sabato 6 luglio 2024

“Il mucchio selvaggio” (1969) - regia di Sam Peckinpah

 


Cinema - Cult Movie 


“Il mucchio selvaggio” (1969)


regia di Sam Peckinpah 

con William Holden, Ernest Borgnine, Robert Ryan, Warren Oates, Jamie Sanchez, Emilio Fernandez, Edmond O’Brien, Ben Johnson.


«Tutti sogniamo di tornare bambini, anche i peggiori tra noi – forse i peggiori più di tutti».


«E così, se perdi, in realtà non perdi davvero: usi quello che hai immagazzinato per il prossimo film. È un processo di apprendimento. Se smetti di imparare, sei morto…

…Lo scopo del fim è quello di prendere la facciata della violenza cinematografica e aprirla, coinvolgendo il pubblico fino a calarlo ben dentro la sindrome della reazione prevedibile, tipica della televisione hollywoodiana, per poi rivoltare le carte in modo che la violenza non abbia più nulla di divertente e provochi solo un’ondata viscerale di disgusto... È terribile, brutale e fottutamente impressionante. Non è divertente, non è giocare ai cowboy e agli indiani. È una cosa brutta, tremenda. Eppure provoca una reazione forte, che rasenta l’eccitazione, perché in fondo siamo tutti persone violente».

Sam Peckinpah 


«Lentamente, una scena alla volta, Sam stava ritrasformando Pike Bishop da personaggio macho a figura tragica dalla grande complessità: un uomo perseguitato dai suoi fallimenti nel recente e nel lontano passato, che si rivela perennemente incapace di corrispondere all’ideale e all’etica che si è autoimposto…

… La cinica disillusione del Mucchio riflette quella dell’America del 1967, e la loro cavalcata verso il Messico diveniva, anche se non lo avrebbero capito fino all’ultimo momento, una ricerca di significato e di rinascita spirituale. La terra a sud del confine in cui entravano non era il Messico del 1913, ma il facsimile onirico di Peckinpah, un regno uscito dal Vecchio Testamento che offriva visioni opposte dell’Eden e di Sodoma. La roccaforte di Mapache, Agua Verde, è un crudele, lacerato paesaggio di pistole e oro, di liquore che scorre a fiumi e di prostitute; madri allattano i loro bambini tra le bretelle delle cinture per le munizioni e un condottiero impregnato di sangue ride divertito alla vista di una donna colpita al cuore con un colpo di pistola.»

David Weddle


«Ciò che accadde nel Mucchio selvaggio non accade quasi mai: tutti erano lì a dare il massimo, con tutto il lavoro e i compiti già fatti, con otto possibilità in ciascuna mano e la mente a cercarne altre otto, in una corsa folle lunga ottanta giorni. Tutti profondevano il massimo impegno alla massima potenza – o semplicemente erano fuori dai giochi!»

Gordon Dawson


Sam Peckinpah non godeva di buona fama a Hollywood. Non era molto amato. Era troppo fuori dagli schemi per lo standard classico del Cinema a stelle e strisce. Era uno che si prendeva spesso e volentieri gioco dell’american way of life. Si era fatto una fama da fascista e misogino soprattutto per il film “Cane di paglia”, interpretato da Dustin Hoffman. E questo nei primi anni settanta. Era contemporaneo di Sergio Leone. I due si influenzarono inevitabilmente a vicenda.


Eppure, è proprio questo suo essere fuori dagli schemi, tutt’altro che reazionario, il non badare affatto a degli stereotipi morali preconfezionati, che ha fornito ai suoi film quel valore aggiunto che li ha resi assolutamente unici.

 Ci ha lasciato almeno quattro capolavori: questo film, il già citato “Cane di paglia”, “Sfida nell'Alta Sierra” e un epico “Pat Garrett & Billy the Kid”, famoso per la colonna sonora e l’interpretazione di Bob Dylan.


“Il mucchio selvaggio” è il western cinico, brutto, sporco e cattivo per eccellenza, amorale fino al midollo, che già dalle prime scene si presenta per quello che è. La sequenza iniziale violenta fino al parossismo, con la sparatoria tra i rapinatori e i cacciatori di taglie, con in mezzo la popolazione della cittadina di Starbuck, con l’inevitabile massacro e la spoliazione dei beni dai cadaveri, lascia interdetti e spiazzati gli spettatori, che cercano di capire cosa sta accadendo e chi siano i veri criminali. Insomma, i buoni dove sono finiti?


La scena dei bambini che si divertono ad assistere alla lotta tra le formiche e gli scorpioni in un formicaio, mentre le prime torturano i secondi, apre metaforicamente il film e si conclude, dopo il massacro di Starbuck, coi bambini che danno fuoco al formicaio. Una sequenza che sta a rappresentare la perfidia di cui è intriso il film, nel quale neanche anime innocenti come i bambini si salvano, tanto sono contaminate dalla violenza degli adulti.


Il western di Peckinpah è uno dei primi a cambiare i canoni standard del genere. Va oltre anche la rivoluzione di Sergio Leone. Nei film dell’italiano una parte delle vecchie regole resiste ancora, nonostante già in lui ci fossero i prodromi di un cambiamento epocale.

Nel “Mucchio selvaggio” il sangue riempie quasi completamente l’orizzonte esistenziale. Resta intatto solo l'onore di un gruppetto trasversale di pistoleri. L’onore è l’ultimo rifugio di un mondo senza più gloria.


I film Western del passato sono sul viale del tramonto, così come lo sono i tre protagonisti principali del film.

Il personaggio di Pike ha sotto ogni evidenza ispirato quello del Munny di Clint Eastwood negli “Spietati”. Ma non è il solo film che “Il mucchio selvaggio” ha influenzato, anzi, ha fatto scuola e ancora oggi continua a farla. 

Rappresenta il vero mito della Frontiera, tra Texas e Messico ai tempi di Pancho Villa, col suo estremo e furioso realismo, attraverso un’ambientazione storica cruda ed eccessiva.


Tutto il film è immerso in un’atmosfera di ineluttabilità, in cui l'iperrealismo gioca un ruolo determinante. Ed è proprio questo a creare l’effetto traumatizzante. Si veda anche la rocambolesca rapina al treno e la sequenza del ponte sul Rio Grande.

“Il mucchio selvaggio” ruba il titolo alla storia di Butch Cassidy, resa famosa dal film omonimo interpretato da Paul Newman e Robert Redford, in cui recitarono per la prima volta insieme, uscito nello stesso anno del film di Peckinpah. 

Quello era il nome della banda di Butch Cassidy, ed è realmente esistita.


Peckinpah ambienta la storia in una sorta di terra di nessuno, dove tempo e spazio paiono rinchiusi in un recinto autoreferenziale, e già questa scelta è decisiva per il taglio di tutto il film.

Non c’era nulla di romantico nel soggetto di Sickner e Green, il contrario esatto di “Butch Cassidy”, col quale entrò in competizione. Tuttavia, la sceneggiatura finale fu ben altra cosa. 


Per mesi e mesi il regista si dedicò proprio alla sceneggiatura, rivedendo e cambiando più volte il soggetto, finché non divenne un prodotto interamente suo. 

Quando la banda di Pike, per esempio, entra nel villaggio messicano dove era nato Angelo, avviene quasi un miracolo i criminali senza scrupoli si addolciscono al cospetto del contrasto tra la natura inclemente di quelle parti e la vista di bambini, uomini e donne che continuano comunque a vivere in armonia. Sul soggetto iniziale tutto questo non c'è. La complessità è tutta farina del sacco di Peckinpah.


Tuttavia, questo è un momento del tutto isolato nel contesto di un film dominato dal cinismo, ma che lascia comunque una traccia indelebile e che influenzerà il proseguimento della storia, compreso l’epilogo.

Si capisce benissimo che il regista è sempre in bilico tra vuota aridità dei sentimenti e riaffermazione del mito come qualcosa che va al di là del bene e del male e che accomuna i personaggi, alla ricerca di qualcosa che non riescono bene ad afferrare, ma che somiglia forse a una redenzione estrema o al definitivo annullamento di sé. O ancora meglio, a un misto delle due cose.


Anche il frequente uso del rallenty nelle scene più violente è un modo per mostrare quello che non si riesce bene a percepire. In realtà, non è solo semplice rallenty: è il montaggio insieme di slow e fast motion. 

Quello che preoccupava Peckinpah era la diffusione della violenza che vedeva diffondersi nel suo Paese, nella società, nel mondo, in se stesso e negli altri. Allora, tentava di rappresentarla per poterla analizzare e dare la possibilità, nel criticarne gli effetti nefasti, di trasformarla in qualcosa di “giusto”. Però per fare questo bisognava calarsi il più possibile nell’abisso. Un tentativo disperato, ma inevitabile, perché è la vita stessa a esigerlo.


Il personaggio di Pike Bishop è di notevole complessità, opposto al suo nemico - amico Deke Thornton, con cui ha, tuttavia, molte affinità caratteriali, e non è un caso, considerato il passato che hanno in comune, sintetizzato in qualche suggestivo flashback. Entrambi tentano di imporre una sorta di codice morale a se stessi e alle proprie bande: da una parte, quella di criminali rapinatori di Bishop, tra i quali spicca Dutch il suo braccio destro, in completa sintonia con lui, e, dall'altra, quella dei cacciatori di taglie di Thornton, molto più infami dei primi.


Per le musiche Peckinpah scelse Jerry Fielding, che in passato aveva avuto dei problemi perché era finito sotto le lenti della Commissione sulle attività antiamericane a causa delle sue idee politiche. Non era riuscito a lavorare per quasi dieci anni ed era stato riportato sulle scene grazie a Otto Preminger all’inizio degli anni sessanta. Lavorerà anche con Clint Eastwood nel “Texano dagli occhi di ghiaccio”.


Inizialmente, per la parte di Bishop era stato chiamato Lee Marvin, entusiasta del soggetto, ma a sceneggiatura finita, Marvin rifiutò di firmare e di continuare. Per una sorta di coincidenze, rinunce e scelte felici, le parti più importanti furono assegnate a William Holden (Pike), Robert Ryan (Deke) e Ernest Borgnine (Dutch). A parte questi attori, Peckinpah, con l’intensa e coinvolgente pressione che esercitava, era comunque capace di tirar fuori grandi prove anche da interpreti poco più che mediocri e sconosciuti.


La storia della scelta delle location con gli aggiustamenti voluti da Peckinpah è assai intrigante. Il regista con la sua meticolosità mise una vera ossessione nella cura dei particolari. Riadattò addirittura degli edifici, ma fu irremovibile nella scelta finale, soprattutto volendo a tutti i costi la hacienda dove venne ambientata Agua Verde.


Coinvolse la troupe nella sua frenesia e chi non gli stava al passo ricevette il ben servito. Girava in preda a una febbre, a uno stato di perenne eccitazione, che lo portò a realizzare un prodotto leggendario. La sequenza master finale, nota come “la battaglia del portico insanguinato”, è l’apogeo di tutto il film, qualcosa che è entrato direttamente nel mito.

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