proprio di innamoramento da parte mia nei confronti di una star del rock, l'altro perchè è stata uno dei simboli di una stagione particolare e di un movimento particolare, legato alla musica giovanile. Ultimo, ma non meno importante, è il valore artistico indiscutibile.

Premetto che mi riferisco soprattutto all'epoca d'oro dei primi Jefferson Airplane, quello che è accaduto dopo è un'altra storia, sicuramente dalla valenza molto meno rilevante.

La Slick è innanzitutto una delle protagoniste della Bay Area, insieme a Paul Kantner e a Jerry Garcia. Il movimento che musicalmente, ma non solo, rinnova radicalmente la scena rock californiana della seconda metà degli anni sessanta. Figli diretti della Controcultura, del flower power e dei viaggi lisergici.

Grace Slick si ritrova a ricoprire un pò il ruolo di sacerdotessa di tale movimento, la sua voce e il suo aspetto fisico si prestano assai per la costruzione del mito, forte anche dall'incredibile carica sensuale, anarchica e trasgressiva.

Con i Jefferson, da sola o in coppia con


Kantner dà vita ad una serie di dischi memorabili, nei quali la sua voce unica, allucinata, aggressiva e dolcissima, ma sempre dai toni intensissimi è la maggiore protagonista, rendendo inconfondibile un sound dalle tinte acide e psichedeliche, vessillo più importante della west coast. Interprete notevole anche di diverse cover, nelle quali in alcuni casi offre il meglio di sé. Come dimenticare per esempio "Triad" di David Crosby, contenuta nell'album "Crown of Creation", oppure la mitica "Wooden Ships" di Kantner, Crosby e Stills, presente su "Volunteers".

Senza dimenticare poi la partecipazione al festival di Woodstock, che ha semplicemente del memorabile, e che contribuì ancor più ad accrescere la popolarità della cantante.

Discografia consigliata:

"Surrealistic Pillow" (1967) - Jefferson Airplane

"After Bathing At Baxter's" (1967) - Jefferson Airplane

"Crown of Creation" (1968) - Jefferson Airplane

"Volunteers" (1969) - Jefferson Airplane

"Blows Against the Empire" (1970) - Paul Kantner / Jefferson Starship

"Sunfighter" (1971) - Paul Kantner & Grace Slick

"Baron Von Tollbooth & The Chrome Nun" (1973) - Paul Kantner, David Freiberg & Grace Slick

"Manhole" (1974) Grace Slick

"Dragon Fly" (1974) Jefferson Starship.



"Wooden Ships", amaro inno anarchico.


«Salpare per dove si innalza il sole del mattino

Salpare per dove il vento soffia dolcemente

E giovani uccelli volano

Prendere una sorella per mano

Condurla lontano da questa terra desolata

L’orrore ci assale mentre vi vediamo morire.

Tutto quello che possiamo fare è fare eco alle vostre grida angosciate,

guardare a bocca aperta mentre muoiono tutti i sentimenti umani.

Ce ne stiamo andando, non avete bisogno di noi.

Andiamo, prendiamo, quindi, una sorella per mano,

Conduciamola lontano da questa terra straniera,

lontano, via, dove potremmo sorridere ancora.

Ce ne stiamo andando, voi non avete bisogno di noi.

Oh, voi non avete bisogno di noi

Velieri, sull'acqua, molto liberi e accessibili.

Accessibili, sai, nel modo che si può supporre.

Persone d'argento sul litorale, lasciateci essere

molto liberi, e lasciateci andare.»

martedì 24 gennaio 2023

Richard Zimler "Il cabalista di Lisbona" (1996)


CONSIGLI DI LETTURA

Richard Zimler

"Il cabalista di Lisbona" (1996)

Lisbona, primi anni del cinquecento, dopo le espulsioni del 1492 di molti ebrei abitanti nella penisola Iberica, detti sefarditi, quello che resta della comunità ebraica vive in clandestinità, costretta alla conversione forzata al cattolicesimo. Durante la Pasqua esplode un violentissimo pogrom, nel corso del quale vengono bruciati centinaia di "nuovi cristiani". Parallelamente a questi fatti, si inserisce l'indagine di un giovane ebreo che cerca di chiarire il mistero della morte dello zio Abraham Zarco, cabalista e miniaturista.

Siamo nel 1506, nove anni dopo la conversione forzata al cattolicesimo, e trenta anni prima della creazione dell'Inquisizione portoghese.

Ottimo giallo storico di Richard Zimler, scrittore americano, naturalizzato portoghese, che dopo essere stato rifiutato da ventiquattro editori americani, è stato pubblicato proprio in Portogallo. E alla fine, solo dopo cinque anni di traduzioni e successi editoriali in tutto il mondo, che lo hanno tramutato in un vero e proprio best seller in Brasile e in Italia, è stato pubblicato anche negli USA dalla Overload Press, casa facente parte dell'editoria indipendente.

“Credo che quello che è successo con il mio libro evidenzi alcuni punti deboli dell'editoria americana”, ebbe a dire Zimler, in un' intervista, “Quando arriva un libro che non rientra in una formula, gli editori semplicemente non sanno cosa farsene. È come un oggetto di un altro pianeta. E così lo rifiutano”.

Ci sono stati periodi in cui l'odio nei confronti degli ebrei nell'Europa cristiana ha raggiunto livelli di inusitato furore persecutorio. Quando la Santa Inquisizione ha mandato al rogo masse innumerevoli di ebrei, con la complicità del consenso popolare, ebrei che divenivano il capro espiatorio di ogni male e iattura. Gli stessi tempi in cui invece i cittadini di religione musulmana, pur essendo duramente discriminati, non venivano trattati alla stessa stregua. Infatti nel periodo del post medioevo e del primo Rinascimento si alternavano situazioni di vera e propria guerra, ad altre in cui vigeva una sorta di guerra fredda tra le due civiltà che, si spartivano il mediterraneo, e alcuni precari equilibri dovevano essere salvaguardati. E in nome di questa realpolitik, gli ebrei erano spesso gli unici a farne le spese in occidente.

Contemporaneamente molti di loro fuggivano dall'Europa per rifugiarsi nelle terre dell'Islam, molto più accoglienti e tolleranti, come nel caso dell'io narrante, il nipote di Zarco che da Istanbul ricorda i fatti di quei giorni ormai lontani.

È bene ricordare, però, che nello stesso periodo si diffuse il singolare fenomeno dei cosiddetti "Cristiani di Allah", criminali, rinnegato, avventurieri, mercanti, pirati e quant'altro che si convertirono all'Islam, per continuare i loro traffici con meno restrizioni, e che ebbero, nonostante tutto un ruolo non secondario nello scacchiere geopolitico dell'epoca. 

Romanzo terribilmente intenso, che assume un valore particolare ai nostri occhi, visti i tempi che stiamo vivendo, la storia spesso è beffarda e si diverte a cambiare i rapporti di potere, nonostante chi crede che certi fattori siano perennemente immutabili, e che dovrebbe insegnarci che nulla è dato per certo nel fluire degli avvenimenti umani, l'unica cosa certa sono le dinamiche che sottendono ai conflitti e ai pregiudizi, e il fatto che a farne le spese sono innanzitutto le persone comuni. 

Nel libro viene dipinta una Lisbona ai limiti delle possibilità umane, ed in particolare il piccolo quartiere ebarico nel distretto di Alfama. Una città che è un vero e proprio inferno di intolleranza e pregiudizio, con feroci conflitti interni anche tra correligionari.

Suggestivo e colto affresco storico che richiama alla mente l'arte pittorica di Bruegel, Bosch e Durer. Nel quale si intersecano i riferimenti alla Kabbalah e ai significati filosofici e religiosi legati al miniaturismo ebraico. Un'atmosfera claustrofobica e ossessiva non abbandona mai la storia e finisce per rendere ancora più oscuri e affascinanti gli elementi di mistery che la caratterizzano.

Unico fattore di speranza, l'amicizia fraterna tra il nipote di Zarco e Farid, giovane mussulmano sordo-muto, il quale, con il suo particolare acume, aiuta l'amico a venire a capo del mistero e della situazione più propriamente esistenziale.

domenica 22 gennaio 2023

"I tre volti della paura" (Black Sabbath) (1963)


CULT
MOVIE

"I tre volti della paura" (Black Sabbath) (1963)

regia di Mario Bava

con Boris Karloff, Michelle Mercier,

Jacqueline Pierreux, Lydia Alfonsi, Mark Damon, Susy Andersen.

Genere: horror, thriller, gotico.


A proposito di visioni inquietanti, questo è un film che trasmette una notevole dose di inquietudine ancora oggi, a dimostrazione che al Cinema di qualità poco servono effetti speciali sofisticati e tecnologie innovative. E a dimostrazione che certe opere artistiche non invecchiano mai, riuscendo a comunicare forti emozioni, nonostante il tempo, attraverso il tempo e fuori dal tempo.

"I tre volti della paura", a dispetto del suo schematico inserimento tra i "b movies", è un film di notevole complessità. Pietra angolare del cinema di genere, ha segnato una svolta decisiva, tanto da essere, nel corso dei decenni successivi, uno dei film più citati e di maggiore fonte di ispirazione di diversi registi e non solo per quanto riguarda l'horror e la produzione di genere. Dario Argento, solo per fare un esempio, non sarebbe stato lo stesso senza Mario Bava e senza questo film. Quentin Tarantino lo considera uno dei suoi maestri: ha affermato che nel concepire la struttura di "Pulp Fiction" aveva in mente proprio questo film.

Nell'ottica, quindi, di una giusta valutazione del "b movie" di qualità, questo è un prodotto di cui andare fieri proprio per la sua indubbia catalogazione. Sul fatto che sia un film di genere, insomma, non ci piove e non rientrava certo nelle intenzioni di Bava stesso fare qualcosa di diverso. Ma proprio qui, per fortuna, risiedono appunto tutte le sue qualità.

In una naturalezza quasi naif, nel rifuggire qualsiasi operazione pseudo intellettuale, ma nello stesso tempo, nella sua struttura che la rende un'operazione colta e squisitamente ironica, sta la genialità dell'intuizione di Bava. A cominciare dagli interventi fuori scena di Boris Karloff, posti all'inizio e alla fine del film. Finale, in cui sta lo svelamento non solo del trucco del cinema di genere in quanto tale e della finzione grottesca legata appunto ai "b movies", ma che è caratteristica imprescindibile di tutto il Cinema.

La finzione non è solo di quei film e Bava sarcasticamente lo rende esplicito. Il cinema è finzione sublime nel suo complesso, e guai a dimenticarlo. L'ironia è diretta chiaramente soprattutto a tutti i suoi detrattori, cultori del cinema "alto", che per tale definizione ha necessità intrinseca e vitale del disprezzo coltivato nei confronti del cinema "altro".

Siamo tutti coinvolti, sembra dire Bava, ma c'è chi lo fa con consapevole sincerità e modestia e chi nega ipocritamente la sua natura, tanto da snaturare in alcuni casi il messaggio stesso, proprio del linguaggio cinematografico.

La finzione, partendo già dal ricorrente pseudonimo di "John Old" usato proprio da Bava, in diverse occasioni come regista, è, inoltre ben rappresentata nei tre episodi presi singolarmente, soprattutto dal primo: "Il telefono", che nella trama è esattamente la finzione di un gioco di terrore, simbolicamente reso financo nella falsa attribuzione del soggetto a Maupassant.

Gli altri due episodi sono invece tratti, rispettivamente, da un racconto di Aleksej Tolstoj (cugino di secondo grado del ben più famoso Lev), "I Wurdalak", e da un racconto di Anton Cechov, "La goccia d'acqua".

In definitiva, anche il Cinema come metafora degli inganni della Comunicazione. Non credete a tutto ciò che vi fanno vedere, che vi dicono, che leggete. Perché molto è falso, è solo rappresentazione della realtà, è creazione di chi sta dietro la "macchina da presa" e della sua "troupe", di chi ci "regala" incubi. 

Tuttavia, paradossalmente, al contempo, la finzione cinematografica ci stimola a sognare, anche se dovremmo farlo "cum grano salis", con spirito critico, consapevoli della finzione stessa, insita in ogni rappresentazione, che sia cinematografica, televisiva, mediatica, virtuale, politica.

Non è un caso, infatti, che il film sia diviso, così perfettamente, in una triade di episodi assai diversi tra loro. Non vi è solo la manifesta intenzione di scandagliare le varie tonalità del terrore: thriller, gotico e horror. Operazione che, tra l'altro, raggiunge risultati assolutamente ragguardevoli. Bava usa di nuovo la metafora del prodotto di genere per parlare ancora una volta dell'essenza del cinema nella sua interezza. La capacità di cambiare luogo e situazione, l'approssimazione visiva che si fa atto sublime, l'eclettica adattabilità ad ogni storia: la luce vivida, quasi eccessiva, dei colori, il grigiore e l'oscurità.

Il cinema in fondo è questo, e a volte alcuni registi di genere sono riusciti meglio nell'impresa con il loro connaturato eclettismo. Sono riusciti con più efficacia a rendere quello che il cinema dovrebbe essere: la materializzazione più concreta delle visioni, dei sogni, delle speranze, dei timori e degli incubi umani.

Mario Bava per questo ha lasciato a tutti noi il suo cinema, pieno di sense of wonder, a cui molti registi, anche più recenti, si sono ispirati, ritenendo giustamente il cineasta italiano un maestro indiscusso per tutti loro.

E infine, una curiosità che non è a tutti nota: la pellicola uscì all'estero con il titolo di "Black Sabbath". E indovinate un po' che cosa ispirò?

sabato 21 gennaio 2023

In memoria di David Crosby

Storia del Rock

In memoria di David Crosby

Dopo Jeff Beck, ci lascia un altro grande musicista del XX secolo, un mito che ha fatto la Storia del Rock. 

David Crosby nel corso della sua carriera ha collaborato con tutti i più famosi personaggi della West Coast. 

Viene ricordato soprattutto per il sodalizio con Stills e Nash, ai quali si aggiunse poi Neil Young. È di questo periodo, una delle sue più belle composizioni: "Almost cut my hair". 

Mitico il loro live "Four Way Street". Una delle migliori performance del disco, è proprio la sua "Triad", tenue ballata country psychedelica, dai toni romantici. Per un lungo periodo, è stato lui il mio preferito dei quattro. Percepivo una sensibilità molto affine alla mia, o almeno pensavo di percepirla. D'altronde, in buona parte, è questa la magia tra musicista e ascoltatore. 

Crosby, comunque, quando si unì a Stills e a Nash, aveva già sulle spalle un rilevante esperienza musicale coi Byrds, uno dei primissimi gruppi di country rock, di cui fu fondatore nel 1964 insieme a Roger McGuinn e Gene Clark. Passò alla storia la loro versione di Mr. Tambourine Man di Bob Dylan. 

Tuttavia, andrebbe ricordato anche per la sua attività come solista. 

"If I could only remember my name" del 1971 è il suo primo album. 

Un disco caratterizzato da brani psichedelici, blues e country, ma anche da atmosfere più rilassate, delicate, a tratti quasi accennate, sussurrate, considerato col passare degli anni una sorta di pietra miliare. 

Nella realizzazione di questo album, David Crosby si circondò di eccellenti collaboratori, tra i quali: Graham Nash, Neil Young, Jerry Garcia, Joni Mitchell, Grace Slick, Jorma Kaukonen, Paul Kantner e David Freiberg. 

giovedì 19 gennaio 2023

Rip, Rig & Panic "God" (1981) - "I Am Cold" (1982)

Storia del Rock

Rip, Rig & Panic

"God" (1981) - "I Am Cold" (1982)

Negli anni ottanta il rock prese talmente strade diverse e notevolmente creative, da allontanarsi spesso apparentemente anche dalle fondamentali regole che lo contraddistinguevano. Ciò fu merito prima del punk, che distrusse i fondamenti di una musica che si stava troppo ripiegando su se stessa, e poi della new wave che ne riscrisse i canoni. Questo accadeva però nella seconda metà degli anni settanta.

Alterne fortune e alterne vicende attraversarono poi nel decennio successivo la musica rock. Una babele di suoni e di concezioni diverse che si dipartivano dalla new wave e che della new wave presero l'etichetta, tanto era sfuggente il concetto stesso che sottintendeva a questa esperienza musicale. I risultati non furono sempre particolarmente rilevanti dal punto di vista qualitativo, ma è innegabile lo sforzo di rinnovamento e di libertà espressiva che stravolsero i generi e i sottogeneri. 

Tutto nasceva dal concetto che gradatamente si affermò, quello di contaminazione, non visto più come un genere diverso con cui far sposare il rock, come per esempio era accaduto col rock blues o col progressive, ma come sperimentazione e ardita incursione sonora che si scioglieva all'interno di un minestrone di generi diversi e che alla fine andavano ad arricchire la materia musicale. Quindi non più la catalogazione come tratto distintivo, attraverso la quale riconoscere il rock come primaria forma da cui tutto deriva, ma il risultato finale che del rock conservava il concetto estetico di approccio istintivo ed immediato. 

Uno degli esperimenti più interessanti di quegli anni, ma che si risolse solo in una manciata di dischi, fu appunto quello dei Rip, Rig & Panic, i quali provenivano già dall'incredibile esperienza di cruda avangaurdia radicale del Pop Group. Il discorso musicale si evolveva e si raffinava, cercando nel jazz sia tradizionale che d'avanguardia, nella musica etnica, nella musica classica, nel soul, nell'elettronica e nello scherzo sonoro, non un'identità ma la ricerca di nuove strade. 

I primi due album, qui segnalati, che nella versione in vinile tra l'altro erano due doppi EP, sono la dimostrazione pratica di tutto ciò, più radicale e sperimentale il primo, più votato alla ricerca melodica e sonora il secondo. Dischi forse oggi introvabili, ma essenziali per capire l'evoluzione musicale dell'epoca. Probabilmente ininfluenti per quanto riguarda i percorsi musicali nei decenni successivi, anche se ciò sarebbe tutto da dimostrare, ma sicuramente imprescindibili, oltre che per la loro genialità e assoluta originalità, per quello che seguì nelle forme più sperimentali e fantasiose in tutti gli anni ottanta.

Il gruppo di Mark Springer godeva dell'apporto di notevoli musicisti e in particolare della straordinaria voce di Neneh Cherry, figlia del grande trombettista jazz Don Cherry, la quale successivamente intraprese una dignitosa carriera come cantante soul.

lunedì 16 gennaio 2023

"La vera storia del pirata Long John Silver"


CONSIGLI DI LETTURA

Bjorn Larsson

"La vera storia del pirata Long John Silver" (1995)

Qual'è il vero John Silver? Quello fugace, misterioso e luciferino dell"Isola del Tesoro" di Stevenson, che così come appare, poi scompare, lasciando i lettori pieni di meraviglia e di interrogativi?

Oppure quello di Larsson, "diabolico", sì, ma umanissimo, che sceglie di raccontare la sua storia fin nei minimi particolari, senza trascurare nulla?

La letteratura è in fondo un gioco. Un gioco eccelso, ma pur sempre un gioco. E uno dei giochi perversi della letteratura, ma senz'altro deliziosi ed interessanti, è quello di far rivivere personaggi creati dalla penna di altri scrittori ed entrati poi nel mito. Che Long John Silver fosse destinato ad entrare nel mito era cosa scontata. "L'Isola del Tesoro", classico della letteratura, a torto e a lungo considerato soprattutto per ragazzi, aveva avuto il merito di stanare il pirata. Ma con il suo finale in sospeso aveva anche aperto la stura ad ogni possibile seguito.

Larsson non solo cerca di porre rimedio a questo, ma si dimostra addirittura "ossessionato" dalla figura di Silver. Una gran bella ossessione. Certo il suo è innanzitutto un omaggio alla letteratura di avventura e in particolare a quella che ha narrato storie di pirati, ma non è solo questo, per fortuna. È Silver che interessa allo scrittore, e gli sviluppi che la riflessione profonda, e quindi in qualche modo l'ossessione, possa portare nel rincorrere il suo mito.

Larsson immagina John Silver, oramai vecchio e decrepito, minato nel fisico, ma non nell'animo e nella volontà di potenza, che scrive le sue memorie per porre esplicitamente rimedio alle falsità. Quella perpetrata ai suoi danni da Jim Hawkins, personaggio principale del romanzo di Stevenson, ora non più ragazzo, che Larsson immagina autore di memorie, probabilmente la stessa "Isola del Tesoro" sotto mentite spoglie; le "falsità" scritte nei suoi romanzi sulla pirateria in genere da Daniel Defoe, per un certo periodo amico di Long John Silver; e quelle, che bruciano di più, dell'opinione pubblica che lo vuole nemico dell'umanità intera.

L'incontro immaginario tra Silver e Defoe è una delle pagine più belle e piene di significato dell'opera dello scrittore svedese. Avviene in una locanda malfamata di Londra nella piazza in cui vengono impiccati i pirati.

Qui siamo in presenza di una metafora dalla notevole intensità. Uno scrittore di fronte ad un personaggio parto della fantasia letteraria. Il rapporto che ne scaturirà sarà tutto all'impronta dell'ammirazione reciproca, ma anche della grande diffidenza e dell'egoismo da parte di Defoe, che vede in Silver solo lo strumento per arricchire il suo patrimonio di osservatore e di redattore di diari. È un'esplicita condanna da parte di Larsson mossa ad alcuni scrittori, che non sanno far altro che modellare la realtà a loro piacimento, senza aver pena delle loro creature? Puo' darsi, ma è anche un omaggio al genio letterario, si guardi il modo in cui descrive Defoe e le cose che gli fa dire.

Larsson in effetti si preoccupa molto dell'umanità del suo personaggio e il suo omaggio assume le caratteristiche di un atto di affetto premuroso. Con gesto utopico e "insensato" vuole porre rimedio alle deformazioni della letteratura e mettere al centro il punto di vista del protagonista, anche se questo esiste solo nella fantasia.

Ma questo è un punto molto delicato. Lo scrittore svedese si accorge dell'errore che può ingenerare un'impostazione di questo tipo e ne fa la parabola meno evidente del suo romanzo. Nessuno può sapere quale sia stata la vera esistenza di un uomo, anche del più reale, perfino se raccontata dallo stesso protagonista in prima persona. E non importa che Long John Silver non sia mai esistito. Ognuno di noi alla fine del libro, anche il lettore più smaliziato, rimane con la sensazione che sia più reale questo personaggio di tanti altri che realmente hanno calcato il palcoscenico della storia. L'unica cosa che conta è cercare di consegnare all'immortalità un mito, facendolo continuare a vivere attraverso la narrazione. Per questo un omaggio come quello di Larsson ha un grande significato, nonostante l'apparente perversione. L'importante è continuare a narrare aggiungendo punti di vista ad altri punti di vista, per cui riportare in vita personaggi, opere e luoghi letterari è una grande, commovente e magnifica impresa.

sabato 14 gennaio 2023

"Duel" (1971)

 
CULT MOVIE

"Duel" (1971)

Regia di Steven Spielberg

Soggetto e sceneggiatura di Richard Matheson 

con Dennis Weaver, Carey Loftin, Jacqueline Scott

Fortunatamente non sono l'unico a pensare che questo sia il miglior film realizzato da Steven Spielberg, il fatto che sia poi anche il suo film d'esordio potrebbe non essere solamente una coincidenza. La scelta iniziale di farne un film concepito unicamente per la TV, lo rende ancora più unico nel suo genere.

È fuor di dubbio che sia pienamente un film da attribuire a Spielberg, su questo non ci piove. Spielberghiano è lo stile e spielberghiana è l'impostazione, anche se qualcuno potrebbe definirla ancora acerba. Il famoso regista americano, invece, ha profuso, una volta tanto, tutta la sua bravura nel realizzarlo, senza limiti ed orpelli inutili.

Però a me piace pensare che sia soprattutto un film di Richard Matheson. E lo è, non solo perché risulta essere forse l'opera cinematografica nella quale il grande scrittore ha mostrato fino in fondo le sue capacità nel modellare una sceneggiatura, ma perché il taglio e il sapore del fim moltissimo devono alla mano di Matheson, anche nella direzione. Infatti, sono abbastanza espliciti richiami estetici e formali ad alcuni episodi di "Ai confini della realtà" che, sempre come sceneggiatore, portano la stessa firma di Matheson. Ma è ancor più un film "mathesoniano" perchè molto bene si armonizza con tutta la sua opera letteraria.

"Duel" è, come lo sono molti dei prodotti narrativi dello scrittore nelle sue svariate forme, un apologo sulla solitudine umana. L'individuo resta solo con se stesso nelle storie di Matheson, ma non è una pura e semplice solitudine della mente, è una solitudine irreversibile, fisica, prima che morale. Da solo con la macchina distruttrice, priva di ogni umanità. Da solo ad affrontare il male.

Nei romanzi "Io sono leggenda" e "Tre millimetri al giorno", tale solitudine prendeva la forma di una minaccia esterna, ma che il personaggio faceva sua, interiorizzando ossessivamente la trasformazione fisica degli altri o di se stesso. In questo film, il duello, la lotta con la propria solitudine prende le forme del metallo, della polvere, dell'asfalto infinito, dei paesaggi desertici, del puzzo del carburante, si fa ancora più ossessiva, impulsiva, priva di razionalità. Il protagonista è solo con la minaccia, con la sua auto rossa e con l'autocisterna dell'antagonista, del colore stesso del deserto, tanto da  poterla considerare come una sua creatura, una putrida escrescenza del deserto stesso, contaminato dalla macchina.

Un antagonista che diventa tutt'uno con il mostro metallico, un antagonista di cui non si vede mai il volto, tanto da indurre la sensazione che sia il camion il vero nemico, quello fisico, quello a cui cercare di dare invano un'identità, e che anzi, se un camionista esiste, questo è solo la vuota marionetta, di cui l'autocisterna ha assunto il controllo, e che mostruosamente ha preso coscienza della sua forza distruttiva.

La ricerca impossibile dell'identità del "mostro" è una ricerca messa in atto dal protagonista, ma anche dallo spettatore, che si identifica inevitabilmente col protagonista stesso. Un nemico costruito dalla propria follia e dalla propria solitudine. 

E anche i momenti di tregua che sembrerebbero in apparenza spezzare questo folle inseguimento, non fanno altro che accrescere ancor più la sensazione generale di isolamento in cui si trova l'automobilista. Un'autopompa, un bar-ristorante, uno scuolabus, qualche altra automobile, compaiono come dal nulla nel deserto, quasi  fossero dei miraggi e così come compaiono, allo stesso modo svaniscono alle spalle dell'inseguimento, senza lasciare traccia.

giovedì 12 gennaio 2023

"Fra Dolcino e gli apostolici tra eresia, rivolta e roghi" (2000) a cura di Corrado Mornese e Gustavo Buratti

Sono molto attratto da eretici ed eresie, perché, se una definizione mi calza, è proprio quella di eretico, non per autocompiacimento, ma perché la mia storia personale ha confermato più volte questa mia attitudine. Il libro in questione è, quindi, abbastanza in sintonia col mio punto di vista, con la mia modesta weltanschauung, in quanto non è soltanto un testo biografico e agiografico, ma ha un valore ben più sostanzioso. E' innanzitutto un saggio di storia che ricostruisce in maniera assai particolareggiata un'epoca, contestualizzando fatti ed avvenimenti e facendo piena luce su una fondamentale esperienza umana, sociale e religiosa.
Quello che si suole definire inquadramento storico viene affrontato molto efficacemente con l'ausilio di una raccolta di testi diversi: un'antologia il più possibile completa ed esauriente, che parte dalla nascita del movimento apostolico di Segalelli per finire con l'olocausto di Dolcino e dei suoi seguaci.

Tutto ciò potrebbe bastare per comporre un'opera con tutti i crismi, che si riprometta di rendere giustizia ad una figura di ribelle e ad un contesto sociale. Ma il lavoro che sta dietro al Centro Studi Dolciniano va ben oltre e va a coronare un'impresa per certi aspetti anche politica, che abbraccia,  in maniera non pedantesca, un arco storico di diversi secoli, senza celare gli aspetti meno gradevoli e più contraddittori del personaggio.

Viene così ricostruito il filo rosso che lega l'esperienza del grande eresiarca alla Val Sesia. Anzi, radica la sua esperienza in modo talmente indelebile nell'immaginario di quelle popolazioni, da resistere all'opera di mistificazione e distruzione, da parte del potere costituito, per arrivare agli albori delle lotte operaie ottocentesche. Molte delle quali assumono proprio Dolcino come esempio di emancipazione.

Ma l'intento dei curatori è anche quello di mostrare quale rapporto ci sia nel fluire della Storia con le idee, cosiddette eretiche, che nutrono più di quanto si creda di linfa vitale i processi di trasformazione e la cultura delle classi subalterne che con questi processi interagiscono, cercando di far emergere una prassi che le renda in qualche modo protagoniste di questa trasformazione.

Non solo politica, è ovvio. Fra Dolcino è stato innanzitutto un leader religioso, che ha legato la sua scelta, la sua airesis, ad un coerente agire che lo ha portato inevitabilmente, da mistico, a delle scelte politiche chiare, irreversibili e fatali, legandolo però anche alla tradizione, ai valori fondanti del cristianesimo. In questo senso anche il sacrificio assume un valore unico e difficilmente rapportabile a quello di altri eresiarchi. Ogni grande perdente della Storia, che abbia saputo sciogliere il suo sacrificio nell'ansia di trasformazione, ha donato il suo corpo e la sua anima al compiersi di un destino inevitabile.

La parabola esistenziale di Dolcino coincide, infatti, con uno dei momenti cruciali toccati dai movimenti ereticali medievali. Il suo essere un "folle di Dio", radicato nelle  coscienze e nelle esistenze degli ultimi, lo ha portato ad una consapevolezza individuale notevole, tale da renderlo intellettuale organico alla classe degli oppressi. Questa consapevolezza si esplicava attraverso un carisma non fine a se stesso e che si rifletteva nella volontà di liberazione di ogni diseredato, individuo in pieno possesso della propria coscienza, del proprio corpo e della propria anima, senza alcuna mediazione di potere.

Questa è la storia di Dolcino, della sua compagna Margherita e dei loro confratelli. Ma è anche un po' la mia storia e di quei tanti eretici, che, non solo in questi ultimi tre anni, hanno sempre manifestato la loro estraneità a ogni forma di potere.

martedì 10 gennaio 2023

Haruki Murakami "Tokyo Blues - Norwegian Wood" (1987)


 CONSIGLI DI LETTURA.

Haruki Murakami

"Tokyo Blues - Norwegian Wood" (1987)

I ricordi a volte ci raggiungono inaspettatamente come una lieve marea, che lentamente ci invade la mente e il corpo, ci accarezza e ci offusca con leggerezza i sensi. Si cade in un rilassato torpore, la tristezza e la malinconia ci assalgono irrimediabilmente. Ma alla fine una dolcissima tenerezza lascia il posto a ogni rimpianto. Un'analoga sensazione si ricava leggendo la novella di Murakami, sicuramente il suo libro più famoso.

Tokyo 1968, Toru, ventenne ragazzo giapponese, e Naoko, sua amica, vivono una storia di amicizia che presto sfocia in un rapporto d'amore "platonico" molto tormentato.

Romanzo delicato e tenue dello scrittore giapponese, basato su un flashback iniziale del protagonista, che ricorda con evidente nostalgia i giorni di quell'intenso periodo della sua vita.

Romanticismo e malinconia a piene mani, ma senza mai eccedere, Murakami è bravissimo a far vivere una serie di personaggi, tutti molto singolari.

Storia d'amore, ma anche di solitudine e di morte, in un'ottica non esclusivamente orientale. 

Tuttavia, la chiave dell'opera di Murakami sta tutta in questa frase: "La morte non è l'opposto della vita, ma una sua parte integrante", cosa che gli uomini dovrebbero aver imparato molto bene, invece di lasciarsi vincere da sirene che spacciano illusioni. I personaggi che si alternano sulla scena, lasciano il loro segno, e non solo: la loro presenza è costantemente palpabile, a prescindere dal fatto che siano vivi o morti.

Storia che potrebbe appartenere genericamente al filone minimalista, ma che assume un valore filosofico assoluto, in cui continuamente si vive l'esperienza legata al tormentato mondo dei sentimenti. Ne consegue che non è solo un racconto sulla memoria e sulla giovinezza e sul mondo che fu e che è irrimediabilmente perso, è anche un racconto sui sensi e sulla loro intensità a prescindere dall'età. In quest'ordine di idee si iscrive il più bel personaggio del romanzo, la chitarrista Reiko, donna matura, sorta di materna guida per i due giovani ventenni. Ma che incarnerà anche il ruolo di “mediatore” definitivo tra i due ragazzi.

La musica riveste un ruolo determinante in "Tokyo Blues", lasciando la netta sensazione che leggendolo si avvertano anche le note. Così si alternano Beatles (da una loro celebre canzone è tratta la seconda parte del titolo del romanzo), Doors, Miles Davis, Bacharach, Debussy....

Ma è il libro stesso ad essere musicale, simile ad una profumata e melodiosa lunga sinfonia, che lascia estenuati, ma intimamente molto appagati.

lunedì 9 gennaio 2023

"Firefly" (2002-2003)


Serie tv che hanno fatto la storia della televisione.

"Firefly" (2002-2003)

14 episodi

Ideata da Joss Whedon

Con: Nathan Fillion, Morena Baccarin, Gina Torres, Adam Baldwin, Alan Tudyk, Jewel Staite, Summer Glau, Sean Maher, Ron Glass.

Si narra che Sheldon Cooper, personaggio di punta della sitcom "The Big Bang Theory", nel suo contratto tra coinquilini stilato con Leonard, volle inserire un punto in cui si stabiliva che il venerdì sera sarebbe stato dedicato alla visione di "Firefly", sua serie preferita, credendo che sarebbe durata molto a lungo. Ma quando la serie venne interrotta improvvisamente dopo il 14° episodio, Sheldon si infuriò talmente tanto, da definire Rupert Murdoch, proprietario di Fox, un traditore, paragonandolo a Darth Vader.

Sheldon non ha tutti i torti: "Firefly" era un piccolo capolavoro, basato su un originale mix tra fantascienza, western e commedia, nel quale veniva descritta la colonizzazione di pianeti da parte dei terrestri, con una rigida divisione e discriminazione tra classi sociali: una space-opera senza alieni, con una straordinaria cura nei dialoghi e nella caratterizzazione dei personaggi, tra l'altro, gli "eroi" sono per lo più dei fuorilegge, degli emarginati e degli sfigati. 

Una delle serie tv più amate e più rimpiante della storia della televisione e che oggi, è ancora considerata una sorta di cult.

E il sospetto, che il calo degli ascolti fu in qualche modo voluto, resta, considerata l'inspiegabile messa in onda alla rinfusa degli episodi senza rispettare l'ordine cronologico. Come resta il sospetto che questo calo degli ascolti non fu l'unico motivo della sospensione e che ve ne fu uno, diciamo così più "politico", giudicandola poco adatta al target televisivo.

"Firefly" venne poi successivamente completata nel 2005, grazie alla pressione e alle proteste dei fan, dall'ottimo film "Serenity", che prende il titolo proprio dall'astronave di trasporto di passeggeri e merci della serie. 

lunedì 2 gennaio 2023

"Assurdo universo", Fredric Brown (1949)


CONSIGLI DI LETTURA


«Se ci sono infiniti universi, allora devono esistere tutte le possibili combinazioni, quindi, in un certo senso, tutto deve essere vero. Voglio dire che dovrebbe essere impossibile scrivere un racconto fantastico perché, per strane che possano sembrare le cose raccontate, esse possono in realtà verificarsi altrove. Non è così?»

«Certo che è così. C'è un universo in cui Huckleberry Finn è una persona reale, e fa le stesse cose che Mark Twain gli fa fare nel suo libro. Ci sono in realtà infiniti universi in cui un certo Huckleberry Finn fa ogni possibile variante di quello che Mark Twain avrebbe potuto attribuirgli. Quali che fossero le varianti, importanti o meno, che Mark Twain avesse voluto apportare nello scrivere il suo libro, esse sarebbero state comunque vere…
… E c'è un numero infinito di universi, naturalmente, in cui noi non esistiamo affatto, vale a dire non esistono creature simili a noi, anzi in cui la razza umana non esiste affatto. Ci sono per esempio infiniti universi in cui i fiori sono la forma di vita predominante, oppure in cui non si è mai sviluppata né mai si svilupperà alcuna forma di vita. E infiniti universi in cui le fasi dell'esistenza sono tali che noi non abbiamo parole né pensieri per descriverle o immaginarle».

Fino a metà degli anni cinquanta, la fantascienza poteva beneficiare di un alto livello di sospensione dell'incredulità. Un sense of wonder praticamente illimitato. Era il periodo dei pulp magazine e delle prime riviste di sf. Questo, però, non voleva dire che la qualità fosse necessariamente più bassa, perché, nonostante non venissero poste troppe domande sulla verosimiglianza e sulla plausibilità delle realtà raccontate, nelle opere migliori, ci si concentrava innanzitutto sugli aspetti filosofici dell'esistenza, su quanto la materia letteraria riuscisse a essere, insomma, metafora del presente e anticipazione del futuro.

Ricordiamoci che questo fu anche il periodo della prima fantascienza sociologica e distopica, quella per esempio di Huxley e di Orwell.
In questo divertentissimo ed eccellente romanzo, ci sono tutti gli ingredienti classici del genere, che poi, verranno sviluppati nei decenni successivi in maniera differente e anche autonomamente nei vari sottogeneri: viaggi nello spazio, dimensioni parallele, extraterrestri mostruosi, realtà virtuale, paradossi metafisici, e, addirittura, lo spazio interiore, un bel po' di anni prima che venisse teorizzato da Ballard nel suo famoso manifesto. Perché questo è soprattutto un viaggio interiore dello stesso scrittore con elementi fortemente autobiografici.

Qualsiasi dimensione parallela, possiamo vivere o solo immaginare, sarà sempre un "assurdo universo", qualsiasi essa sia, compresa la nostra, che sarà sempre la dimensione parallela di qualcun altro: questo suggerisce lo scrittore. E tutto ciò che noi immaginiamo o potremmo immaginare, in realtà, già esiste. Realtà molto concrete, ma, nello stesso tempo, effimere e caotiche, visto che ne esistono infinite varianti anche per un solo minimo particolare. 

Tuttavia, attenzione, noi non siamo creatori di mondi: gli universi esistono a prescindere da noi, e se noi li immaginiamo è proprio perché possiamo farlo, perché sono lì da sempre. Uno dei temi cardini della fantascienza di cui Brown dà la sua personale versione. Una vera e propria weltanschauung filosofica.
In definitiva, la consapevolezza della realtà come un grottesco caos, che possiede però una sorta di ordine intrinseco, che Brown descrive con notevole senso di comica ironia misto a tragedia.

“Otello” (1951) regia di Orson Welles

  Cinema Cult movie “Otello” (1951) regia di Orson Welles con: Orson Welles, Michael MacLiammoir, Robert Coote, Suzanne Cloutier. «Fosse pia...