venerdì 4 ottobre 2024

Fëdor Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo” (1864)


Classici

Fëdor Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo” (1864)

«Sia l’autore delle memorie che le «Memorie» stesse sono, ovviamente, immaginari. Nondimeno personaggi come lo scrittore di queste memorie non solo possono, ma addirittura debbono esistere nella nostra società, se si prendono in considerazione le circostanze generali in cui essa è venuta a formarsi. Io volevo portare davanti al pubblico, in modo più evidente del solito, uno dei caratteri del nostro recente passato. Si tratta di un rappresentante della generazione che vive tuttora. In questo brano, intitolato «Il sottosuolo», il personaggio presenta se stesso, le sue idee, e pare voler spiegare i motivi per cui è comparso e doveva comparire nel nostro ambiente. Nel brano successivo vengono già le vere “memorie” di questo personaggio su alcuni avvenimenti della sua vita.»

Fëdor Dostoevskij 

Tutti abbiamo un nostro “sottosuolo” interiore in cui rifugiarci, che è interdetto agli altri, nel quale viviamo una vita parallela, con ambiguità, contraddizioni e piccole o grandi “mostruosità”, ed è normale che sia così. Tuttavia, non tutti sono in grado di tenere la propria parte oscura confinata nel sottosuolo della mente, soprattutto in taluni casi, quando frustrazione, solitudine e disprezzo diventano insostenibili, ed è quello che accade anche al protagonista di questo racconto. Il male è dentro ognuno di noi e bisogna saperlo rintracciare, per poterlo domare.

È per me stato sempre del tutto naturale collegare il racconto “La tana” di Kafka alle “Memorie del sottosuolo” dostoevskijane. Un’affinità così palese da non poter essere negata, ma probabilmente neanche fino in fondo compresa. Sarà senz’altro pure per la coincidenza che lo scrittore russo e quello praghese sono, posso dire da sempre, i miei autori preferiti, ad aver reso questa mia sensazione così intensa e viva.

Ciò avviene anche solo per il semplice fatto che i singolari rispettivi esseri protagonisti di entrambi i racconti si rassomigliano nella sostanza talmente tanto, da non avere solo in comune un percorso verso l’inferno del delirio, ma appaiono ai miei occhi come una sola entità che soffre di solitudine, e al contempo così ripiegata su di sé, fino ad accettare con autocompiacimento la propria sorte.

Non bisogna dimenticare, però, che entrambi i racconti hanno un precedente, che soprattutto per quello russo influisce parecchio. Mi riferisco ad altre memorie, a quelle del “pazzo” di Gogol che, col “sottosuolo” di Dostoevskij, non ha in comune solo la Russia, ma proprio Pietroburgo, «la città più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre», e il fatto che i protagonisti delle due storie sono dei banalissimi impiegati (d’altronde la triste figura dell'impiegato tornerà spesso nelle opere di Fëdor), e che nel caso delle Memorie, tuttavia, non è «stato capace di diventare neppure un insetto.» Si potrebbe, quindi, dire che Kafka invece aggiusterà il tiro sia nella “Tana”, che nelle “Metamorfosi”. 

"Memorie del sottosuolo” nasce in un periodo di transizione per lo scrittore russo. Nonostante sia da annoverare tra i romanzi brevi, o racconti lunghi, che dir si voglia, è tra le sue opere più complesse. Ed è appunto di transizione perché chiude una fase e ne annuncia un'altra: quella dei suoi grandi romanzi. Potrebbe essere anche considerato, ipotesi forse azzardata la mia, come una sorta di prologo a “Delitto e castigo”, che seguirà di lì a poco. Ma non solo, oltre al presunto “sequel”, ha ben due “prequel”. Il primo è “Le notti bianche” altro breve romanzo di Fëdor del 1848. Quando si arriva al finale, si capisce perché. L’altro è “Il sosia” di cui accenno più avanti.

Il 1864 è anche l’anno della morte della moglie Marija Dmitrievna, avvenimento luttuoso che si ripercuote sulla creatività e sulla visione letteraria del grande scrittore. Sempre in quell’anno vengono a mancare il fratello Michail, morte che determinerà anche la crisi finanziaria della loro rivista “Il tempo”, e, dopo pochi mesi, l’amico fraterno Apollon Grigor’ev. 

Fëdor si sente improvvisamente solo e abbandonato e le Memorie diventano il cantico di un uomo svuotato di ogni sentimento umano. Ma più umano dell’umano. Il personaggio del racconto è la personificazione delle contraddizioni, una bestia che trova nel sottosuolo della sua anima tormentata la sua tana, il suo rifugio.

Un rifugio pieno di dolore e, allo stesso tempo, di piacere, nel quale chiudersi e ritrovare un senso alla sua esistenza. Arriva persino a prospettare un paradigma teorico filosofico sul masochismo. Il protagonista, in definitiva, è un uomo senza qualità, non è né buono, né cattivo. È un singolare tipo di mediocre che ha un’esagerata percezione di sé. Pur se consapevole della sua miseria morale, si ritiene dotato di eccezionale intelligenza.

Scrive queste memorie, che dovranno però restare nascoste a chiunque, attraverso le quali dà ampio spazio ai suoi dubbi e a quelle verità a cui non crede fino in fondo neanche lui: come quella sul fine di ogni uomo, riposto nel caos, nella distruzione e nella sofferenza. Sulla vergogna di esistere. Il sottosuolo è disarmonia, contraddizione e irrazionalità, ma per la voce narrante è l'unica casa possibile. 

Le Memorie diventano così un inno, un elogio all’isolamento, alla separazione dalle convenzioni della “superficie”. Costretto ad un minimo di vita “sociale”, questo essere meschino fonda tutta la sua esistenza sull’odio e sul risentimento per gli altri, ma così facendo si condanna anche al disprezzo di sé, in una forma di non consapevole proiezione. 

Non crede agli edifici della razionalità umana, alla loro utopia, ai “palazzi di cristallo". Un'utopia per fortuna irrealizzabile, di cui teme la concezione. Sparge velenose parole di disprezzo per l’umanità, ma è ossessionato dalla ricerca di un minimo di contatto con gli altri, enfatizzando situazioni ed episodi banali. Le Memorie, quindi, riprendono dopo quasi vent’anni il primo suo capolavoro, “Il sosia”, nel quale per la prima volta trova spazio la tematica del doppio e delle contraddizioni esistenziali.

Tuttavia, a prescindere dall'infanzia vissuta all’ombra di un padre violento, ciò che aveva determinato la formazione della percezione della realtà dello scrittore e che pesa sulla differenza tra “Il sosia” e le “memorie”, è l’esperienza del carcere. Sono i quattro anni passati come forzato nella fortezza di Omsk, che lo cambiano profondamente, quando viene a contatto con quella varia umanità, e che costituirà il materiale di un autentico memoriale: "Memorie da una casa di morti”.

Ma questi anni di solitudine e di “ripiegamento” su se stesso, serviranno anche come base delle riflessioni apparentemente sconnesse delle altre “memorie”: queste del "sottosuolo". È bene chiarire però che la voce narrante del protagonista non corrisponde al punto di vista dello scrittore. Dostoevskij intende invece evidenziare la crisi dell’individuo del diciannovesimo secolo, e, forse, non volendo mette in luce contraddizioni insite nella condizione umana in senso universale, e non solo legate ad una specifica epoca e ad uno specifico contesto.

Dostoevskij, dopo l'esperienza da forzato, abbandonate le illusioni del socialismo fourierista, si diresse infatti verso una sorta di astratto umanesimo borghese, ma anche tale posizione sarà solo transitoria, approdando alla fine a un cristianesimo umanista, ma conservatore, a tratti reazionario. Le sue invettive contro l’ateismo e il nichilismo riempiranno le pagine dei “Demoni” e dei “Karamazov”. 

Ciononostante, attraverso il protagonista, lo scrittore russo esprime anche concetti che gli appartengono come individuo e il loro esatto contrario. Tra l’altro, sono proprio, appunto, le contraddizioni che caratterizzano in maniera particolare la sua produzione letteraria. Ed è per questo che non è mai facile delimitare e definire, incasellare il pensiero dostoevskiano. Non esiste un suo punto di vista certo, ma contemporaneamente ne esistono una moltitudine. Ecco perché, in fin dei conti, con lui le categorie ideologiche non funzionano e non hanno senso.

Da qui in poi, comunque, la costante sarà quella di fare da “megafono” a questa moltitudine di voci, che si esprimeranno attraverso i suoi personaggi, senza mai schierarsi con loro o definitivamente contro di loro, anche se di alcuni di questi metterà in risalto la purezza, una purezza però senza utilità effettiva e priva di sbocchi concreti.

Il romanzo è composto di due parti: la prima, “Il sottosuolo”, è come un preludio, la parte in cui si presenta e presenta la sua misera vita interiore; la seconda parte, “A proposito della neve fradicia”, è divisa a sua volta, senza soluzione di continuità, in tre episodi, legati tra loro e dedicati alla vita di superficie e alle relazioni con gli altri, nelle quali trova corpo e sostanza il suo disprezzo, nello squallore dell'aridità di sentimenti.

Il protagonista, quarantenne cantore di un nuovo tipo di nichilismo, vede nello stato di natura l’unica forza che spinge l’uomo a motivare le sue azioni, che sono essenzialmente distruttive. Qualsiasi tipo di ideologia è destinata al fallimento, perché ciò che conviene all’essere umano non è il raggiungimento di ciò che gli è vantaggioso, ma solo ed esclusivamente ciò da cui trarre soddisfazione, anche la propria autodistruzione, purché si arrivi a salvare la libera tendenza all’immoralità e all’illimitato desiderio individuale. 

Il monologo contenuto nella prima parte è agghiacciante, ma nello stesso tempo sublime. Più che un vero e proprio monologo è un dialogo immaginario, tra la voce narrante e un astratto “voi”, a cui il protagonista si rivolge. Un dialogo tra lui e il resto del mondo. 

Nella seconda parte del romanzo, invece, le memorie si spostano nel mondo reale, quello della “superficie”, a quando aveva ventiquattro anni. Il tutto è all'insegna di un logorante senso di inferiorità, di una folle ossessione, di un continuo predisporsi a ricevere mortificazioni e di confusi sogni di riscatto, fino al vigliacco epilogo ai danni di una vera vittima.

Il monologo interrotto alla fine della prima parte, riprende poco oltre la metà della seconda e si dispiega come una furia, in un crescendo di rabbia e di veleno, non più diretto ad un pubblico immaginario, ma da rigettare addosso proprio ad un capro espiatorio in carne e ossa, che si trasforma nel bersaglio della sua frustrazione e delle mortificazioni che si era costretto a subire, nonostante l'amore che gli viene offerto, e dannato per sempre a morire nel senso di colpa.

«La vita è dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori di noi. Accanto a me ci saranno sempre degli esseri umani, ed essere uomo tra gli uomini e restarlo sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo: ecco in che cosa consiste la vita, ecco il suo compito. Ne ho preso coscienza ora. Questa idea è entrata nella mia carne e nel mio sangue».

«Sono fiero di aver per la prima volta messo in luce un uomo autentico molto comune in Russia, di aver per la prima volta denudato il suo lato deforme e tragico. Il tragico consiste proprio nel riconoscer la deformità... Io solo ho svelato tutto l’orrore del sottosuolo umano, che consiste in sofferenze, autopunizioni, nella coscienza del bene e nell’impossibilità di raggiungerlo»

Fëdor Dostoevskij

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