lunedì 29 aprile 2024

Vladimir Nabokov, “Maria” [“Mašen'ka”] (1926)

 


Classici 


Vladimir Nabokov, “Maria” [“Mašen'ka”] (1926)


«Quel ponte era una continuazione delle rotaie che si vedevano dalla finestra di Ganin, il quale non riusciva mai a liberarsi della sensazione che ogni treno passasse, invisibile, attraverso la casa. Che entrasse dal lato opposto, che i suoi riverberi spettrali facessero tremare le pareti, che proseguisse il suo traballante cammino sul vecchio tappeto, che sfiorasse lo specchio di un lavabo e si dileguasse infine dalla finestra con un raggelante clangore, immediatamente seguito da una nuvola di fumo che si levava alta di là dei vetri; e che quando questa si fosse attenuata emergesse un treno dello Stadtbahn come secreto dalla casa; carrozze olivastre con una fila di scuri capezzoli di cani sui tetti e una piccola tozza locomotiva agganciata dalla parte sbagliata che procedeva allegramente all’indietro mentre trascinava le carrozze nella bianca lontananza tra quei muri anonimi, la cui nerezza fuligginosa emergeva a macchie o screziata dagli affreschi di scaduti cartelloni pubblicitari. Sembrava che nella casa soffiasse in continuazione una corrente di ferro.»



«Timoroso di commettere uno sbaglio, di smarrirsi nel vivido labirinto della memoria, ricreava il proprio passato con cautela e con amore, tornando indietro ogni tanto a ricuperare qualche futile particolare dimenticato ma senza mai procedere con fretta eccessiva. Vagando per Berlino in quel martedì di primavera, finì per ritrovare ogni cosa, provò di nuovo che significa alzarsi dal letto per la prima volta, risentì la debolezza delle sue gambe. Si guardò in ogni specchio. Gli abiti che indossava sembravano insolitamente puliti, singolarmente larghi e leggermente estranei. Percorse lentamente il largo viale che dal terrazzo sul giardino conduceva nelle profondità del parco. Ogni tanto il terreno, imporporato dall’ombra delle foglie si spezzava in talpaie che parevano mucchi di vermi neri. Si era messo pantaloni bianchi e calzini lilla e sognava di incontrare qualcuno senza sapere ancora chi.»


«Sì, il chiosco. Sorgeva su pali in putrefazione sopra un burrone e vi si arrivava da entrambi i lati per due ponticelli inclinati, resi sdrucciolevoli da amenti di ontano e aghi d’abete.

Nelle sue piccole finestre a forma di rombo c’erano vetri di diversi colori; a chi, per esempio, guardava attraverso un vetro blu il mondo pareva congelato in una catalessi lunare; attraverso un vetro giallo, tutto appariva straordinariamente gaio; attraverso un vetro rosso, il cielo sembrava rosa e il fogliame scuro come il borgogna. Alcuni di questi vetri erano rotti e i loro orli frastagliati erano tenuti insieme da ragnatele. L’interno era intonacato; i villeggianti che venivano illegalmente a passeggiare nel parco della proprietà dalle loro dacie avevano scarabocchiato a matita le pareti e il tavolo pieghevole.»


“Maria”, uscito in Italia anche con il titolo originale di “Mašen'ka”, è in assoluto il primo romanzo di Vladimir Nabokov, e fu pubblicato nel 1926. 

Dopo aver letto “Lolita” e “Ada o ardore”, sono andato intenzionalmente a cercare questo libro, essenzialmente per due motivi. Innanzitutto, perché mi incuriosiva andare alle origini di quello che è uno dei miei scrittori preferiti. 

Il suo essere completamente alieno da stereotipi ideologici e moralistici è una delle cose che me lo fa amare di più. La sua narrazione non esprime mai un’ansia di analisi sociologica. 


Il secondo motivo, che può apparire banale, ma non lo è, è che anche questo romanzo ha come titolo un nome di donna. L’universo femminile è fondamentale per Nabokov e anche “Maria” lo conferma. 

Mi riprometto, quindi, di compiere la vertiginosa “scalata” della lettura di più opere possibili dell’autore russo.


Nella prefazione all'edizione in inglese, Nabokov afferma di essere particolarmente legato a questa novella, nonostante le ingenuità che qualcuno vi potrebbe riscontrare. 

Il fatto che sia un romanzo di chiara e limpida linearità può indurre a intravedere una certa acerba ingenuità. Ma non è affatto così. È vero che è ancora abbastanza lontano dal suo superbo e ricercato stile, ma la sensazione di trovarci al cospetto di uno scrittore di grande spessore e originalità c’è già tutta. Credo che in molti pagherebbero per essere autori di un romanzo del genere.


L’avvio del racconto è immediatamente seducente. L’atmosfera claustrofobica all’interno di un ascensore, e poi, in un alquanto sinistra pensione di Berlino, dove avviene l'incontro in cui fanno conoscenza Alfiorov, marito di Maria, e Ganin, è un inizio di grande suggestione, con echi che rimandano a Kafka, a Gogol, a Poe e a Henry James.  

Il romanzo si colora di un tenue alone di grottesco, quando sfilano davanti al lettore i profili degli altri ospiti della pensione, nell’attesa da parte di qualcuno dei presenti del tanto agognato arrivo di Maria.


La vita di sette esuli russi si svolge in una cornice quasi fantastica, racchiusa in un arco di tempo che sembra non concludersi mai, quando invece sono solo una manciata di giorni. Il personaggio centrale è proprio Ganin, malinconico emigrante russo e reduce di guerra, sempre in bilico tra ricordi e nostalgia, impregnato di precarietà, di grigiore e di illusioni, costretto a lavori umili e umilianti. 


Ganin è la maschera tragica di questo breve dramma tristemente romantico, fotografata perfettamente nello squallido ambiente del set cinematografico dove lavora come comparsa; oppure nella tetraggine spettrale del grigio e tossico paesaggio berlinese, la sua vuota esistenza sembra avere solo il misero ruolo di un qualsiasi ingranaggio. Ganin è costantemente avvolto in una nebbia di depressione e banalità, dentro la quale coinvolge qualsiasi persona con cui viene a contatto.


Il rapporto con la fidanzata Liudmila lo vive come una sorta di ripugnante costrizione, un’altra prigione di cui è lui stesso l’artefice. È la proiezione di un'insoddisfazione crescente che va di pari passo con l’idealizzazione di Maria.

È ammirevole la capacità di Nabokov di descrivere le sensazioni di estraneità, di noia e di disgusto, ma anche di malinconica tenerezza, che si celano dietro la finzione della rappresentazione di una relazione ormai giunta al termine. 


Un altro tema, questa volta un po’ dostoevskiano, è l’attrazione che certi esuli russi provano per l’Europa, un’attrazione a volte ridicolmente compassata, piena di ammirazione per qualcosa di immaginato e che si conosce ben poco, con un'amore acritico per le modernità, di cui enfatizzano alcuni aspetti, giustificato ancor più a quell'epoca dal rifiuto per il regime sovietico. Nabokov proietta in queste pagine la sua condizione di esule, descrivendola con amara ironia.


Questo incubo tetro e grottesco viene squarciato improvvisamente da una luce che lo trasforma magicamente in un sogno, come un pugnale che squarcia un velo. Una gioia terribile, che tuttavia, finisce solo per tornare di nuovo a ferire.

D’improvviso tornano i ricordi, la nostalgia della Russia del passato riempie di colori il racconto. È lo è in particolar modo per Ganin. Un’esplosione di inebriante vividezza prende il posto del grigiore. Abbiamo bisogno di illusioni è solo questo che in fondo conta a prescindere della durata e di quanto siano effimere.


Un potere lo abbiamo. Siamo noi stessi a essere i creatori del nostro personale mondo di illusioni. Non ci serve altro che l'immaginazione. È possibile vivere ancora lo stesso sogno? Provare le stesse sensazioni? Far tornare il passato, come un dolce eterno ritorno? Si può dare una seconda possibilità alla Russia, oppure lo scrittore è destinato a lasciarla per sempre? 

Sono momenti di grande emozione quelli a cui dà sfogo Nabokov attraverso i ricordi del protagonista con la sua intensa capacità descrittiva di cose, paesaggi e stati d’animo.


L’estasi visionaria con cui sono dipinti i paesaggi russi, in contrapposizione al  grigiore berlinese, non solo dimostra l’amore irrisolto per la Russia, ma anche il contrasto tra stati d'animo opposti, che non sono solo di Ganin, ma anche di Nabokov stesso. I ricordi sono pieni di un mondo infinitamente più vivo di quello dello squallido presente. 

Tuttavia, quel mondo è destinato a essere respinto definitivamente dal Ganin/Nabokov. Non si può restare per sempre bloccati nel passato, in un sogno che non tornerà più.


Già in questa sua prima opera, Nabokov si rivela come cantore dell’assurdo, del dolore, del flusso ininterrotto dei ricordi del passato, delle trappole dell’esistenza e della coercizione, rivolta verso gli altri o verso se stessi. Quel particolare filo che lo lega agli scrittori nominati all’inizio, ma che, tuttavia, lo rende diverso, preso com'è a giocare con lo stile, con le parole e coi sentimenti, che tiene avvinto il lettore fino alla fine, in una crescente attesa addirittura carica di suspense.

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