venerdì 12 luglio 2024

“Lanterne Rosse” (1991) - regia di Zhang Yimou

 


Cinema, Cult Movie 


“Lanterne Rosse” (1991)


regia di Zhang Yimou 

con Gong Li, Caifei He, Cuifen Cao, Lin Kong


Meishan: Quarta sorella, cosa fai qui di buon'ora?

Songlian: Ascolto il canto della terza sorella, che canta così bene.

Meishan: Tu credi? Bene o male, tutto è rappresentazione. Se reciti bene, inganni gli altri; se reciti male inganni te stessa. Se non sai ingannare neppure te stessa, non ti restano che i fantasmi.

Songlian: Tra gli uomini e i fantasmi, la sola differenza è il respiro.


La glaciale, rabbiosa, ma rassegnata disperazione dipinta sul volto in primo piano di Gong Li apre il film, trasportandoci immediatamente nell’atmosfera che caratterizzerà tutta la storia. È una vicenda di coercizione, un racconto dell’ancella in salsa cinese e molto più reale della novella distopica della Atwood, non solo per l’ambientazione, ma soprattutto per le implicazioni sociali e culturali legate a un determinato contesto storico. Siamo negli anni venti, al tempo dei signori della guerra.


La ripetizione ossessiva della ritualità, la geometrica precisione simmetrica della visione prospettica dei padiglioni, le riprese coi campi lunghi, simili a dipinti, fermi nel tempo e nello spazio, il privilegio del massaggio ai piedi, le lanterne rosse che vengono accese e spente a capriccio del padrone, tutto ciò contribuisce a dare la sensazione di un universo immobile, ripetitivo, senza alcuna possibilità di uscita.

È un universo circolare, sempre uguale a se stesso, e il padrone, a prescindere dalla sua propria volontà, deve attenersi a queste regole perché derivano dalla tradizione della famiglia Chen.


A prescindere dal sofferto, ambiguo e contraddittorio rapporto di Zhang Yimou col regime cinese, col quale ha avuto non pochi problemi di censura (questo film fu per anni messo all’indice), il suo è un cinema dalla geniale architettura visiva e dai contenuti chiari e inequivocabili; un cinema che resta sospeso tra tradizione e innovazione, che, nonostante l’enorme considerazione ottenuta in Occidente, abita una terra di nessuno dal punto di vista ideologico. Ed è giusto che sia così. Un cinema ispirato da un deciso afflato libertario.


“Lanterne Rosse”, tratto dal romanzo di Su Tong “Mogli e concubine”, è una fiaba nera allegorica sul dispotismo e sui conflitti orizzontali che il potere dominante crea, in questo caso quello patriarcale. 

Le relazioni di potere tra le quattro concubine, con in più anche la serva Yan’er e la governante, sono paradigmatici di come e quanto funzionino certe dinamiche. Ogni figura femminile rappresenta una metafora a sé, in cui dominio, ubbidienza, conflitti, trasgressione e rifiuto si intersecano tra loro, in un gioco semplice, ma allo stesso tempo, di notevole sottile complessità.


La fortezza, con le sue trasversali strutture, con le diverse case delle concubine, con il rito delle sinistre lanterne simbolo di sottomissione e di dominio, è una prigione infernale, isolata dal resto del mondo. E nel momento in cui si trasgredisce la regola dell’isolamento, viene messo in discussione tutto l’impianto dispotico e si va incontro a fine certa. Le presenze preponderanti del rosso infernale delle lanterne in estate, e, in inverno, del bianco luttuoso della neve, messaggero simbolico di morte, creano un contrasto violento, ma anche una sorta di continuità, in cui l'autunno fa da sterile mediatore.


I personaggi maschili in questo mondo sono più che altro relegati ai margini. Il volto del padrone è appena intuibile, ma la sua voce è chiara, netta, inequivocabile, recita una parte, l’unica possibile: la voce di un dio inesorabile, ma impersonale, tutt’altro che insostituibile; l’intendente è solo una marionetta che ripete un copione scritto da altri; il portatore delle lampade è una sorta di automa, privato di ogni discernimento; il dott. Gau è un opportunista, un uomo privo di qualità e senza spessore.

Sono invece le donne a condurre il gioco, ma ad essere contemporaneamente le guardiane alienate della tradizione che le ha rese schiave.


“Lanterne Rosse” è la rappresentazione dell’immutabilità del potere, che resta sostanzialmente lo stesso attraverso i secoli e i millenni (la famiglia Chen). Da qui anche l’immutabilità del tempo, che scorre in senso circolare.

Tuttavia, non è solo una metafora della sottomissione delle donne al patriarcato nella tradizione cinese, è un la parabola sul dominio tout court, di come venga costruita un’architettura totalitaria, quali ne siano i meccanismi che agiscono spontaneamente con coazione a ripetere una volta avviati. È quindi del tutto comprensibile l’ostracismo della censura di regime.


La torsione autoritaria è propria di ogni potere rigidamente gerarchizzato. Ed è questo che viene messo teatralmente in scena con “Lanterne Rosse”. 

La ricerca ossessiva del privilegio delle notti col padrone è solo un pretesto del tutto simbolico per poter accedere alle decisioni riguardanti l’amministrazione della casa. Le signore, ognuna seguendo una propria strategia, è questo che vogliono. Poi, che questo sia il riflesso del potere maschile, non ne è che la conferma.


È comunque indicativo che la scelta di Zhang Yimou ricada su una storia di oppressione della sfera femminile, perché è il modo migliore per rappresentare le dinamiche di oppressione su più larga scala.

La struttura che regge tutto questo, nella sua folle ossessione, è perfettamente razionale, in quanto risponde a uno schema entrato a far parte del senso comune: le regole della tradizione della famiglia Chen sono da questo accettate e non possono essere messe in discussione.

Chi trasgredisce rischia di essere condannato a morire, non sempre è sufficiente “l’autocritica”, chi, invece, mostra comportamenti non conformi o anche solo in dissonanza con le regole, viene indotto alla follia.


Si faccia particolare attenzione al commento sonoro, spesso ripetitivo e ossessivo, ma anche a tratti molto piacevole, ipnotico. Il ritmo accompagna anche l'accensione e lo spegnimento delle lanterne, imprimendogli un ordine ben preciso e costante, che risponde all’equilibrio garante del ruolo di ogni persona e di tutte le cose. È, insomma, un universo concentrazionario regolato da semplici meccanismi e obblighi, senza i quali l’universo stesso crollerebbe.

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