venerdì 7 giugno 2024

“Aguirre, Furore di Dio” (1972) - regia di Werner Herzog

 


Cult Movie


“Aguirre, Furore di Dio” (1972)


regia di Werner Herzog

con Klaus Kinski, Helena Rojo, Ruy Guerra, Cecilia Rivera, 


«Aguirre può essere considerato quasi un film di genere, una vera e propria pellicola d’avventura. In superficie presenta tutte le caratteristiche di un film di genere, ma a un livello più profondo racchiude qualcosa di nuovo e di più complesso. All’epoca sentivo che il film costituiva una sorta di test personale per me.»

«Nessuno sarebbe riuscito a domare Kinski così bene come ho fatto io verso la conclusione di Aguirre, e anche se in seguito, per un paio d’anni, ha detto di odiare il film, poi ha finito per apprezzarlo. Certo, Kinski era un’assoluta calamità ed era un incubo lavorare con lui; ma non fa niente. La cosa davvero importante sono i film che abbiamo realizzato insieme.»

«Aguirre è stato girato con una sola macchina da presa, quindi siamo stati costretti a lavorare in un modo molto semplice e persino rudimentale durante le riprese. Penso che questo abbia contribuito all’autenticità e alla vita del film. Non c’era alcuna traccia di quell’uso vistoso e artificioso di più cineprese tipico dei film hollywoodiani. Secondo me è la ragione per cui Aguirre è sopravvissuto così a lungo. È un film davvero elementare, impossibile da scarnificare ulteriormente.»

Werner Herzog, da “Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra Cinema e vita”


«25 Dicembre 1560. Abbiamo raggiunto l'ultimo valico sulla catena delle Ande. Finalmente ci affacciamo sulla vallata della nostra terra promessa. Al mattino celebro la messa, poi cominciamo a discendere dalle nuvole.»


«I nostri schiavi indios valgono poco o nulla. Il cambio di clima li fa morire come mosche. Non abbiamo tempo di dar loro una sepoltura cristiana.»


«Terremoti, epidemie e inondazioni sono cose terribili capitate al mio popolo. Ma quello che mi hanno fatto gli spagnoli è stato il peggio. Mi hanno dato il nome di Balthazar. Ma in verità il mio nome è Runo Dama, "colui che parla". Prima ero il signore di queste terre, e tutti si inchinavano davanti a me. Prima nessuno osava alzare lo sguardo con me. E ora sono in catene, come il mio popolo, e devo abbassare io lo sguardo. 

Ora sei tu a farmi pietà, perché so bene che nessuno di voi uscirà vivo da questa foresta.»


È stata una grande amicizia quella che ha legato Florian Fricke, leader dei Popol Vuh, a Werner Herzog.

Ci sono film che senza il decisivo contributo della colonna sonora non sarebbero stati gli stessi. Questo è il caso anche di “Aguirre, Furore di Dio” e del commento musicale dei Popol Vuh, mitico gruppo di musica cosmica tedesca, fondato nel 1969, che deve molta della sua fama a questa pellicola. 


Una musica più appropriata sarebbe stato difficile trovarla. È stata la prima delle molte collaborazioni cinematografiche tra il gruppo e il regista tedesco.

Le composizioni dei Popol Vuh sono quasi sempre sospese in un’atmosfera impalpabile, tra spiritualità, musica folk, canti gregoriani, musica rinascimentale, avanguardia e musica elettronica. Fricke usò anche l’organo-corale, uno strumento a tastiera che produceva un suono molto simile a quello di un coro umano, e che aveva molte analogie col mellotron.


Il ruolo determinante della colonna sonora lo si nota subito, già dalla suggestiva sequenza iniziale: la lunga discesa dalle Ande di un corteo formato da spagnoli, indios e religiosi, nella quale si intravedono buona parte dei protagonisti della storia. Una teoria di figure che si integrano alla perfezione con la natura aspra e selvaggia della catena montuosa. Una specie di corteo funebre che si accinge ad una discesa negli inferi.

Di grande effetto è “Flote”, brano suonato solo dal flauto di Pan, che appare anche in diverse scene del film.


Oltre, alla colonna sonora, c’è un’altra componente che rende indimenticabili certi film, ed è quanto questi possano identificarsi con gli attori protagonisti. Ebbene, anche qui ci siamo. Ogni volta che si parla di “Aguirre, Furore di Dio”, infatti, non credo si possa fare a meno di pensare a lui: Klaus Kinski. Anzi, dirò di più: Aguirre è Klaus Kinski e Klaus Kinski è Aguirre. Molto più di tutte le altre interpretazioni dell’attore tedesco, più anche dello stesso "Nosferatu", sempre nella versione di Herzog, che nulla ha da invidiare al capolavoro di Murnau. Anche Kinski è alla prima collaborazione con Herzog.


Aguirre però è anche Werner Herzog, regista un po' dimenticato, oggi considerato di nicchia. Questo forse è il suo massimo capolavoro, essenziale, ma assai accurato, del quale è anche sceneggiatore. 

Anzi, si potrebbe benissimo definire come un'autoproduzione: oltre a regista e sceneggiatore, è anche autore del soggetto e produttore.


Kinski era un personaggio a dir poco esuberante, quasi impossibile da gestire: numerose furono le sue intemperanze durante le riprese. Ma nessun altro poteva interpretare Aguirre e Herzog lo sapeva, non avrebbe potuto farne a meno, e in qualche modo seppe domarlo. È, quindi, anche l’inizio della storia del rapporto magico, ma tormentato e conflittuale tra i due, che andrà avanti per ben cinque film.


Il quarto protagonista del film è il paesaggio selvaggio, incontaminato e imperturbabile, fiume e giungla, che non fanno mai da semplice sfondo, ma entrano prepotentemente nella narrazione. Il quinto sono gli animali, anche loro completamente estranei alle vicende umane.

Tutti questi elementi contribuiscono alla riuscita del risultato finale, che è veramente miracoloso, tenuto presente il fatto che fu girato in economia.


La storia è ispirata alle memorie del missionario domenicano spagnolo Gaspar de Carvajal, che è tra i protagonisti del film, e che scrisse però memorie completamente diverse da quelle inventate da Herzog.

Siamo alla fine di dicembre 1560, un gruppo di conquistadores è impegnato in una spedizione alla disperata ricerca del mitico El Dorado, sono guidati da Gonzalo Pizarro. 


Vengono bloccati nella foresta amazzonica dalla scarsità di viveri. Pizarro incarica una quarantina di loro, con schiavi indios e alcune donne al seguito, di proseguire a bordo di alcune zattere.

A gennaio, a causa di una ribellione, di un ammutinamento, l’intraprendente, visionario, violento e crudele Lope de Aguirre prende il comando della spedizione dei quaranta, nominando Imperatore fantoccio di El Dorado Don Fernando de Guzman, mediocre personaggio che si preoccupa solo di soddisfare la sua stolta voracità. 


Aguirre capeggia così di fatto una rivolta contro Filippo II d’Asburgo, re di Spagna, dichiarando l’autonomia dal Regno del manipolo di disperati.

Pur non essendoci dati certi, ci sono diversi documenti sull’esistenza di Aguirre come personaggio storico. Il resto però è mito e leggenda. E Herzog non fece altro che dare il suo contributo al mito. A lui non interessava l’Aguirre storico, interessava quello leggendario sul quale plasmare un racconto. La sceneggiatura è pura invenzione, fu lo stesso Herzog ad ammetterlo. 


Il deforme Aguirre, indifferente a tutto quello che gli accade attorno, è un Riccardo III delle acque e degli alberi, che la follia ha reso più cieco del personaggio shakespeariano. La sua megalomane distruttività non ha fine: una zattera in fondo non è un cavallo e il suo regno non è barattabile con nulla. 

È la storia di una follia. L'autodistruzione è contenuta essa stessa nella scelta: perseguire un sogno insensato e sfidare la forza della natura.


Il suo orizzonte è colmo dal delirio di onnipotenza, creatore e distruttore insieme, che promana dal suo gelido sguardo. La sfida con la natura, più che con i guerrieri indios (che di questa d’altronde sono parte integrante), non lo riguarda, perché è convinto di vincere comunque, perché lui è il “Furore di Dio”. Qualsiasi cosa accada, lo sarà sempre, ben oltre la morte.


Infatti, non è esattamente un film sul colonialismo. Herzog non aveva mai idee predefinite sul contenuto politico, nel momento in cui si accingeva a costruire una storia. È più esattamente una metafora sul nichilismo insito nel potere. In questo senso, potrebbe essere definito un film anarchico.


Le sequenze girate sul Rio delle Amazzoni, simile a un Acheronte implacabile e in piena, sono mirabili e da antologia. Le riprese in realtà furono girate sui suoi  affluenti e subaffluenti nel grande scenario del territorio del Perù.

Così come è anche da culto la sequenza dell’orda di piccole scimmie che invade la zattera, e che simboleggia la natura che rientra in possesso di quello che è sempre stato suo.


Consigli di lettura: Werner Herzog, “Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra Cinema e vita”


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