mercoledì 4 settembre 2024

Patricia Highsmith, “Vicolo cieco” (1956)


 Classici


Patricia Highsmith

“Vicolo cieco” (1956)


«Cominciò a camminare verso la strada. Alla luce giallastra dei lampioni, si guardò intorno in cerca di macchie di sangue, e non ne vide, se non sulle mani. Se le sfregò l’una contro l’altra, distrattamente, sempre camminando, ma riuscì solo a farle diventare più appiccicose e disgustose. Non vedeva l’ora di lavarsele. Non gli piaceva l’idea di toccare il volante prima di lavarsi le mani, e immaginò con meticolosa precisione i gesti che avrebbe fatto appena arrivato a casa, per bagnare lo straccio nel lavandino e pulire l’intera superficie del volante. L’avrebbe addirittura strofinato.»


«Quella notte, addormentato nel suo studio, Walter sognò di andare a far visita a Melchior Kimmel nella sua libreria: Kimmel, nel sogno, era uno degli atlanti seminudi di pietra grigia che sostenevano la lunga architrave del negozio. Walter lo riconobbe immediatamente e cominciò a parlargli, ma Melchior Kimmel fece una risata, scuotendo la pancia di pietra, e rifiutò di rispondere a qualunque domanda Walter gli rivolgesse.»


«Che cosa succedeva a quelli come lui?

Diventavano numeri viventi, pensò Walter. Come si era sentito tante volte, ritto con un bicchiere in mano in qualche giardino di Benedict, con Clara, a chiedersi che cosa ci facesse lì, e cosa gli sarebbe successo. E perché. Senza mai trovare una risposta.

Guardò Jeff accovacciato nella poltrona. Ti amo, Clara, pensò. Era vero? Gli uomini-numero avevano la capacità di amare? No, certo che no. Come poteva amare, un numero? Niente aveva più senso. Desiderò che Clara fosse accanto a lui. Era l’unico desiderio vero che avesse, ed era del tutto insensato.»


Graham Greene l'aveva definita "poetessa dell'angoscia". Definizione assai appropriata. Infatti tra le pagine della Highsmith è più che palpabile un profondo senso di angoscia, e, aggiungerei, di disperazione.

E' stata una delle scrittrici americane più importanti del novecento, anche se non sufficientemente apprezzata. La sua narrativa è a metà strada tra il thriller, il noir, l'introspezione psicologica e la speculazione esistenziale.


Per lei il genere era solo un pretesto e non si fermava assolutamente alla sua autoreferenzialità. Andava oltre, amando soprattutto scandagliare, con occhio distaccato e cinico, l'animo dei suoi personaggi.

"Vicolo cieco" l'ho letto molti anni fa, ma è uno di quei romanzi che resta indelebile nella memoria. Lo definirei, senza timore, una vera e propria rivelazione. E così ho deciso di concedergli una rilettura. 


La violenza, in fin dei conti, è un atto banale. È una delle misure del male. La Highsmith lo sapeva, e il suo indugiare nella descrizione degli atti di violenza non era fine a se stesso, era volto alla ricerca del significato ultimo dell’esistenza. Sembrava come se fosse convinta che la meccanica dei gesti, anche degli atti più efferati, nascondesse altro, ben oltre le apparenze. E ciò non è limitato solo al crudele assassinio, ma anche alla violenza inquisitoriale della tortura poliziesca.

Perché c'è un terrore più grande di tutti, un terrore organizzato. Il terrore dell'autorità.


Nel corso della lettura si è catturati dalla stessa tela che la scrittrice tesse e nella quale rimane impigliato il protagonista. Il processo di identificazione è così intenso ed è difficile poter sfuggire al senso di paranoia che coglie Walter Stackhouse.

Questo romanzo è una stupefacente versione, riveduta e corretta del grande capolavoro di Kafka, "Il processo", fatte ovviamente le dovute proporzioni, e le enormi differenze di contesto e di trama.


Tuttavia, dove nell'opera dello scrittore praghese la colpa, in senso oggettivo, era inesistente o per lo meno non palese, qui il senso di colpa nasce invece da un'intenzione chiara da parte del protagonista di compiere il crimine. L'aspetto più interessante della storia è determinato dal piano di coinvolgimento paradossale in cui Stackhouse resta implicato. 


Ma più che dall'iniquo e assurdo meccanismo giudiziario, che ne "Il processo" assume soprattutto un aspetto quasi metafisico, il protagonista di "Vicolo Cieco" viene reso vittima dal suo stesso senso di colpa, che lo porta a precipitare sempre più in un fatale vortice, aiutato in questo dall'ottusa rigidità del procedimento investigativo.


Il senso di colpa è anche uno degli elementi che determinano la condanna di Josef K., ma nell'opera kafkiana tutto passa in secondo piano rispetto all'impossibilità di ostacolare il mostro tentacolare che schiaccia l'individuo. Mostro che si identifica col potere giudiziario, che è però anch'esso pretesto per una metafora sui fili del destino umano tessuti dal "ragno" del fato, nei quali l'individuo - "mosca", dibattendosi, non fa altro che contribuire a rimanere ulteriormente invischiato.


La preoccupazione della Highsmith sembra, però, essere soprattutto quella di mostrare quanto alcuni meccanismi psicologici, tipici del senso di colpa, portino poi all'esasperazione di certe situazioni, che appaiono come temute e che, al contrario, sono intimamente desiderate, come la condanna di se stessi da parte dell'autorità o di qualcuno che si sostituisce ad essa, che assume il carattere di strumento di espiazione e conseguentemente di liberazione dal peso intollerabile della colpa, mediante l’attivazione di dinamiche di autodistruttività.


In più costruisce il geniale espediente di un alter ego di Stackhouse, quel Kimmel consumato assassino, che per il protagonista assume le vesti di un'ossessione, ossessione che si può nutrire solo per la parte più nera della propria coscienza.

Il romanzo è scritto con notevole abilità, con appropriato uso degli strumenti del linguaggio, lo stile è fluido e chiaro, la narrazione, che cattura il lettore fino all'epilogo, trova magistrale equilibrio tra colpi di scena e progressivo, perverso senso di ineluttabilità.


Un presentimento di pericolo crescente si avverte nello scorrere delle pagine. La percezione di soffocamento coglie anche il lettore, che non può fare a meno di identificarsi con Walter, così come sono vividi l’atmosfera di paranoia e persecuzione che pervade la vicenda, e intenso il morboso accanimento poliziesco di Lawrence Corby, tenente della squadra omicidi di Philadelphia.


La scrittrice narra di due percorsi di coppia paralleli, analizzandone le dinamiche relazionali, che paiono così distanti, ma che sono molto più vicini di quanto appaia e che a un certo punto finiranno per intrecciarsi.

Il romanzo è ambientato in buona parte in un contesto quasi idilliaco, in un immaginario villaggio di Long Island, ma il raggio d’azione della storia è più vasto, coinvolgendo parte del nord est degli USA un’area che comprende Newark, New York e la Pennsylvania.

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