domenica 9 giugno 2024

Martin Amis, “La freccia del tempo” (1991)

 


Classici


Martin Amis, “La freccia del tempo” (1991)


«Ho anche un grosso debito col mio amico Robert Jay Lifton. Due estati fa mi accadde di riflettere sull’idea di raccontare all’indietro la vita di un uomo. Poi, un pomeriggio, dopo un incontro tipicamente emotivo su un campo di tennis, Lifton mi diede una copia del suo libro “I medici nazisti”. Senza quel libro non avrei scritto e non avrei potuto scrivere il mio romanzo. La stessa cosa si può probabilmente dire delle opere di Primo Levi, in particolare “Se questo è un uomo”, “La tregua”, “I sommersi e i salvati” e “Ad ora incerta”. Tra gli altri scrittori che mi sono stati particolarmente utili, per diverse ragioni, sono Martin Gilbert, Gitta Sereny, Joachim Fest, Arno Mayer, Erich Fromm, Simon Wiesenthal, Henry Orenstein e Nora Waln. Nel fondo della mia mente c’era anche un certo racconto di Isaac Bashevis Singer e un certo paragrafo – famoso – di Kurt Vonnegut.»

Martin Amis


«Tutto questo per me è strano. Lo so che vivo su un pianeta magico e feroce, che sparge o cede pioggia o anche la getta via con un colpo di frusta dopo l’altro, che spara nel firmamento saette d’oro elettrico a 300 000 chilometri al secondo, che con una semplice scrollata delle sue placche tettoniche può erigere una città in mezz’ora. La creazione... è facile, è rapida. C’è anche, apparentemente, un universo. Ma non sopporto di vedere le stelle, anche se so che sono lí, e le vedo, perché di notte Tod guarda in alto, come tutti quanti, esclama e punta il dito. Il Gran Carro, Sirio, il Cane. Le stelle, per me, sono come aghi e spilli, sono come la mappa di un incubo. Non unite i puntini... Di tutte le stelle, ne posso contemplare una soltanto senza soffrire. Ed è un pianeta. Quel pianeta che chiamano la stella della sera, la stella del mattino. L’intensa Venere.»


«È una guerra quella che stiamo combattendo, una guerra contro la salute, contro la vita e l’amore? La mia condizione è una condizione lacerata. Ogni giorno, dispensare l’esistenza. Io vedo la faccia della sofferenza. È una faccia feroce e remota e antica.

Per la stanchezza insopportabile che io sento c’è probabilmente una semplice spiegazione. Una spiegazione assolutamente semplice. È una stanchezza mortale. Forse sono stanco di essere umano, se umano è ciò che sono. Sono stanco di essere umano.»


«Gli esseri umani vogliono essere vivi. Muoiono dalla voglia di essere vivi. Venti centimetri cubi d’aria – venti centimetri cubi di niente – è tutto ciò che occorre per fare la differenza. Cosí nessuno mi ringrazia quando, con un’ipodermica grossa quasi quanto un trombone e con il piede destro saldamente piantato sul petto del paziente – continuo la guerra contro il niente e l’aria.»


Come si può leggere nella prima citazione, che è tratta dalla postfazione, Martin Amis indica svariate fonti che gli sono servite per la stesura del suo romanzo, diverse delle quali le ho rintracciate anch'io mentre lo leggevo. Soprattutto lo straordinario, impressionante monumentale saggio di Robert Jay Lifton “I medici nazisti”. Ecco, se si è letto questo libro, e magari anche Primo Levi, il romanzo di Amis acquista ancora più senso. Tuttavia, è proprio la lettura del saggio di Lifton ad essere determinante.


Amis, morto l’anno scorso, è salito quest’anno agli onori della cronaca per essere l’autore del romanzo da cui è stato tratto il film “La zona d’interesse”, vincitore dell'Oscar per il miglior film straniero.

Anche ne “La freccia del tempo”, così come ne “La zona di interesse”  si parla di Auschwitz. Tuttavia, la prospettiva e le modalità sono assai diverse. 


Come già detto per l'"Orlando" di Virginia Woolf, romanzo anch’esso basato su un paradosso temporale, la singolarità e l’originalità canonica sono rispettate a pieno titolo anche da Martin Amis. Qui, però, siamo su un territorio molto più impervio per i lettori, rispetto a quello della Woolf. 

Affrontare, infatti, un romanzo di letteratura postmoderna è sempre una bella fatica: non sai mai bene cosa ti troverai di fronte, quanto ne capirai e come ne uscirai. 


“La freccia del tempo” è però un po' un’altra storia. L’originalità che gli viene attribuita è legata più che altro al particolare metodo di narrazione che si svolge quasi letteralmente al contrario. È, cioè, il tempo che procede a ritroso. A ben vedere, non è un’idea proprio del tutto nuova, se si pensa, per esempio, al romanzo di Philip K. Dick “In senso inverso”. E nel corso del tempo questo diventerà un espediente letterario assai utilizzato, a volte anche abusato.


Qui, però a questa trovata se ne aggiunge un'altra: la storia si intreccia con quella dell’immaginario aiutante medico di Mengele, che torna indietro fino al tempo dell’Olocausto e oltre, per poterne rivivere l’orrore e ritornare ad un periodo di ideale innocenza in cui non era ancora stato perpetrato.

Il procedere a ritroso nel tempo è un’attività grottesca perché non solo è il tempo che torna inspiegabilmente indietro, ma ogni banale attività fisica quotidiana, si riproduce esattamente al contrario, alcune delle quali con disgusto e con dolore. 


Ma non solo, anche il linguaggio, le parole sono espresse in senso inverso, quelle parole che al protagonista, al primo ascolto, appaiono come un cinguettio indistinto. 

Tutto procede al contrario: acquisti che diventano vendite, traslochi dalle nuove alla vecchie abitazioni, la fine dei rapporti che diventano l’inizio, i dialoghi che iniziano dalla fine, automobili che vanno in retromarcia mentre gli autisti guardano avanti. Tutto viene preso dalla spazzatura o dal fuoco, venendo magicamente creato come fosse una specie di araba fenice.


Tuttavia, gli espedienti narrativi non si esauriscono qui. Il romanzo inizia con un certo Tod Friendly, anziano medico che giace in un letto d’ospedale paralizzato, e che, invece di morire, migliora e comincia a tornare indietro nel tempo, cambiando più volte identità, fino a quella del medico nazista. 

Il paradosso, quindi, tipico della letteratura postmoderna è servito.

La prosa di Amis ha per tutto il corso del romanzo una furia orgasmica descrittiva indomabile.


Tutto sta nel comprendere cosa sta accadendo, ed entrare, non solo nei panni del Tod “mutante” e delle sue diverse versioni, ma anche nel punto di vista della voce narrante, incarnata in Tod, come fosse una seconda personalità, a cui Amis fa esprimere tutto il suo stupore e la sua perplessità di fronte al dispiegarsi degli eventi, in una narrazione contraddittoria, non coerente, e molto introspettiva, altra tipica caratteristica del postmodernismo. 


Persino la futile quotidianità acquista senso, diventa evento straordinario, nessuna cosa, nessun atto è trascurabile. È questa una delle cose che mette in evidenza Amis: ripercorrere all'indietro il proprio passato per scoprire quanto è straordinaria la vita, quanti errori abbiamo commesso, quanto è banale il male.


Ma chi è la voce narrante? Perché è dentro Tod? Ha capito davvero che il tempo sta andando a ritroso? E anche Tod e le altre persone stanno vivendo la stessa sensazione, oppure per loro tutto procede normalmente?

Questo rende il romanzo qualcosa di diverso, non appartenente alla fantascienza. Perché il meccanismo di retrospezione potrebbe far parte unicamente del microcosmo percettivo del narratore, essere esclusivamente un suo personale incubo.


La cosa più dura da accettare da parte dell'io narrante è la violenza, la dura e pura violenza che si cela anche nell’attività di un medico in un mondo al contrario, che forse non è proprio così al contrario, allora.

D’altronde le cure al contrario, appaiono come atrocità, invece di risanare, si ferisce, si infetta, si impiantano tumori. 

C’è da chiedersi però se possano essere atrocità anche quando la freccia del tempo va in avanti, soprattutto quando l’attività medica è quella di un nazista in un lager.


La prosa di Amis è accattivante e apocalittica, pienamente adeguata nel rendere questa realtà allucinata.

Lo scrittore ha una grandissima abilità nel descrivere questo mondo impazzito, al contrario, mette cura nei particolari e nei dettagli. Tutto appare incredibile, anche la sorpresa di chi narra in prima persona. 


Questo aspetto si lega inoltre ad un altro: è che la realtà a volte ha molto più senso quando procede in senso inverso. È come se le cose trovassero un perché, si placassero, fossero sottoposte a una nuova creazione o a una distruzione definitiva, tornando o andando, a secondo della prospettiva, verso uno stato di quiete o di tormento, ma comunque sempre verso la loro soluzione. È una scoperta graduale della realtà, un’interpretazione diversa della realtà. 


Questo fa Amis nel romanzo: mette i lettori di fronte a una dimensione insensata, capovolta, per cercare di darle un senso. È quello che in fondo facciamo tutti noi abitanti di una dimensione che reputiamo normale, come d’altronde fanno anche Tod, John, Hamilton e Odilo, che forse non si accorgono del paradosso.


Lo scrittore cerca di mostrare le cose nella loro essenza, tendendo la freccia verso la loro origine, indicando il sollievo prima del dolore, la nausea prima del fetore, la soluzione prima del rebus, l’effetto prima della causa, lo sterminio prima della vita. Ma anche la vecchiaia prima della giovinezza, perché nella freccia del tempo, ovviamente, si ringiovanisce.


Se va indietro l’esistenza quotidiana dei singoli individui, allora, procede a ritroso anche la Storia dell’umanità. Si arriva quindi alla guerra in Vietnam e da questa, ancora indietro/avanti fino alla Seconda Guerra Mondiale. Da New York a Lisbona, a Salerno e Roma, in Vaticano. Poche date vengono citate. Il resto lo fanno la fantasia dello scrittore e la percezione del lettore.


La quarta versione è quella fatale e definitiva, quella di Odilo Unverdorben che inizia con un viaggio verso il nord, passando per il Brennero e attraverso le città dell'Europa centrale, fino ad Auschwitz. E in questo contesto la voce narrante non è più sdoppiata. È solo quella di Odilo.

Qui il paradosso arriva al suo vertice massimo: lo sterminio vissuto al contrario è creazione, risanamento. I lager sono ospedali dove si guarisce e si resuscita. 


È un risanare che ha però a che fare con lo sterco, con la merda, con il sangue, con migliaia di cadaveri ammassati. E la messa in scena del risanamento non annulla la brutalità di un Mengele, di uno “Zio Pepi” “buono”.

Il viaggio all'indietro torna ancora, e qui in maniera inequivocabile, a dimostrare che in un senso o nell’altro la brutalità medica permane.

Nel 1942, invece di arrivare ad Auschwitz, Odilo lo lascia, e si ricompone anche il rapporto con sua moglie Herta, entrato per lui inspiegabilmente in crisi, proprio per il disgusto causato nella donna dal lager.


Amis descrive la potenza di Odilo durante tutta la guerra, ma che va di pari passo con la sua impotenza sessuale, che si interrompe proprio all'inizio della guerra che nella freccia del tempo sarebbe la fine.

E l'io narrante torna a sdoppiarsi. 

Di conseguenza, non c'è più odio per gli ebrei, ma amore, perché nella freccia del tempo, nella storia al contrario, i nazisti aiutano gli ebrei a vivere e a rinascere. Il tempo in senso inverso costringe al risanamento, alla riparazione. Costringe Odilo ad arrivare fino all’utero materno, e a nascere di nuovo? Ma poi verrà forse un nuovo e differente inizio? Una possibilità di riparare per davvero?

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