venerdì 11 ottobre 2024

Tommaso Landolfi, "Le due zittelle" (1944)

 

𝘾𝙡𝙖𝙨𝙨𝙞𝙘𝙞 
𝙏𝙤𝙢𝙢𝙖𝙨𝙤 𝙇𝙖𝙣𝙙𝙤𝙡𝙛𝙞, “𝙇𝙚 𝙙𝙪𝙚 𝙯𝙞𝙩𝙩𝙚𝙡𝙡𝙚” (1945)

La buona letteratura esprime dubbi, si nutre di complessità e va alla ricerca della tolleranza. Cerco di farlo anch'io nel mio piccolo, chiedendomi in continuazione se dico, faccio e penso la cosa giusta, pronto sempre a rimettermi in discussione, ma mi sento straniero in terra straniera, perché  vivo in un’epoca barbara dove molti hanno solo certezze. 

Questo è un caso di ottima letteratura.
“Le due zittelle” può apparire come una sorta di parabola animalista, ma è soprattutto altro: è un’allegoria sulla diversità, sulle trasgressioni e sull’emarginazione. Un racconto (a)morale incentrato su un riuscitissimo ritratto caricaturale e grottesco dell’integralismo e dell’intolleranza.

Fin dalle prime righe di questo libricino, un romanzo breve di Tommaso Landolfi, ci troviamo immediatamente calati in un’atmosfera onirica, ma, allo stesso tempo, assai concreta. Il sapore della realtà è così vivo da sembrare fantastico e le suggestioni richiamate alla mente del lettore sono molto comuni nell'esistenza quotidiana, a prescindere dalle epoche.

Pare di trovarsi in un ambito narrativo molto prossimo a quello di Jorge Luis Borges, alla sua zoologia fantastica, oppure ad uno dei racconti dell’“Aleph”, con nota finale completa di catalogazione, tipica dell’universo dello scrittore argentino.
Di fatto però Borges, oltre che lontano geograficamente da Landolfi, era anche suo coevo, una “contaminazione” reciproca può, quindi, forse solo essere immaginata, ma non del tutto esclusa.

Tuttavia, a parte questa analogia, Landolfi resta uno scrittore unico, profondamente legato al suo contesto, a cominciare dal linguaggio.
La dimensione fantastica appartiene alla bizzarra esagerazione del reale che contraddistingue la sua narrazione obliquamente descrittiva. Un contrasto che la prosa inconfondibile dello scrittore di Pico ci ha abituato a riconoscere con tutta la sua sublime magnificenza, ma che mai viene risolto, lasciandolo sospeso così com'è in un territorio di esclusiva sua pertinenza.

Già dal doppio senso del titolo, aiutato in questo dall'espressione dal sapore dialettale, ci appare quello che il testo ci svelerà poi: il mistero contenuto nell’esistenza reclusa delle zittelle e della di loro madre, affetta da una malattia misteriosa su cui nessun medico è riuscito a venire a capo, e che tiranneggia le due zittelle, Nena e Lilla, e la povera fantesca Bellonia. 

In un ambiente di triste e ordinario grigio squallore, vivono le quattro donne, figure spettrali, abbigliate di nero, condividendo il cortile con un monastero.
Il racconto è dominato fortemente dal grottesco e da un’atmosfera gotica decadente. Le sorelle si danno a convegni assai contegnosi con singolari individui, pittoresche maschere caricaturali, che Landolfi descrive abbondando in poetici, ma, in alcuni casi, disgustosi particolari.

Nella casa, le donne ospitano anche qualche animale, tra i quali spicca una piccola scimmia, anzi “scimia”: l’indomabile e vivace Tombo, l’unico maschio di casa, che le mette in difficoltà e in conflitto con le vicine monache. È lui il maggiore protagonista del racconto.

Questa, dunque, è soprattutto la storia di Tombo, a volte fanciullo, a volte quasi amante, nonostante sia ”castrato”, le cui caratteristiche antropomorfiche vengono enfatizzate da Landolfi con descrizioni assai colorite e surreali, più spesso considerato addirittura alla stregua di un fratello. D’altronde la creatura, creduta demoniaca dalle monache, mostra un'astuzia, un’abilità e una sfrontatezza uniche. Landolfi, come di consueto, è a suo agio nel descrivere il mostruoso che irrompe nel reale.
 
È un universo interamente femminile in cui si muove Tombo, l’unico maschio, fin oltre la metà del racconto. Tra le sorelle, la fantesca e le suore. Le donne con attonito stupore osservano, da guardiane, le circonvoluzioni e il comportamento “scandaloso” e dissacrante  dell’animale, che seppur antropomorfo, è pur sempre comunque bestiale. Ed è così che Landolfi passa dal grottesco al tono beffardo e poi a quello più esplicitamente comico, servendosi di questo buffo apologo sul bigottismo che si legge tutto d’un fiato.

L’intervento di due uomini di chiesa: un monsignore e un giovane prete, che rappresentano le posizioni opposte sul “libero arbitrio” che vivono da molti secoli nel cattolicesimo, e sulla altrettanto millenaria disputa teologico-filosofica attorno ai concetti di peccato e di peccatori, è un espediente narrativo che “risolve” la trama.

Il conflitto si fa aspro e offre la possibilità a Landolfi di ironizzare su una diversa concezione di Dio, della fede, del nulla, del bene e del male.
Di Dio che è ogni cosa e non è nulla, che è bene e male insieme, che è ognuno di noi. Lo scrittore appare ben disposto verso questo ragionamento e verso la ricerca del dubbio che ne deriva, ma contemporaneamente mostra anche le pieghe deliranti di questa disputa.

Tutto questo scompiglio, che vira appunto nel delirio, non giova alla sorte del povero Tombo, che resta estraneo all'evolversi della vicenda, ma sembra attendere come allarmato che si compia il suo destino.
Landolfi racconta tutta la storia con grande foga e ad un ritmo elevato. Nell’epilogo la prosa però si placa ed è come si aprisse ad un respiro più vasto di contemplazione e di melanconia. 

Come in altre edizioni Adelphi, vi è anche in questa, in postfazione, una nota della figlia Idolina sulla sorte editoriale del racconto, pubblicato da Bompiani, e non da Vallecchi, e del fatto che il padre lo ritenesse forse il suo migliore. 

«A farla breve, lì lungo le strade, di rado percorse da vetture e di rado anche da passanti, alle case s’alternavano frequenti muri di giardini, sopravvanzati a tratti da un’avara e polverosa chioma d’albero, eucalitti chissà o altri eunuchi vegetali. Giacché poi quei giardini appartenevano ai numerosi monasteri del quartiere, i quali, per essere attaccati alle case e per altri motivi più profondi, estendevano in parte su queste e dentro queste il loro dominio e il loro sentore.»

«Dentro al cimitero, l’orizzonte è contrastato e chiuso da grandi eucalitti coi tronchi lucenti e disquamati, che sempre paiono in morboso sudore; e dal muro di cinta quasi in rovina. Solo, da una parte, si mostra la groppa arida e azzurrina d’una montagna. Su questi eucalitti e sui cipressi, loro ingenui vicini, si posa talvolta e zipila un tordo agitato o un più calmo merlo; ma vivono colà e starnacchiano per tutto l’anno le gazze. Malinconico 
popolo! Afflitte da non so che ipocondria e indolenza naturali, volano ed emettono il loro verso come tutti gli altri uccelli; ma se gracidano, un gracidio breve e fluido di consonanti sonore, lo fanno in un tono stanco e senza speranza; e se volano, è un volo cadente, ripreso a fatica quando sta per precipitare. Rassomigliano stranamente, voglio dire sopratutto per via di quel verso ronzante, a uno che attraversi una via di città nelle ore canicolari. In generale, poi, non sembrano intendersela con nessun altro uccello. E quando, chissà come, su un degli alberi capita una vivace pica, le sue strida risuonano pari a quelle d’un bimbo in una casa vuota o colpita dalla sventura, e l’aria medesima d’un tal mondo sonnolento n’è scossa. Ma, giusto, una beffarda ed esuberante pica non può trovar simpatia presso un’accolta di gazze; e così quella se ne ritorna presto ai campi seminati, alle querce, ai meli.»

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