venerdì 16 agosto 2024

Ignazio Silone, “Fontamara” (1930 - 1958)

 


Classici


Ignazio Silone, “Fontamara” (1930 - 1958)


«A chi sale a Fontamara dal piano del Fucino il villaggio appare disposto sul fianco della montagna grigia, brulla e arida come su una gradinata. Dal piano sono ben visibili le porte e le finestre della maggior parte delle case: un centinaio di casucce quasi tutte ad un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d’ogni sorta.

La maggior parte di quelle catapecchie non hanno che un’apertura che serve da porta, da finestra e da camino. Nell’interno, per lo più senza pavimento, con i muri a secco, abitano, dormono, mangiano, procreano, talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini.»


«Il primo di giugno dell’anno scorso Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il quattro di giugno, Fontamara continuò a rimanere senza illuminazione elettrica. Così nei giorni seguenti e nei mesi seguenti, finché Fontamara si riabituò al regime del chiaro di luna. Per arrivare dal chiaro di luna alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un centinaio di anni, attraverso l’olio di oliva e il petrolio. Per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera.»


«I tratturi sono sempre stati di tutti. Dalle nostre montagne fino alle Puglie, sono sempre stati di tutti. Nel mese di maggio, dopo la fiera di Foggia, un interminabile fiume di pecore vengono ogni anno a passare l’estate sulle nostre montagne, fino a ottobre. Cristo non era ancora nato e si racconta che le cose andavano già in questo modo. Dopo sono successi tanti avvenimenti, guerre, invasioni, combattimenti di papi e di re, ma i tratturi sono sempre rimasti di tutti.»


Ho sempre avuto l’impressione che Ignazio Silone sia stato uno scrittore assai sottovalutato, famoso e celebrato quanto volete, ma tutto sommato escluso dal “gotha” della letteratura italiana. Ciò deriva probabilmente dalla non agevole collocazione della sua produzione. Il suo stile, infatti, trascende i generi. 


Il nocciolo della questione stava però nella sua scarsa riducibilità alle ideologie che andavano per la maggiore. Silone era cristiano, eretico e libertario, non solo antifascista. Questo è un mix che ha creato e crea problemi da sempre, si sa. Pasolini docet. Tuttavia, è riuscito a imporsi lo stesso e a imporre il suo “romanzo abbruzzese”, anche a livello internazionale, sconfiggendo i pregiudizi.


“Fontamara”, prima opera dell’autore, ambientata in un paese immaginario dell’Abruzzo, fu scritta nel 1930 a Davos in Svizzera, mentre Silone era in esilio, in fuga dal fascismo, e apparve per la prima volta a puntate su dei periodici svizzeri tra il 1934 e il 1935, fu tradotto in ventisette lingue diverse, grazie al passaparola di molti altri esuli che in quegli anni si rifugiarono proprio in Svizzera.

Ne furono tratte riduzioni teatrali e radiofoniche e riscosse l’apprezzamento di molti scrittori famosi.


Luigi Russo, nel 1948 su ”Italia Socialista”, lo definì «il poema epico drammatico della plebe meridionale, in cui per la prima volta questa assurge a protagonista di un “storia”, acquista un volto.»

Uscì per la prima volta in italiano a spese di Silone nel 1934, stampato da una piccola tipografia di immigrati a Parigi, per farlo circolare clandestinamente anche in Italia, mentre veniva diffuso e tradotto in tutto il mondo. “Fontamara” è un romanzo sociale che colpisce per la sua originalità, per la freschezza e per il ritmo narrativo.


Durante il secondo conflitto mondiale, fu distribuita un’edizione stampata a Londra nel 1942, sempre in italiano, ai prigionieri di guerra italiani degli angloamericani, piena purtroppo di errori, perché priva della necessaria revisione dell’autore. L’edizione definitiva dopo che ne vennero stampate diverse altre, uscì solo nel 1958 per Mondadori.


Le vicende sono ambientate nella parte nord del lago prosciugato del Fucino. Ignazio Silone nella prefazione scrive che seppe solo successivamente che il nome di Fontamara, a volte con piccole variazioni, apparteneva già ad altri luoghi del Meridione e che i fatti narrati erano simili ad altri già accaduti per davvero, non solo in altri luoghi, ma anche in tempi diversi.


D’altronde, la località di Fontamara somiglia a molti luoghi della Terra, così come i poveri sono uguali dappertutto, anche se ognuno ha caratteristiche a sé stanti e non è uguale a nessun altro. I “cafoni” si capiscono molto più facilmente tra loro, anche se parlano lingue diverse, che non quelli che parlano la stessa lingua, ma appartengono a differenti ceti. L’affinità, però è riferita al gruppo sociale, non ai singoli che conservano tutte le loro peculiarità e giustamente una loro storia individuale.


Stesse casupole, stesse piccole chiese, stessi vicoli, a parte qualche casa di famiglie benestanti, Fontamara era segnata da destini immutabili e da ingiustizie sempre uguali a quelle che si verificavano in contesti simili.

Le stagioni si ripetevano uguali, così come le vite, in un eterno ritorno per anni e per secoli e nessuno pensava che qualcosa potesse cambiare.

Ed è proprio qui uno dei punti di forza fondamentali del romanzo: il senso di estraniamento, di separazione che vivevano i “cafoni” dal resto della società, messo in risalto soprattutto dai dialoghi.


È quasi impossibile salire i gradini della scala sociale, accade solo raramente e in maniera assai precaria, tutt’altro che stabile, con il rischio di precipitare giù, nella condizione precedente.

Ignazio Silone dimostra di conoscere molto bene, perché appresi dall’interno, gli stenti, le speranze, le sofferenze, i conflitti, delle classi più deboli. La fatica a tirare avanti, risparmiare qualche soldo, i debiti che si contraggono, le illusioni. Lo scrittore è uno di loro, perché viene da lì, da quella condizione sociale, da quei luoghi.


Quelle terre appartenevano ai principi di Torlonia, o Torlognes come si chiamavano originariamente. Si erano arricchiti speculando, anche sui conflitti, e speculando arrivarono a impadronirsi pure del Fucino.

L’espediente narrativo che Silone usa è quello di mettere in bocca ad una famiglia di contadini: moglie, marito e figlio la narrazione dei fatti contenuti nel romanzo.


A Fontamara iniziò tutto un primo di giugno con la sospensione dell’erogazione della corrente per morosità.

Nonostante che la lingua parlata a Fontamara fosse un’altra, la lingua che apparteneva a quel luogo, e l’italiano era considerata lingua straniera, Silone racconta le vicende in italiano, ma come se le narrasse con una lingua diversa, cioè nella maniera di Fontamara, arricchendola con espressioni direttamente derivate dal dialetto, mutuandole. 


Insomma, si appropria di un’arte antica del raccontare, tradizionalmente legata a quei luoghi, ma rende la narrazione disponibile a tutti. Compie un’azione di recupero linguistico per renderlo fruibile dal popolo, da qualsiasi popolo.

È un'originale operazione linguistica di adattamento dell’italiano alle esigenze della narrazione. Questo è uno dei casi in cui risulta essere un privilegio leggere e comprendere nella lingua originale e ancora di più se si conoscono i dialetti e i modi di dire del contesto locale.


L’atmosfera in cui si svolge la vicenda è assolutamente surreale, ma allo stesso tempo di un realismo ben più che tangibile, si avvale in questo della caratterizzazione estrema dei personaggi e, appunto, del linguaggio così prosaico da risultare assai verosimile, oltreché di situazioni tipiche della cultura di provenienza.


È una storia basata sui conflitti, il primo che emerge è quello tra gli abitanti di Fontamara e quelli del capoluogo, sia con le autorità che con la popolazione. È un conflitto basato sulla reciproca diffidenza, in particolare sulla tendenza degli abitanti del capoluogo a sbeffeggiare quelli del piccolo centro che li vedono come se fossero degli alieni, ricambiati con lo stesso sentimento dagli altri.

Gli abitanti di Fontamara erano oggetto, oltre che dallo schermo da vere e proprie burle.


Tale situazione conflittuale è descritta efficacemente da Silone, che dimostra di conoscere molto bene le dinamiche sociali esistenti in questi più o meno piccoli centri dell'Appennino centro-meridionale. Dinamiche che possono produrre delle vere e proprie “guerre” combattute con armi non convenzionali, ma non per questo meno cruente, con la creazione di fratture difficilmente sanabili a livello sociale.


Il secondo conflitto è quello col potere istituzionale e con quello economico. Quello tradizionale dei signori, a cui i “cafoni” sono abituati da sempre, e quello più feroce col podestà, che minaccia anche il potere più vecchio. 

È proprio qui che emerge l’affinità col “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, ma, a mio parere, superandolo nella capacità di leggere ancora più in profondità le dinamiche di potere e di sottomissione. 


L’arrivo del podestà, però, non è l’unica novità portata dal “nuovo governo”, di cui i fontamaresi non sanno nulla e non conoscono le origini, ci sono anche, varie proibizioni, come quella di parlare di politica, l’obbligo di tessera per lavorare e il coprifuoco, elementi di estrema attualità per chi ha vissuto lo stato di eccezione degli ultimi anni.


Il conflitto inizia grazie alle donne di Fontamara, che vanno nel capoluogo a protestare per la deviazione di un corso d'acqua.

Da notare, quindi, l'evidente superamento da parte di Silone dei ruoli tradizionali, nonostante il fatto che le donne all'epoca dovessero badare alla casa, ma appunto per questo la devozione alla protezione dell'integrità domestica non impediva di far sentire la loro voce, mettendo da parte ogni timidezza.

Qui si innesta la tematica centrale del romanzo, quella degli interessi che girano intorno alla piana del Fucino, primario bene dei “cafoni”, l’amata terra.


Una galleria di personaggi pittoreschi e caricaturali popolano le pagine del romanzo: il podestà conosciuto solo come l'Impresario; l’ex sindaco don Circostanza, un azzeccagarbugli cialtrone che si definisce “Amico del Popolo”; il canonico don Abbacchio, con non poche affinità col quasi omonimo personaggio manzoniano; il possidente don Carlo Magna; e il cursore del comune Innocenzo La Legge.


Una delle figure più interessanti tratteggiata da Silone è quella di Berardo Viola, in sostanza il protagonista principale, un giovane uomo di quasi trent'anni, che non riesce ad emigrare, dal temperamento indomabile, e che si rifiuta di trattare coi notabili, preferendo lasciare le parole ai fatti.

La feroce ironia di Ignazio Silone si abbatte come una clava sui notabili del capoluogo e sulle loro prepotenze.


Stessa sorte riserva, con altrettanto sarcasmo, alle illusioni della democrazia e alla dittatura fascista.

Tuttavia, non è solo un romanzo sociale sulla condizione dei contadini, è anche la storia sul rapporto tormentato di amore che questi hanno nei confronti della terra e sulle complesse relazioni umane che si vanno a instaurare in un contesto rurale, e che in molti casi, in certe aree geografiche, sono presenti ancora oggi.

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