venerdì 27 settembre 2024

Mo Yan, “Sorgo Rosso” (1988)

 


Classici 


Mo Yan, “Sorgo Rosso” (1988)


«Nel corso di quest'anno si è verificato uno straordinario fenomeno astronomico: una cometa si è scontrata con il pianeta Giove. Mentre gli uomini politici continuano a lottare per il potere e per il profitto, sulla terra le persone sensibili si sono rese conto che i confini tra Stati e le controversie tra nazionalità non sono altro che limiti tracciati dall'uomo e idiozie. Su questo piccolo corpo celeste gli uomini sono fratelli, dovrebbero stringersi la mano e intonare un canto di pace; apprezzare il miracolo della vita, far tesoro di ogni cosa e insieme far fronte a tutte quelle calamità che non cadono dal cielo. Questo è mille volte più importante, mille volte più nobile e grande dell'impedire a uno scrittore di recarsi all'estero e di qualunque altra contesa.»

Mo Yan (1994)


«Nella zona di Gaomi prosperava il seme del banditismo. Il governo produceva banditi, la povertà produceva banditi, l'adulterio e il sesso producevano banditi, e i banditi stessi producevano altri banditi.»


Calarsi nello spirito e nel contesto di questo romanzo non è affatto facile per un occidentale. È necessario in qualche modo cercare di decodificare e comprendere le radici della cultura e della tradizione cinese, riuscire a capire le parabola storica che nel ventesimo secolo, ha condotto la Cina verso grandi e sconvolgenti mutamenti.


“Sorgo rosso” è un romanzo storico sociale a base autobiografica, reso celebre dall'affascinante adattamento cinematografico di Zhang Yimou, che è limitato ai suoi primi due libri.

Mo Yan (che significa “colui che non vuole parlare”) è lo pseudonimo di Guan Moye, scrittore e saggista cinese, ideatore di questa sorta di epopea romantica e crudele, quasi un poema epico, che è anche una saga familiare, ambientata nel mondo contadino a partire all’incirca dagli anni venti, per passare al periodo dell’invasione giapponese e, poi, della Rivoluzione culturale.


Ma il momento centrale della storia è quello attorno al 1939.

Il racconto, tuttavia, va continuamente avanti e indietro nel tempo, e il concatenarsi preciso degli eventi non è così fondamentale, in quanto tutta la narrazione è avvolta in un alone fiabesco. Il tempo sfuma in una dimensione indistinta, dove il prima e il dopo non hanno molta importanza e la storia va percepita nella sua interezza, quasi seguisse una linea circolare, a incominciare da Gaomi, il luogo fantastico in cui è ambientato.


Il libro ha anche il classico incedere del romanzo corale con una discreta folla di personaggi. Si potrebbe, anzi, ancora meglio definire romanzo “totale”, vista la narrazione piena di molteplici influenze e generi diversi, che spesso si muove ben oltre il mondo reale. La dimensione onirica e fantastica ha infatti un ruolo tutt’altro che marginale, creando e riproducendo intense suggestioni narrative, dai molteplici colori che sfumano nella nebbia dagli odori intensi, nella magica descrizione della pesca dei granchi, nell'incantevole volo delle colombe che accompagnano un’anima diretta verso il cielo.


L’opera originariamente uscì a puntate nel 1986: “Sorgo rosso”, “Vino di Sorgo”, “Le vie dei cani”, “Il funerale del sorgo” e “Pelli di cane”. I cinque libri furono poi riuniti in un unico romanzo, pubblicato l’anno dopo.

È il colore rosso che domina in questo mondo: il rosso del sorgo autunnale, quello del sangue, del velo delle donne, delle tende, delle pesche, del sole e delle nubi al tramonto, persino del suono delle trombe. “Sorgo rosso” è un romanzo visionario oltre ogni dire.


Il racconto è ispirato a diverse leggende che appartengono al villaggio d’origine di Mo Yan. L’attraversamento di questo territorio carico di sapori e suggestioni, verso lo scontro aperto coi giapponesi, costituisce lo scenario dell’inizio della vicenda, in cui il drappello, una sorta di compagnia di sbandati, composta anche di sordi, muti e zoppi, avanza senza posa. È uno dei tanti gruppi di banditi che scorrazzavano nelle campagne cinesi dell’epoca, espressione spontanea di una forma di rivolta al sistema dominante e all'invasione giapponese.


È un romanzo caratterizzato da uno stile poetico davvero molto intenso, come nel capitolo in cui si alternano, in piani temporali diversi, la scoperta del sesso, e la morte della stessa persona, quasi a volerli fondere.

La voce narrante potrebbe essere quella dello stesso scrittore che parte a raccontare la storia del padre Douguan, quando era quasi quindicenne, di sua nonna Dai Fenglian e di suo nonno, il comandante Yu Zhan’ao, un bandito a capo di un drappello di quaranta uomini. È la storia della madre del narratore, Qing’er, del giovane zio e dei nonni materni, e di Lian’er, la “seconda nonna” paterna. Ma è anche la storia dei briganti Occhio Nero e Colle Macchiato, e del capo distretto Cao Menjiu, Giudice Imparziale.


Il vero protagonista del romanzo è però il nonno Yu Zhan’ao, una sorta di lupo solitario e di romantico anarchico sui generis, che conduce la sua lotta di resistenza ai giapponesi, al governo e alle avversità, estraneo e per dei versi ostile al partito nazionalista e a quello comunista, a capo della “Società del Ferro”, un esercito di banditi e sbandati. Tuttavia, crede che la Cina abbia sempre avuto bisogno di un imperatore e viene spinto a seguire il suo delirante sogno di potere. Un misero sogno di un uomo ambiguo e violento, ma pieno di umanità, un'umanità degradata, ma viva e onorevole. L'immagine stessa della contraddizione.


Il racconto della madre e dello zio Anzi, chiusi in un pozzo, è uno dei punti più alti di tutto il romanzo. Il mondo è descritto attraverso gli occhi, le orecchie e le percezioni della madre, mentre osserva la bocca del pozzo, dalla quale si alternano la luce del giorno, il buio della notte, i colori e le luci della battaglia e dei fuochi, i rumori e le urla; e poi, in basso, le figure mostruose e allucinate che abitano l’angusto luogo, nell’attesa ansiosa della salvezza, mentre stringe a sé il suo fratellino.


Le pagine che descrivono la battaglia contro i cani, diventati selvaggi a causa della guerra, ridotti a branchi di zombie affamati di cadaveri, e con giovani ragazzi che non sono certo meglio di loro, che si costringono ad ucciderli, sono tra le più tristi e desolate di tutto il romanzo, con un epilogo terribile e ancora più triste. La guerra distrugge qualsiasi cosa anche il legame d’amore e di fedeltà tra uomini e cani.


È un contesto marcatamente rurale quello in cui è ambientato il romanzo, a cui fanno da cornice le sconfinate distese di sorgo, perennemente presenti e ricorrenti nel corso di tutto il racconto, che definiscono un intero universo. I protagonisti, oltre alla famiglia del narratore, sono soprattutto dei contadini. È infatti proprio al recupero del mondo contadino e delle sue tradizioni che Mo Yan, premio Nobel 2012, è attivamente impegnato come scrittore, facendo parte di quel movimento letterario della “ricerca delle radici”.


Pur essendo personaggio controverso, contestato dai dissidenti del suo paese, per la sua vicinanza al Partito Comunista Cinese, non si può certo negare il suo notevole valore letterario, soprattutto grazie proprio a questo romanzo, tutt’altro che apologetico. Anzi, la cosa da apprezzare, senza alcun dubbio, della narrativa di Mo Yan, è proprio quella di rifuggire lo stereotipo, non ultimo quello ideologico, anche inserendo non pochi elementi di critica sociale al nuovo regime e di disprezzo per gli eserciti.

La storia di Geng Diciotto Baionettate è in questo senso assolutamente paradigmatica.


Questa sua simpatia è comunque assai sorprendente considerata la dichiarazione che ho citato in testa alla recensione. Ma, si sa, le scelte ideologiche degli individui seguono a volte strade e criteri imponderabili, non sempre dovuti a opportunismi, o quantomeno non facilmente decifrabili e semplificabili.

E “Sorgo rosso”, la sua opera più famosa, è uno sbalorditivo capolavoro.


L’amore per il mondo contadino e quello per gli ultimi è la cosa che si rintraccia in maniera più che palpabile nel mondo di Mo Yan. La caratterizzazione dei singoli personaggi è particolarmente accurata, rendendo la loro unicità come qualità da preservare, alla quale non rinunciare per nessun motivo.

La sua è una prosa estremamente descrittiva, che adopera un linguaggio molto ricco e complesso, pieno di sfumature e soprattutto di metafore, l’esatto opposto di quello che è alla base degli slogan politici che, in quel periodo, iniziarono ad avere tanta fortuna e tanta diffusione. 


Mo Yan non si risparmia certo in scene di violenza, una violenza primordiale con particolari macabri, esercitata senza scrupoli dall'occupazione giapponese e dai loro cinici collaborazionisti, reclutati tra gli stessi cinesi. Ma anche dalle varie fazioni in guerra che spesso e volentieri si combattono tra loro.

Il fatto che in questo contesto così arido e crudele si riescano a trovare anche atti di pietà, solidarietà e misericordia è per lo meno assai sorprendente, ma è quel miracolo che avviene anche nelle peggiori situazioni, dove l'umano è messo a dura prova, quando riesce, in un modo o in un altro, ad emergere comunque lo stesso.


«Quando la portantina nuziale arrivò qui, un lampo rosso sangue fece tremare il cielo a nordest, un barbaglio di sole color giallo albicocca si riflesse muto sulla terra attraverso le dense nubi. I portatori avevano il fiato grosso ed erano madidi di sudore.

Giunti alla Fossa dei Rospi, il cielo si oscurò; il sorgo riluceva nero e impenetrabile lungo la strada quasi sommersa dai fiori e dalle erbacce.

Innumerevoli fiordalisi spuntavano alti tra le erbacce con i loro steli sottili, schiudendo fiori color porpora, blu, rosa e bianco. Dal folto del sorgo giungeva il gracidare melanconico dei rospi, il canto noioso delle cavallette e il lungo lamento delle volpi.»


«Questo senso del mistero vive nella memoria degli anziani del mio villaggio; scorre lento, come un fluido dolce, denso e rosso, che un giorno germoglierà, crescerà, si rafforzerà, tramutandosi in una potente arma di pensiero con la quale sarà possibile affrontare il mondo sconosciuto. Ogni volta che ritorno al mio villaggio, questa forza misteriosa mi arriva dagli occhi ebbri dei vecchi. Allora l'abitudine alla riflessione logica mi spinge, mio malgrado, nel vortice del confronto. E riflettendo, scopro con orrore che quei begli occhi, divenuti a me familiari nei dieci anni vissuti lontano dal mio villaggio, li avevo già visti nelle teste dei delicati e graziosi conigli. La bramosia aveva reso quegli occhi rossi, lacrimosi, e picchiettati di nero, come i frutti del biancospino. Credo che attraverso il confronto si possa provare l'esistenza di due diverse tipologie umane. Ogni uomo, a suo modo progredisce e avanza verso un mondo ideale che è definito dal suo sistema di valori. Io temo che i miei occhi mandino la stessa luce intelligente e attenta che hanno gli occhi dei conigli; temo di ripetere ciò che altri hanno copiato da libri di altri ancora e temo infine di diventare parte di una -Selezione del libro di successo.»

Nessun commento:

Posta un commento

Ogni commento, prima di essere pubblicato, verrà sottoposto ad autorizzazione. Grazie

Fëdor Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo” (1864)

Classici Fëdor Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo” (1864) «Sia l’autore delle memorie che le «Memorie» stesse sono, ovviamente, immaginari...