mercoledì 11 settembre 2024

Graham Greene, “Una pistola in vendita” (1936)

 


Classici 


Graham Greene, “Una pistola in vendita” (1936)


«Penso a quegli anni fra il 1933 e il 1937 come a un’età di mezzo per la mia generazione, offuscata in Inghilterra dalla Grande Crisi che proietta ombre su questo libro, e dall’ascesa di Hitler. Impossibile a quel tempo non sentirsi coinvolti, e riesce difficile ricordare i particolari della vita privata mentre tutt’intorno a noi si preparava lo smisurato campo di battaglia».

Graham Greene


«Un romanzo che tutti dovrebbero leggere, per il loro bene».

Edwin Muir


Graham Greene fu tra quegli scrittori del XX secolo la cui produzione era al confine tra mainstream e letteratura di genere, e che dimostrò quanto questo confine fosse del tutto astratto e labile di fronte al genio.

Secondo una superficiale e sbrigativa catalogazione, Greene rientrerebbe, infatti, tra gli autori di gialli, di polizieschi e di thriller.


In svariati scritti biografici viene spesso dato risalto a quanto peso abbiano avuto alcune letture giovanili: Stevenson, Kipling, Dickens, Conan Doyle, Edgar Wallace ma soprattutto Henry James e Joseph Conrad, che teneva in conto come maestri. Successivamente a queste determinanti influenze, si affiancò anche quella di T. S. Eliot.

Un misto quindi di letteratura “alta” e di grande letteratura di “genere”.


La narrativa di Greene deve molto però anche al Cinema dal quale fu influenzato e che, a sua volta, influenzò.

Una delle critiche ricorrenti riguardava appunto il fatto che la sua produzione fosse condizionata dall’eccessivo investimento, che lo scrittore riponeva sul possibile potenziale adattamento cinematografico dei suoi romanzi.

Una delle sue attività collaterali, fu infatti, quella di recensore di film su riviste del settore.


Quello che per alcuni poteva essere un difetto, era invece senza dubbio un pregio: arricchendo la sua narrazione di molte sfumature, grazie alla particolare sensibilità che aveva del concetto di movimento. La sua passione per il Cinema gli era servita per apprendere il valore della velocità e dell'azione e di come riuscire a inserirli all'interno di un racconto.

La svolta verso questa direzione fu intrapresa dal “Treno d’Istanbul” in poi, il suo primo vero romanzo importante.


Ciò che lo affascinò maggiormente del Cinema fu la possibilità di gestire “il punto di vista”, una delle caratteristiche che apprezzò molto della narrativa di Henry James. 

La verità per entrambi gli scrittori, non era da rintracciare in ciò che oggettivamente si può vedere, il punto di vista è invece estremamente soggettivo, e l’occhio che narra è quello di chi sta anche dietro alla cinepresa, qualcosa che indaga alla ricerca di ciò che è visibile, ma che è solo intuibile, non sempre verificabile.


Greene è indagatore del male, anche come più vitale rappresentazione di un'epoca, quella degli anni trenta, in cui il male si va diffondendo, attraverso il totalitarismo. La sua interpretazione del male contrapposto al bene, in chiave religiosa, gli deriva dalla conversione al cattolicesimo.

È con questo spirito che nasce “Una pistola in vendita” che ha come protagonista uno spietato assassino, sicario professionista, denominato Raven. Tuttavia, il male più evidente è quello del contesto sociale e politico in cui è ambientato: la pesante crisi economica, i venti di guerra e la speculazione sul traffico di armi dominano la scena.


Come si può facilmente arguire dal titolo questo è un thriller noir, dal quale, a proposito di Cinema, è stato molto liberamente tratto il film “Il fuorilegge”del 1942, per la regia di Frank Tuttle, con Alan Ladd e Veronica Lake.

Il romanzo era stato catalogato dallo stesso autore come genere "entertainment", filone narrativo che sarebbe stato motivato prevalentemente da questioni economico commerciali, per distinguerlo dalla produzione “seria”, impegnata, catalogazione che poi, Greene abbandonò nel corso del tempo, ritenendola per fortuna inadeguata.


Non ha nessun senso pensare a due Greene diversi, e seppure da parte dell’autore le motivazioni potevano essere differenti, lo scrittore era unico e non avrebbe potuto anteporre le sue intenzioni al risultato letterario, che rimase sempre di alta qualità, come appunto avviene anche in questo caso.

Il “Greeneland”, la terra di Greene, concetto non solo legato all’ambientazione fisica, è sempre la stessa: un luogo ostile, cupo, nero, degradato.


Di solo intrattenimento, infatti, non si può parlare. La vicenda è raccontata attraverso le lenti della critica sociale, per dei versi classicamente politiche, rispecchiando le polemiche che all’epoca infuriavano in Inghilterra sui lavori della Royal Commission, in merito al mercato delle armi. Il “punto di vista” di Greene è esplicito ed è di condanna nei confronti dei guerrafondai che soffiavano per attizzare i conflitti e favorire l’industria bellica.


Il fine di Greene era quello di dimostrare che la redenzione può raggiungere sempre chiunque. Il suo, infatti, era un cattolicesimo profondamente umanista, in buona parte eretico, molto prossimo a quello postconciliare futuro. Il Dio dello scrittore inglese quindi agisce pienamente da redentore.

Molto del materiale che gli servì nella sua attività letteraria lo raccolse durante l’esperienza coi Servizi segreti britannici dai quali si dimise nel 1944, lavorando anche a contatto col famoso doppiogiochista Philby, particolare che Greene ignorava.


Ma anche la sua attività nei Servizi la svolse in maniera in qualche modo paradossalmente critica. Sì, al servizio del suo Paese, ma cercando sempre di armonizzarla col rispetto dovuto alle altre nazionalità e agli equilibri internazionali. Questo aspetto è più che evidente proprio in questo romanzo dal taglio “pacifista” e socialisteggiante.


Raven è un criminale cinico e spietato, che cerca di essere però amorevole con la sua gattina e tenero con la donna amata, lo fa con ruvidezza, perché non conosce altra modalità con cui comunicare. I suoi sentimenti sono autentici.

Viene da buona parte della gente però ricambiato col disprezzo. È il suo aspetto, nonostante tutto, che gli attira avversione, a cominciare dal labbro leporino.

Eppure, il vero cattivo non è lui, ma i suoi mandanti ed è ovvio che ad un certo punto si verifichi un graduale ma deciso capovolgimento del punto di vista, in cui il lettore si sente chiamato a partecipare.


La forma è quella del thriller, con una trama assai avvincente, ma il libro è senza alcun dubbio anche un romanzo sociale, tanto è radicato in un ambiente di crudo realismo, con sullo sfondo la minaccia bellica, che già negli anni trenta, influenzava la vita quotidiana e culturale delle persone.

La cittadina di Nottwich è un'invenzione letteraria, ma è ricalcata su luoghi reali delle Midlands, molto simile a Nottingham. L’esistenza di Raven si intreccia soprattutto con quella di altre tre persone: il poliziotto Jimmy Mather, la sua donna Anne Crowder e il viscido Cholmondeley.

 

Sir Basil Zaharoff era un potente mercante di armi dell’epoca e Greene in un’introduzione al libro, ci tenne a specificare che il personaggio di Sir Marcus non era Sir Basil, «ma la rassomiglianza è evidente».


«Il negozio si trovava in una stradina laterale, di fronte a un teatro. Era una piccola libreria, di un unico locale, dove non si trovava niente di più intellettuale di «Film Fun» e «Breezy Stories». C’erano cartoline di Parigi in buste chiuse, riviste americane e francesi, tascabili sadomaso al prezzo di venti scellini, per i quali il giovinastro foruncoloso che stava in negozio, o sua sorella che a volte lo sostituiva, ne rimborsavano quindici se li riportavi indietro.

Fare un appostamento da quelle parti non era facile. All’angolo, una poliziotta teneva d’occhio le puttane e di fronte c’era soltanto il lungo muro cieco del teatro, con l’ingresso della galleria.»


«Quei pensieri erano più freddi e sgradevoli della bufera. Non era abituato a un sapore che non fosse amaro sulla lingua. Era stato impastato con l’odio; l’odio lo aveva plasmato in quella esile scura sagoma di assassino sotto la pioggia, braccata e brutta. Sua madre lo aveva dato alla luce mentre suo padre era in prigione, e sei anni dopo, quando suo padre era stato impiccato per un altro delitto, si era tagliata la gola con un coltello da cucina. E dopo, l’orfanotrofio. Non aveva mai provato la minima tenerezza per nessuno. Era stato plasmato in quella immagine e ne andava, a suo modo, fiero. Non voleva essere disfatto. D’improvviso lo colpì con terribile certezza l’idea che, se voleva salvarsi, ora più che mai doveva essere se stesso. Non è con la tenerezza che si diventa svelti a estrarre la pistola.»

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