domenica 14 aprile 2024

Nagib Mahfuz, “Akhenaton il faraone eretico” (1985)


 Classici


Nagib Mahfuz, “Akhenaton il faraone eretico” (1985)


«Sua madre lo educò alla religione di Aton, in cui credeva per motivi politici; lui invece ebbe una fede passionale e autentica che non si adattava alla sua natura femminile e da lì passò all'eresia che la madre non aveva potuto prevedere. Ancora ricordo la sua figura ripugnante... non era né uomo né donna. Era debole al punto di odiare i forti, fossero uomini, sacerdoti o dèi. Inventò il suo dio a sua immagine e somiglianza, debole e femmineo, padre e madre contemporaneamente e inventò una sola funzione: l'amore. Il ballo, il canto e il bere furono il suo culto. Precipitò nella stupidità dimenticando i suoi obblighi reali mentre gli uomini migliori dell'impero cadevano davanti al nemico, senza ricevere aiuto. L'impero alla fine fu perduto, l'Egitto distrutto, con i suoi templi vuoti e la sua gente affamata. Costui fu l'Eretico, quello che si fece chiamare Akhenaton.»


«Vidi tutti gli esseri che la vista poteva comprendere, congratularsi in un bisbiglio, emozionati per la felicità della buona nuova, preparati a ricevere la verità che si avvicinava. Alla fine, dissi tra me, ha trionfato sul dolore e la morte, mentre fiumi di gioia si riversavano su di me e il creato intero mi entrava nel petto riempiendolo di dolce nettare. Sentii chiaramente la sua voce dire: ‘Io sono l'unico dio, non ci sono altri dèi oltre me, io sono la verità: affrettati a venire a me. Adora me solo. Donami te stesso, poiché io ti ho donato il mio amore’".»


«Le strade gigantesche erano nascoste da cumuli di macerie, resti di foglie secche e ammassi di travi che le tempeste avevano sradicato dalle porte e dalle finestre. I grandi portoni erano chiusi come palpebre calate su occhi di pianto. I giardini erano secchi, perduti il verde e i colori, non rimanevano che nudi tronchi stesi come corpi imbalsamati. Le ville erano abbandonate e sulle pareti demolite incombeva un silenzio pesante fatto di lamenti invisibili.

In mezzo a un mucchio di rovine si ergevano le pareti distrutte del tempio del dio unico, dove prima echeggiavano i dolci canti sacri. Un'immagine di odio e di vendetta trapelava dalla tristezza, dalla solitudine e dall'oblio, lasciando un sigillo di morte con i suoi eterni e terribili attributi.»


Nagib Mahfuz, Nobel per la letteratura 1988, scrittore egiziano di lingua araba, sostenitore di un Islam moderno, non integralista, di eresie se ne intendeva, è stato nel corso del tempo diverse volte oggetto di intolleranza religiosa. Tutto ebbe inizio nel lontano 1959, dopo la pubblicazione del suo romanzo “Il rione dei ragazzi”, romanzo allegorico sui conflitti tra le religioni abramitiche. Ne fu impedita la pubblicazione proprio in Egitto. Fu da sempre molto attento e vicino alla vita popolare dei quartieri del Cairo, irriducibile promotore del dialogo tra le tre religioni monoteiste e nel conflitto arabo-israeliano, era un uomo di pace. Per molto tempo fu l’unica voce di dissenso di pregevole profilo intellettuale del suo paese.


In molte nazioni del medio oriente le sue opere furono poi bandite a seguito del sostegno dato alla politica di Sadat e agli accordi di Camp David. Nel 1994 subì un attentato ad opera di fondamentalisti islamici, a seguito di una fatwā emessa dai loro capi religiosi, per questo perse l’uso della mano destra.

Evidentemente era destino che Mahfuz dovesse raccontare la storia romanzata di quello che è ritenuto uno dei faraoni più famosi, forse il più famoso, al pari del solo Ramses II. 


Amenofi IV, che passò alla storia col nome di Akhenaton, è un personaggio storico assai discusso. Fu oggetto di una pesantissima damnatio memoriae e colui che ruppe con l’establishment religioso del tempo, rescindendo anche il legame con le vecchie divinità a favore del culto nel dio unico Aton, fu padre (o fratello, come si sostiene nel romanzo) di un altro faraone celeberrimo, destinato a succedergli: Tutankhamon, che reinstaurò il vecchio culto.


Nagib Mahfuz sceglie di consegnare la narrazione della storia a Miri-Mon, che, nel tentativo di ricostruire i ricordi della sua infanzia, a sua volta raccoglie il racconto delle vicende da suo padre e da altri testimoni, a ognuno dei quali dedica un capitolo.

Assai funzionale e originale la scelta di porre come introduzione al romanzo una Tavola cronologica della storia d’Egitto, con l’elenco dei faraoni e con un breve riassunto per ogni periodo storico di riferimento.


La ricostruzione che fa lo scrittore egiziano è assai romanzata e arbitraria, considerato che gli avvenimenti storici reali sono abbastanza incerti, come incerte sono le parentele, così come il comportamento di Akhenaton stesso. Non bisogna fare molto affidamento, quindi, sull’oggettività delle vicende così come sono narrate, anche perché lo scrittore sembra intento a mischiare un po' le carte della ricostruzione storica in funzione delle sue necessità narrative e allegoriche.

In ogni caso, la penna di Mahfuz è assai felice e il romanzo molto ben congeniato. 


La storia va letta per quella che è: un grande affascinante affresco di un’epoca lontanissima, siamo nel XIV secolo a.C. Il lettore è anche aiutato in questo dalle riproduzioni grafiche delle pitture originali dell’epoca, poste a corredo del libro.

Così come è reso schematicamente, sempre per esigenze narrative, anche il  monoteismo del faraone, dato che sembra accertato che non fu un vero e proprio monoteismo. Si può desumere che al Mahfuz monoteista piaceva l’idea di un eretico con caratteristiche ben definite e di un certo tipo, per rendere maggiormente chiaro il conflitto con la casta sacerdotale.


Akhenaton è infatti l’Eretico e Mahfuz utilizza il racconto, sotto forma di inchiesta giornalistica, come metafora del potere dei sacerdoti che si fa stato. Akhenaton, a tratti, sembra che abbia non poche analogie con l’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, che osò riportare il paganesimo a Roma, rompendo momentaneamente la successione degli imperatori cristiani.

Anche se a ben vedere, a seguito di tutte le testimonianze, l'analogia maggiore che emerge è forse con le figure di Mosè e di Gesù. 


È comunque assai significativo, e probabilmente, non è esattamente una coincidenza nelle intenzioni di Mahfuz, che Akhenaton precedette storicamente tutte quante queste figure.

Detto questo, è, però, del tutto evidente che Mahfuz si ispirò anche alla vicenda umana e politica di Sadat. Ha tutto l’aspetto di un tributo, visto che il libro è stato scritto qualche anno dopo il suo assassinio. 

Si può supporre quindi che il romanzo sia un po' tutte queste cose insieme.


Il periodo in cui vive Miri-Mon è quello successivo al regno di Akhenaton, durante il decisivo regno di Tutankhamon che riportò la capitale a Tebe. Dopo che Amenofi IV l'aveva spostata nella nuova bellissima Akhetaton da lui fatta costruire.

 

È davvero interessante il modo in cui viene strutturata e condotta la narrazione, attraverso i diversi punti di vista dei vari personaggi interpellati, fornendo così una pluralità di pareri anche discordi su una personalità così controversa. 

È un espediente narrativo semplicemente geniale. Ma che alla fine fornisce, nella sua frammentarietà, un ritratto coerente del faraone, così come lo vuole rendere lo scrittore egiziano.


Leggendo, non assistiamo, infatti, a una reale netta separazione tra favorevoli e contrari. Certo, ci sono i pareri estremi di amore e di odio. Ma nel mezzo, anche tante sfumature e persino chi ha una posizione non ben definita. Ciò non toglie, che le gelosie, le invidie e le meschinità, come al contrario, la devozione e la piaggeria non emergano, anzi, l’autore riesce a descriverli con puntualità e con grande acume psicologico.


Nagib Mahfuz rende efficacemente e con estrema semplicità i conflitti e gli intrighi di palazzo, che precedono, accompagnano e fanno seguito al regno di Akhenaton e il ruolo della moglie Nefertiti. La forma scelta dallo scrittore, con l’alternarsi dei pareri, si rivela assai adeguata al raggiungimento di tale scopo.


Vediamo, dunque salire sulla scena una teoria di personaggi, tra cui è bene ricordare: la madre Tiye, che lo amava oltre ogni dire; il padre Amenofi III; il gran sacerdote di Ammone, maggior nemico di Akhenaton; Ay, padre di Nefertiti; Mut-Naymat, sorella della regina; il fedelissimo sacerdote di Aton, Miri-Ra; il benevolo Bintu, medico personale del faraone. E infine lei, Nefertiti, a cui lo scrittore affida il compito di narrare i fatti attraverso gli occhi dell’amore, con il capitolo più lungo e più intenso del libro.


La confessione della regina ha l’incedere della magnificenza. Ha lo scopo di ristabilire la verità. Anche se è la sua verità. Ma in definitiva è anche la verità in cui crede Mahfuz attraverso il suo alter ego Miri-Mon.

Narra di come venne sedotta dal dio unico e da Akhenaton, un fascino irresistibile. Divenne sua sacerdotessa. Racconta dell'incanto di cui fu preda, nonostante l’aspetto fisico gracile e dimesso del suo sposo. Seppe andare al di là e vide la luce della verità che promanava da Akhenaton, e lo accompagnò ben oltre la sua morte.

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