venerdì 9 agosto 2024

“I sette samurai” (1954) - regia di Akira Kurosawa


 
Cinema - Cult Movie 


“I sette samurai” (1954)

regia di Akira Kurosawa 

con Takashi Shimura, Toshiro Mifune, Seiji Miyaguchi, Daisuke Kato, Isao Kimura, Keiko Tsushima, Minoru Chiaki, Bokuzen Hidari


«Mi chiamano l’imperatore, nel mio Paese, ma non ho mai chiesto a nessuno di uccidersi per un mio film! Mi considero piuttosto uno schiavo, lo schiavo del cinema. Certo nel mio mestiere sono molto esigente, ma Mizoguchi lo era più di me, e poi quale buon artigiano non lo è? In ogni modo mi piace anche molto invitare gli amici e i collaboratori a cena, per vedere dei film, bere e scherzare insieme. Stare insieme in compagnia è la cosa che mi piace di più dopo fare dei film.»

«Ogni regista ha il suo metodo con gli attori: io non li dirigo soltanto durante le ripetizioni ma anche fuori dal set, vivendo con loro, discutendo insieme. Credo molto nel contatto giornaliero. Sul set mi limito a dare qualche suggerimento. Il segreto della direzione d'attore sta nel “convincerli”. Non bisogna trattarli mai come marionette.»

Akira Kurosawa 


«Ho perso tutte le battaglie in cui mi sono trovato! Ci hanno sempre ripetuto: “Allenatevi, distinguetevi, diventate dei signori della guerra!” Consumiamo l’esistenza in questa vana ricerca, giunge la vecchiaia e ci troviamo con un pugno di mosche in mano… »

Kambei (Takashi Shimura)


«Chi ha reso i contadini così rapaci? Voi, dannati samurai, che bruciate villaggi e raccolti, violentate le loro donne, razziate le loro provviste!»

Kikuchiyo (Toshiro Mifune)


Chi non ha mai visto un film di Akira Kurosawa non può neanche lontanamente immaginare che cosa si sia perso. Kurosawa è il Cinema, così come lo sono Kubrick, Hitchcock, Bergman, Fellini, Sergio Leone e Eastwood.

Il regista giapponese ha scavato a fondo dentro l’anima e la storia del suo Paese e ha cambiato il corso della storia del Cinema influenzando una moltitudine di registi.


“I sette samurai” è probabilmente il suo più famoso prodotto ed è uno dei miei film preferiti in assoluto, è perfetto in tutto. Tra l’altro si avvale delle interpretazioni degli immensi Toshiro Mifune e Takashi Shimura. È un film caratterizzato da un deciso iperrealismo storico, ma possiede anche un taglio molto fiabesco, cosa che non è affatto in contraddizione quando ci troviamo di fronte a un’opera di Kurosawa. 

Fu girato in un luogo sperduto tra le montagne giapponesi.


Siamo nel Giappone della fine del XVI secolo, all'epoca del feudalesimo, in un villaggio di contadini ridotti alla fame a causa dei soprusi subiti da fantomatici e feroci briganti.

I contadini decidono così di ingaggiare dei samurai che possano liberarli da tale schiavitù, nonostante siano talmente poveri che hanno poco da offrire loro, se non una “ciotola di riso”. La rinuncia al riso da parte dei contadini, con la dichiarata scelta di nutrirsi del solo scadente miglio, è uno dei temi ricorrenti della storia, che acquista un valore determinante, anche dal punto di vista simbolico sul profondo significato del sacrificio in nome della libertà. 


I samurai, a loro volta, dimostrando un grande senso di compassione ed empatia, accettano di partecipare a un’impresa senza gloria e priva di facili guadagni, come forma di espiazione per i privilegi e per le colpe della loro classe sociale. È l’incontro tra due mondi che imparano a conoscersi e a solidarizzare, e l’occasione per il regista di fare emergere l’eroica figura del samurai - contadino. 

Kurosawa trova anche spazio in tale contesto per una storia d’amore, per quei tempi tutt’altro che convenzionale.


Il tema portante è proprio la saldatura dei due universi, apparentemente tanto lontani. I samurai insegnano ai contadini come difendersi e a non avere paura. Grazie a questo insegnamento, oltre all'arte militare, impareranno quella dell’autonomia, da non dipendere cioè da nessuno. L’eroe è la guida, non è più il signore che protegge e ordina e che alla fine reclama i suoi privilegi. L’epilogo è da questo punto di vista assolutamente eloquente.

“I sette samurai” è stato definito da qualcuno “l’Iliade e il Guerra e Pace del mondo contadino”.


Visionaria è la sequenza, al limite col genere fantastico, dell'arrivo al covo dei briganti, dopo aver attraversato alcune gole tra le montagne. Lo spettacolo dei corpi seminudi intrecciati e sprofondati nel sonno, alla stregua di un'allucinazione da incubo, è talmente suggestivo da dare la percezione di trovarsi in un’altra dimensione.

E poi, c’è il costante ripetersi delle scene con l’acqua, che rappresenta il continuo ciclo della vita: le piogge battenti, i ruscelli e i fiumiciattoli, il fango e l’acqua delle risaie, tanto ricorrente da essere assimilato a quello del frenetico movimento della folla dei contadini in fuga, oppure, al contrario, in corsa verso la battaglia.


Il film ha ispirato anche il famoso remake del 1960 in versione western di John Sturges: “I magnifici sette”, con Yul Brynner, Charles Bronson, Steve McQueen, James Coburn ed Eli Wallach; molto ben fatto, ma non paragonabile al sublime capolavoro del maestro giapponese. A prescindere dal remake, è innegabile che a quest’opera si sia in buona parte ispirato anche Sam Peckinpah con “Il mucchio selvaggio”.

“I sette samurai” ebbe fin da subito un grande successo anche all’estero, è infatti uno dei film giapponesi più amati in Occidente.


È proprio da questo film che Kurosawa ha iniziato a girare contemporaneamente le scene con cineprese multiple, soprattutto nelle sorprendenti sequenze dell’epica battaglia sotto la pioggia, ciò per favorire la naturalezza della recitazione e per avere più scelta in fase di montaggio, nella cui realizzazione il regista si adoperava col massimo impegno e in maniera assai minuziosa. D’altronde è proprio il montaggio uno dei punti forti della sua produzione, insieme alla raffinata inventiva tecnica delle riprese e alla profondità dell’introspezione psicologica.


Sospesa tra tragedia e commedia, grazie soprattutto all’interpretazione di Toshiro Mifune, meravigliosamente sopra le righe, la vicenda assume gradatamente i toni epici del dramma eroico. 

La scelta dei sette samurai avviene attraverso dei criteri di selezione ad effetto, ma anche grazie a situazioni assai fortuite e al limite del grottesco. Il primo sarà Kambei, il samurai interpretato da Takashi Shimura, che diverrà il leader morale del gruppo grazie alla sua esperienza e alla sua saggezza. 


Shimura è veramente straordinario nell’interpretare un personaggio tagliato con precisione per il ruolo di eroe, sicuro, sensibile alla sofferenza altrui, essenziale e determinato, senza fronzoli o eccessi, l’esatto contrario del Kikuchiyo di Mifune, un buffonesco viandante cialtrone, che si spaccia per samurai, ma dalle grandi doti umane e cavalleresche, un personaggio che sembra uscito dall’incontro tra Falstaff e un misto di Don Chisciotte e Sancho Panza. 


Il personaggio di Kikuchiyo è completamente in linea con i continui richiami a Shakespeare, Cervantes e Dostoevskij fatti da Kurosawa, oltre che alla commedia dell’arte e al teatro giapponese, un incantevole capolavoro nel capolavoro.

Ed è proprio Toshiro Mifune a metà film a prodursi in un furioso e spettacolare monologo di taglio shakespeariano, uno dei vertici dell’intera pellicola.


Il film è ovviamente in bianco e nero, ma ha dell’incredibile come Kurosawa riesca lo stesso a far immaginare i colori, sia nelle scene dove viene esaltata la bellezza dei luoghi, con inquadrature sui campi fioriti, sia nello squallore della miseria in cui versano i contadini, con le casupole fatiscenti, tenute per lo più insieme da strutture di legno, sia nella violenza delle battaglie.


Dopo aver visto “I sette samurai”, non possono che risultare risibili le tesi di coloro che per anni hanno liquidato Kurosawa come un regista occidentalizzato, autore di western in salsa nipponica, tesi provenienti da certo snobismo intellettualoide che suppone, ma che non conosce nulla della cultura orientale, e che non riesce a comprendere la complessità e l’universalità del cineasta. È invece proprio Kurosawa ad essere stato più volte citato, saccheggiato e copiato dai registi occidentali. 


John Boorman sosteneva che per lui Kurosawa era Dio. Coppola diceva che la maggior parte dei grandi registi hanno al loro attivo uno o due capolavori, Kurosawa otto o nove. Perfino Ingmar Bergman, ovviamente esagerando, ma rendendo bene l’idea della stima che molti registi nutrivano per lui, ebbe a dire che la sua “Fontana della vergine” era una miserabile imitazione di “Rashomon”.


Questo è il quindicesimo film del regista e molti di quelli che lo hanno preceduto, erano su tutt’altra tematica. Non aveva un genere preciso di riferimento e questa è stata un po' la fortuna della qualità del suo cinema.

Pochissimi autori possono vantare l’eclettismo di Kurosawa, spaziando tra generi completamente diversi.


Del film esistono diverse versioni. È necessario fare attenzione alla lunghezza. Quello integrale, che, ovviamente, raccomando, dura più di tre ore (circa 207’). Nelle versioni più brevi di 160’ e perfino di 130’ furono fatti dei tagli indecorosi di sequenze davvero essenziali per una sua più completa comprensione.

Nonostante alcuni momenti più lenti, “I sette samurai” resta avvincente fino alla fine, con un crescendo di irresistibile suspense nell’ultima parte.

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