giovedì 19 ottobre 2023

J. M. Coetzee, "Aspettando i barbari" (1980)

 


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J. M. Coetzee, "Aspettando i barbari" (1980)


«Lo spazio è spazio, la vita è vita, la stessa ovunque. Ma per quel che mi riguarda, sostenuto dal lavoro altrui, in mancanza di vizi raffinati coi quali riempire il mio tempo libero, cullo la mia malinconia e cerco di trovare nella vacuità del deserto una speciale pregnanza storica. Vano, inoperoso, sviato. Ma per fortuna nessuno mi vede!»


«Scalza, avvolta in una pelliccia, striscia dietro di me fuori dalla tenda. Cade una neve leggera. La terra è una serena distesa bianca sotto la luna piena, coperta da un velo di nebbia. L'aiuto ad alzarsi in piedi e resto li, abbracciato a lei, a guardare il vuoto da cui cadono i fiocchi di neve in un silenzio reso palpabile da una settimana di vento incessante. Gli uomini della seconda tenda si uniscono a noi. Ci guardiamo, sorridendoci con aria ebete. - Ecco la primavera, - dico, - è l'ultima neve dell'anno -. Gli altri annuiscono. Un cavallo che si scuote la neve di dosso ci fa sobbalzare.

Nel calore della tenda, al riparo dalla neve, faccio di nuovo l'amore con lei. Passiva, mi lascia fare. Quando cominciamo sono sicuro che è il momento giusto, l'abbraccio carico di piacere e di fierezza, ma a metà perdo il contatto con lei e tutto si spegne, scioccamente. È chiaro che le mie previsioni non sono infallibili, ma comunque continuo a sentire una gran tenerezza per questa ragazza che ora, bruscamente, si addormenta nell'incavo del mio braccio. Sarà per un'altra volta, e comunque, seppure non dovesse essere, non credo che me ne importi.»


«Queste cose le ho superate da un pezzo. Anch'io, lo sa bene, ho passato una vita al servizio della legge, ne conosco le pieghe, so che spesso l'opera della giustizia risulta oscura. Sto solo cercando di capire. Sto cercando di capire in quale zona viva lei. Cerco di immaginare come respira e mangia e vive le sue giornate. Ma non ci riesco! È questo che mi turba. Se fossi in lui, mi dico, mi sentirei le mani così sporche da vomitare....»


"Aspettando i barbari" ha tutto l'aspetto di un tributo al "Deserto dei Tartari" di Dino Buzzati. Diverse sono le analogie, anche se le due storie prendono strade differenti. L'attesa indefinita resta comunque il principale elemento in comune, insieme al deserto, allo straniero misterioso e alla fortezza.

Sbaglierebbe, quindi, chi volesse vedere in questo romanzo solo un atto d'accusa al vecchio passato regime segregazionista del Sudafrica.


Certo, Coetzee, scrittore di origine sudafricana di lingua inglese e bianco, ha manifestato un certo impegno contro l'apartheid proprio negli anni in cui ha iniziato la sua attività di narratore, quindi è naturale che in una storia contro le discriminazioni ciò risulti in qualche modo evidente.


Tuttavia, "Aspettando i barbari" è un romanzo che va ben oltre questo semplice schema e non ci vuole molto a capirlo. 

È un apologo sul potere, sulla banalità del male, sul legame con la propria terra, e sul significato dell'esistenza. Ma soprattutto sul tentativo di ribellione di chi è stato fino a quel momento attivo banale esecutore. 


Il romanzo è fuori dal tempo e da qualsiasi luogo. I personaggi sono anonimi, senza nome, a parte il colonnello Joll, che rappresenta in toto la suddetta banalità, inappuntabile carnefice, compreso fino in fondo nel suo ruolo, e il suo sottufficiale Mandel.

Ma il vero protagonista è il magistrato, voce narrante, che ha sempre condotto una vita ordinaria, seguendo il suo ruolo senza mai interferire con il volere dello Stato.


L'azione si svolge in un territorio, chiamato semplicemente Impero, e precisamente nella città fortezza posta a ridosso del confine, dove si trova una guarnigione comandata dal colonnello e di cui dispone il magistrato.

Il forte si staglia a guardia di un deserto, che nasconde rovine e resti di antiche genti, anche queste ignote.

Un mondo sepolto che non riesce a parlargli, che gli rimanda solo la sua ombra, buono per oscure ipotesi e fantasie. 


Dalla Capitale giungono voci incontrollate sul fatto che non meglio precisati barbari stiano premendo alla frontiera per invadere l'Impero.

Ma al magistrato non risulta nulla di simile.

Nell'impero vige un regime dispotico di terrore, dove si pratica la tortura e metodi da inquisizione, con interrogatori pressanti.

Quando due nomadi, presunti barbari, vengono catturati e torturati, il punto di vista del magistrato comincia a cambiare, travolto dagli eventi.


Leggendo questo libro, si ha la netta sensazione di sentire il sapore di altre opere letterarie: oltre che al succitato "Deserto dei Tartari", anche "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad. Ma ovviamente, anche Kafka. Suggestioni.

Sono pagine bellissime ed emozionanti quelle dedicate alla lenta, ma inesorabile presa di coscienza, in cui il magistrato osserva tutto con altri occhi e percepisce l'estraneità dall'abominio della continua deportazione di nomadi, strappati alla loro esistenza.


I prigionieri sono sporchi, malati, privi di senso dell'igiene, sradicati dalle loro abitudini, dalla loro vita quotidiana. Trasportati in un contesto estraneo, che non può far altro che svuotare la loro anima.

A un certo punto, però, irrompe l'amore, una singolare storia d'amore, fuori da ogni logica, che aiuta a purificarlo anche dal senso di colpa. 


Quello che c'era nella vita di prima, che lo divertiva, lo appassionava, perde di senso. La solitudine non c'è piú, ed è pronto per una nuova nascita.

Tutto ciò ha, comunque, un prezzo. Gli procura una lacerazione profonda nell'animo. La perdita di certezze intimamente radicate. Dover rimettere tutto in discussione per un magistrato di mezza età non è cosa agevole.

Deve affrontare un travaglio interiore che passa anche attraverso le sue abitudini sessuali, e che viene descritto minuziosamente da Coetzee con grande abilità.


È un viaggio di purificazione, in nome dell'amore per una ragazza, un atto di altruismo, che prelude al crollo dell'uomo di potere, che imprigionato, si sente paradossalmente liberato dall'Impero, e che nel suo inferno prova la vertigine di trovarsi al posto di quanti ne hanno allo stesso modo subito arbitrariamente le conseguenze. 

E nello sfondo, l'attesa, la perenne attesa dell'invasione dei barbari.


Ora, però, il magistrato arriva a subire l'abominio sulla sua pelle, condannato senza sconti di sorta, è lui stesso a voler affrontare la prova, confidando nel verdetto favorevole della Storia e della giustizia, ma muovendosi in realtà tra l'ostilità e l'indifferenza della sua gente, in una condizione molto simile a quella del Josef K. kafkiano. Torna, quindi, la solitudine, e con essa il caos, il dubbio e le perplessità, con la consapevolezza, però, di non poter più tornare indietro. 


Il dolore e la degradazione sono strazianti, così come il senso del ridicolo, a cui lo espongono. È spezzato dagli stenti e dalla fame, così come dalla segregazione. 

Nel romanzo emerge, quindi, un dualismo irrisolvibile tra dignità e insostenibile umiliazione, prodotto da una forma estrema di dispotismo e di sopraffazione, così come nell'orwelliano Winston, e dall'incapacità del protagonista di discernere chiaramente se la strada imboccata sia quella giusta o meno, lacerato da un feroce conflitto interiore, e di essere, comunque sia, proprietà dell'Impero, l'altra sua faccia, irrimediabilmente.


Nel frattempo il mondo circostante è in piena degenerazione. L'ossessiva attesa dei barbari non ha fatto altro che portare al disfacimento. Ma c'è chi non abbandonerà mai la città fortezza, l'oasi in cui sorge, la linea di confine. È l'unica casa che conosce, dalla quale non riesce ad allontanarsi, legato da una volontà inspiegabile. Cercherà di ricostruire per trovare il "paradiso terrestre" in cui ha sempre sperato, in attesa che qualcosa o l'arrivo dei barbari possa far trovare un senso a tutto quello che ha vissuto, pronto però anche ad affrontare il grigiore del nulla, in attesa del finale, se un finale ci potrà mai essere.

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