mercoledì 24 luglio 2024

Angela Carter, “I buoni e i cattivi” (1969)

 


Classici


Angela Carter, “I buoni e i cattivi” (1969)


«Le marmaglie venivano a devastare, a rubare, a saccheggiare e, se necessario, a uccidere. Simili a folletti in un incubo, avevano la pelle variopinta e strascichi fluenti di capelli come imponenti criniere. Scintillavano dietro gli strani scudi di metallo ricurvo dragati dalle rovine. I loro cavalli avevano bizzarre bardature fatte di stracci, coltellini, campanelle e catene che tintinnavano da criniere e code, mentre uomini e cavalli insieme, centauri scellerati, crudamente impiastrati di pittura, parevano raddoppiati nelle loro dimensioni naturali. Sparavano da lunghi fucili. Attaccata dagli orrori della notte nelle prime ore del mattino, la folla gentile si disperse urlando.»


«Lei sollevò il sipario di criniera nera e, incredula, fece scorrere le mani per tutta la lunghezza della schiena decorata. Sul lato destro c’era la sagoma di un uomo e sul sinistro quella di una donna e, lungo la colonna, un albero con un serpente attorcigliato intorno al tronco. Un complicato disegno colorato di blu, rosso, nero e verde. La donna porgeva all’uomo una mela rossa e diverse altre mele crescevano tra il fogliame verde sulla chioma dell’albero, che gli si allargava sulle spalle, mentre le radici nere si torcevano e finivano all’attaccatura delle natiche. Le sagome erano statiche e vivaci; Eva esibiva un sorriso perfido. Le linee di colore erano incise con precisione ossessiva sulla compatta pelle splendente che si sollevava e si abbassava al respiro di Gioiello, dando l’illusione che la lingua biforcuta del serpente dardeggiasse e che il fogliame dell’albero ondeggiasse alla brezza, un effetto che l’artista doveva aver previsto e progettato.»


«Quella terza cosa, quella bestia erotica, era informe, priva di occhi, dotata di una sola bocca. Era anfibia e nuotava nelle acque nere e salmastre nutrendosi solo della notte e del silenzio; Marianne chiudeva gli occhi se le capitava di intravederla alla luce della luna. E non esistevano paroline dolci, né alcuna ragione per usarle. La bestia aveva denti e artigli. Talvolta si trasformava in un puro strumento di vendetta, benché spesso il suo impeto la portasse a trascendere la sua funzione. Poi la bestia si scindeva, loro tornavano a essere in due e si risvegliavano nella mutua diffidenza del mattino.»


Angela Carter, scrittrice inglese del secolo scorso, nonostante sia morta a soli cinquantadue anni, ha dato un contributo decisivo ai generi fantastico, gotico e horror, spesso miscelati insieme in maniera del tutto originale e casuale, come in questa storia. Autrice di racconti e romanzi assai affascinanti, con al centro spesso infanzia e adolescenza pesantemente violate.


Ha scritto il soggetto e ha collaborato alla sceneggiatura dell’originalissimo film fantasy “In compagnia dei lupi” di Neil Jordan, tratto da un suo racconto e che è la rielaborazione della fiaba di “Cappuccetto Rosso”, in chiave horror.

Ed è proprio di fiabe nere che è piena la produzione della Carter, a partire dal fortunato romanzo “La bottega dei giocattoli”.


“I buoni e i cattivi” è ambientato in un non meglio precisato futuro post apocalittico, in cui la ragazzina protagonista, Marianne, si muove con stupore e ingenuità. È un mondo dallo schema sociale molto rigido, dominato dalle figure dei Professori, una comunità composta da contadini Operai, che hanno come guida un numero ristretto di Professori e protetta dai Soldati.


È un mondo che è una specie di Eden artificiale, ai confini del quale vivono esclusi i “Barbari”, figure mitiche quasi mostruose, razziatori, pezzenti e nomadi, abitato anche da Quelli di Fuori, esseri ripugnanti non umani privi di status sociale, «gli emarginati degli emarginati», forse figli di mutazioni genetiche.

L’ambiente di Marianne è quello delle élite dato che è figlia di un professore.

Ma un’incursione dei barbari cambia per sempre la vita della ragazza. 


Questo è un romanzo dalle molte sfaccettature, delirante, dalla fantasia irrefrenabile, selvaggio e ambiguo come spesso accade nella narrativa della Carter, un crudele romanzo di formazione, che parte dal rapporto della ragazzina col padre che le trasmette l’amore per la lettura, la scrittura e lo studio. Vivono in una bianca torre che è come un avamposto, circondata dall’inferno. Loro due soli con una vecchia tata.


Marianne è una ragazzina irrequieta che ama andare in giro da sola a esplorare quel folle mondo allucinato, osservando il mistero delle multiformi figure che la circondano, di personaggi grotteschi di cui è piena la sua realtà. 

Una realtà che è come se fosse qualcosa di impalpabile di fluido come lo è anche il tempo che appare indefinito, così come la collocazione nel futuro e i contorni della passata apocalisse. 

Assiste a episodi di cruda violenza e di sangue. 


Come ogni fiaba che si rispetti, anche questa ha i suoi luoghi fantastici, incantati: la bianca torre, la palude, la foresta, l’accampamento, i villaggi, una città pietrificata.

È tutto sospeso tra incubo, sogno e gioco, una realtà nella quale Marianne ha intenzione di lasciare il segno, di non subirla passivamente. È come un’Alice a metà strada tra il paese delle meraviglie e quello degli orrori. 


Leggendo il romanzo della Carter, si ha come la sensazione di trovarsi immersi in un dipinto dei maestri fiamminghi Bruegel o Bosch, è un affresco composto da visioni allucinate che si susseguono in un contesto spiccatamente rurale. 

Verso il finale appare anche una citazione “mascherata” di un celeberrimo film di fantascienza uscito l’anno prima. Lascio ai lettori, che vorranno leggerlo, il piacere di scoprirla.


La fuga rocambolesca col barbaro dal nome Gioiello, cambia all'improvviso la vita di Marianne che assume i toni della fuga d’amore, dell’avventura picaresca. Ma è soprattutto una fuga da un universo insensato, disumano, alla ricerca di un microcosmo nel quale si possa vivere in armonia, lontana da questo putrido inferno. Chi sono i buoni? Chi, i cattivi? Restano solo le apparenze?


È l’incontro tra due estranei, tra due mondi diversi, quasi opposti, che non è detto avvenga per la prima volta. Sono due visioni della realtà in cui l’altro è percepito attraverso le lenti deformanti del pregiudizio, di leggende costruite e tramandate per generazioni, scaturite non da riscontri reali, ma dalle reciproche paure.

A tratti sembra di leggere “Il signore delle mosche”, anche se qui gli adulti non mancano di certo, ma sono in fondo adulti che si comportano come bambini.


È un viaggio allucinato quello che compiono, come due spettri che si muovono all'interno di un incubo colorato, a uso e consumo di Marianne.

L'arrivo all’accampamento dei Barbari è il culmine dell’allucinazione con Marianne in preda alla febbre per un morso di serpente. L’accampamento è un luogo con al centro un grande edificio in completa rovina. 

La prosa della Carter raggiunge toni visionari, tra tanfo e degrado generalizzato.


Marianne fa la conoscenza della signora Green, fuggita anche lei con un barbaro molto tempo prima, che le viene presentata come matrigna di Gioiello, alle cui cure viene affidata, facendole anche in qualche modo da madre; e fa la conoscenza del dott. Donally, un inquietante personaggio, lo sciamano, un “gigante” dalla barba bicolore, un uomo raffinato ed estremamente curato, che stona con l’ambiente circostante. Un manipolatore. I capi della tribù sono i fratelli Bradley, la famiglia di Gioiello. E Gioiello è il loro leader.


La ragazza fa fatica a comprendere questo nuovo mondo, a collocarsi al suo interno, come a comprendere i suoi abitanti, il loro ruolo, sono sporchi e cenciosi, ma sempre tutti presi da qualche attività. 

I bambini sono tutti affetti da qualche malanno, vivono in uno stato di promiscuità, dato che lo spazio a disposizione dei nuclei familiari è molto scarso.


Ma l'essere che vive nel più assoluto degrado è “l’idiota”, figlio del dottore, legato a volte a una catena e costretto a stare all’aperto, ridotto allo stato di una bestia, come vuole lo stesso dottore.

Marianne si rende ben presto conto che il fascino romantico, che aveva immaginato nei confronti dei Barbari e che l’aveva indotta a lasciare il suo mondo, è solo un’illusione ed è costretta a impararlo a sue spese.

Tuttavia, un dubbio le resta nella mente: quel mondo esiste davvero o è solo una proiezione dei Professori?


Il punto di forza di Angela Carter è l’intensa capacità descrittiva che imprime alla sua prosa altamente poetica, relativamente a situazioni, luoghi, caratteri, sentimenti, sensazioni e pensieri. Il linguaggio erudito e sapiente che mette in bocca a Marianne e Gioiello, nonostante lui sia analfabeta, rende ancor più incredibile l’atmosfera surreale in cui è immersa tutta la storia.


Una descrizione delirante e febbrile percorre il racconto, facendosi, aspra oppure dolce, scarna o barocca, vivida oppure sfumata, a pieni colori o perduta nella nebbia, insieme ad un erotismo morboso e malato, tra fatale attrazione e tremenda repulsione, che vive riproducendosi, visto che ogni sentimento affettivo è svanito a beneficio di comportamenti del tutto deliranti, nonostante i protagonisti siano mossi da indefiniti e incontrollati impulsi verso la ricerca di una nuova identità. 

«Il mondo si trasforma in sogno e il sogno in mondo.»

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