giovedì 27 giugno 2024

“Il Casanova di Federico Fellini” (1976)

 


Cinema - Cult Movie 


In memoria di Donald Sutherland 


“Il Casanova di Federico Fellini” (1976)


regia di Federico Fellini 

con Donald Sutherland, Tina Aumont, Carmen Scarpitta, Olimpia Carlisi, Cicely Browne, Daniela Gatti, Leda Lojodice, Sandy Allen, Margareth Clémenti, Chesty Morgan.


«(...) Ho scelto per interpretarlo Donald Sutherland, un attore dalla faccia cancellata, vaga, acquatica, che fa venire in mente Venezia. Con quegli occhi celestini da neonato, Sutherland esprime bene l'idea di un Casanova incapace di riconoscere il valore delle cose e che esiste soltanto nelle immagini di sé riflesse nelle varie circostanze»

Federico Fellini


«Posso solo dirle che le prime 5 settimane sono state le peggiori della mia vita e che nei 12 mesi successivi mi sono posto tutte le domande che un attore e un uomo dovrebbe farsi nella vita. La mia relazione con Federico era molto problematica e lo è stata a lungo, poi improvvisamente intorno alla quinta settimana di riprese come per magia tutto ha cominciato a funzionare. Lui si sedeva sulle mie ginocchia, mi chiedeva cose impossibili e io le facevo, come stregato.»

Donald Sutherland 


«Il Casanova non è un romanzo cinematografico, non ha progressione logica né veri nessi narrativi. I raccordi fra i nove o dieci capitoli sono rapidi e precari, ricordano le didascalie nei comics. Il gran circo di Fellini non è lontano dall’avanguardia, come hanno ben capito i cineasti americani dell’underground fin dai tempi di 8 ½. Nonostante i miliardi spesi con prodigalità, non ci troviamo dalle parti di quella che Flaubert chiamava “l’arte industriale”; siamo più vicini al “privatismo” sfacciato di un Andy Warhol.»

Tullio Kezich 


«Esercitiamo un totale potere sulle donne... È un'autentica tirannia che noi siamo stati capaci di far accettare solo perché esse sono più buone, più ragionevoli, più generose dell'uomo. Tali qualità che avrebbero dovuto dar loro la superiorità su di noi le hanno invece messe alla nostra mercé... Perché gli uomini sono di fatto cento volte più irragionevoli, più crudeli, violenti, più inclini per natura ad opprimere.»


«Ma chi non parla mai male delle donne non le ama: perché per capirle ed amarle devi soffrire per loro colpa. Allora e solo allora puoi trovare la felicità sulle labbra della tua diletta.»


Qualche recensione fa, a proposito del Napoleon di Ridley Scott, “disquisivo” di biopic e di quanto assurdo fosse pretendere il rigore storico da opere del genere, così come lo scrivevo riferendomi a Milos Forman e al suo “Amadeus”. Ma a ben vedere, Federico Fellini era già andato oltre diversi anni prima con “Casanova”, rendendo ridicola qualsiasi obiezione sulla credibilità storico-biografica. Questo rapporto tra l’immaginazione e la verosimiglianza nelle ricostruzioni storiche, torna di frequente, generando sempre polemiche del tutto inutili. 


Diverso è invece il caso in cui si fa un’operazione ideologica o propagandistica spacciandola come verosimile. Allora è giusto criticarne i fondamenti.

“Il Casanova di Federico Fellini” si trova infatti in un territorio completamente liberato da qualsiasi vincolo di attendibilità, pur riuscendo a mantenersi in una zona di confine in cui non viene mai superata la soglia della sospensione dell’incredulità. Viene resa un'immagine del settecento veneziano ed europeo funzionale alla narrazione felliniana. 


È una ricostruzione che in qualche modo collega il Casanova felliniano al coevo “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick, ma in senso contrario: fantasiosa ricostruzione, nel primo, rigorosa ambientazione, nel secondo. Due logiche diverse, ma funzionali entrambe alle necessità della prospettiva con cui si narra. Due modi opposti di esercitare geniale arbitrio. Kubrick stesso, nell'inseguire ossessivamente una presupposta oggettività, manipola con somma eleganza la realtà storica, con la “biografia” di un uomo mai realmente esistito.


Il film di Fellini ha avuto una lunga e sofferta gestazione, costellata da litigi con produttori e maestranze, caratterizzato da un difficile rapporto del regista col personaggio e col testo da cui è stata tratta la sceneggiatura. Alla sua uscita, infine, è stato accolto negativamente da critica e pubblico. Solo col passare del tempo, in molti ci hanno ripensato e hanno compreso che grande capolavoro fosse.


L’essenza di questo film è racchiusa tutta nei suoi primi venti minuti. Innanzitutto, nella sequenza iniziale del folle carnevale di Venezia, che culmina con l’emergere della testa gigante della dea Luna dal Canal Grande. È questa la chiave interpretativa dell'intera storia: un mondo popolato da maschere carnascialesche, dominato dal fantastico e allusivamente caricaturale. 


Nella scena successiva, abbiamo la ricostruzione di un mare in tempesta fatto di teli di plastica, mentre Casanova aspetta su un isolotto l’arrivo di suor Maddalena, amante dell’ambasciatore: un effetto speciale talmente risibile da apparire geniale, che sottolinea ancora di più il contesto artefatto da fiaba surreale. I venti minuti si concludono infine, con la sequenza grottesca e stracolma di suggestioni visive in cui culmina il rapporto sessuale tra Casanova e la monaca.


Solo su questa stupefacente sequenza si potrebbe scrivere un intero saggio, tante sono le cose che contiene. Dall’uccello meccanico, con carillon incorporato, che come un metronomo scandisce gli atti “amorosi” di Casanova, all’abbigliamento dei due amanti, alla comica danza erotica simile a quella di due marionette disarticolate e dissociate, all’ambasciatore che spia dietro un dipinto raffigurante un pesce, fino all’atto sessuale da automi, misto di estasi e dolore, che sembra non avere più nulla di umano, se non fosse per l'invocazione finale di amore di un Giacomo oramai estenuato, ma di nuovo per un attimo umano.


Sesso, godimento, malattia e morte costituiscono il leitmotiv in cui si muove anche il resto del film, nel quale il grottesco pieno di barocchismi “eccessivi” la fa da padrone. È, in fondo, un’altra prolungata versione del circo di “8½”. Il contesto è unicamente funzionale a se stesso, all’uso dell’estetica come mezzo per veicolare l’immagine dell’incubo e del sogno, della disperazione di Casanova nel tentativo di voler razionalizzare i sentimenti e l’istinto sessuale, per sfuggire alla sua solitudine; con il protagonista stesso trasformato in fenomeno da baraccone. Un cialtrone che vive di menzogne e di contraddizioni.


Gli stessi atti sessuali nel corso di tutto il film sono chiaramente rappresentati come simulati. Il trucco c’è e si vede. Gelida satira nei confronti di un mondo del tutto artificioso. 

È l’esaltazione dell'effimero, del kitsch e dell'ambiguità finalizzata quasi esclusivamente alla cura estetica dei particolari, si veda la geniale sequenza di musica lirica con al centro la mantide religiosa androgina “en travesti” con contorno di castrati, che oggi farebbe quasi di sicuro scandalizzare il neo moralismo reazionario da web. Ma che è priva, all’opposto, di ogni accondiscendenza alle mode woke odierne, così carica di ironia e di sarcasmo.


Oppure la scena onirico-visionaria con al centro il “ventre” della balena di Giona, che celebra la “mona”. E ancora, il malinconico episodio sulla gigantessa lottatrice, persa come Casanova in un mare di solitudine senza fine. 

Fino ad arrivare alla bambola meccanica, un po' l’apice di tutto il film, in cui Giacomo forse gode veramente per la prima volta.

Dosi di grand guignol a volontà, perfino un occhio al “Gargantua e Pantagruele” di Francois Rebelais.


Casanova è Donald Sutherland, doppiato da un grande Gigi Proietti. 

Quanti di noi dopo aver visto questo film, hanno da quel momento in poi, associato il libertino veneziano e la sua immagine alla versione resa da Fellini, e di conseguenza, all’interpretazione di Sutherland? Credo sia inevitabile, al di là di quanto si conosca effettivamente Giacomo Casanova come personaggio storico. 


Fellini ha cambiato l'immaginario collettivo di intere generazioni. La potenza del suo Cinema sta proprio in questo, scava una traccia indelebile in ognuno di noi, lo fa soprattutto con le immagini e con il grande maestro Nino Rota a fare da contrappunto musicale. Per questo Casanova è anche, e forse soprattutto, Federico Fellini, il suo autoironico alter ego.


È comunque sicuramente spettacolo per gli occhi, prima che per la mente, fatto di siparietti a sé stanti, piccoli episodi, aneddoti ripetuti in un teatrino delle marionette, ma ognuno con una sua particolarità, ecco perché è inutile voler seguire la trama o l’evoluzione del personaggio. Non c’è nessuna trama. E anche il prima e il dopo la prigione dei “Piombi” è solo un inganno del regista che vuole far credere ad una vera e propria linea temporale. Ed è per questo che è molto liberamente tratto dalle memorie del libertino (“Storie della mia vita”), pur essendo in qualche modo in sintonia col suo spirito.

martedì 25 giugno 2024

“Il gabinetto del dottor Caligari” (1920) - regia di Robert Wiene

 


Cinema - Cult Movie 


“Il gabinetto del dottor Caligari” (1920)


regia di Robert Wiene

con Werner Krauss, Conrad Veidt, Friedrich Fehér, Lil Dagover, Hans Heinrich von Twardowski


«Dopo il successo di “Caligari” si moltiplicano i tentativi, anche delle piccole case di produzione, di muoversi nella stessa direzione e molte valutazioni retrospettive che, riferendosi a quegli anni parlano di una “psicosi da Caligari” confermano l’ampiezza del fenomeno. Le stesse procedure dell’organizzazione della visione del pubblico si adeguano alla nuova situazione. Si aprono sale cinematografiche”espressioniste” o si ristrutturano in base ai medesimi criteri locali già esistenti. Vengono rivoluzionare, inoltre, le strategie promozionali. Per mesi la grafica delle pubblicità cinematografiche adotta le firme dell’espressionismo - anche quando i film nulla hanno a che vedere con la nuova tendenza.»

Leonardo Quaresima, in “Cinema tedesco: gli anni di Weimar”, da “La storia del Cinema mondiale” di Einaudi 


«Fai un passo avanti. Ora lo si vede per la prima volta: Cesare, il miracoloso, di ventitré anni, da ventitré anni dorme – notte e giorno – senza sosta. Davanti ai vostri occhi Cesare si risveglierà dalla sua rigidità mortale. Fai un passo avanti. Fai un passo avanti.»


«Cesare! Mi senti? Sono io che ti chiamo: io, Caligari, il tuo maestro. Risvegliati per un breve periodo dalla tua notte oscura.

Signore e signori, Cesare ora risponderà a qualsiasi domanda voi vogliate fargli. Cesare conosce ogni segreto. Cesare conosce il passato e può vedere nel futuro. Venite e mettetelo alla prova voi stessi.»


«Ovunque ci sono spiriti... Sono tutti intorno a noi... Mi hanno scacciato dal focolare e dalla casa, da mia moglie e dai miei figli.»


Questo è il film manifesto dell'espressionismo tedesco, probabilmente anche il suo più riuscito. “Il gabinetto del dottor Caligari” è anche l’opera più famosa del regista Robert Wiene e dello sceneggiatore Carl Mayer, due delle personalità di punta del Cinema di quel periodo. Mayer collaborò anche con Murnau. È però corretto aggiungere che la sceneggiatura Mayer la scrisse a quattro mani con lo scrittore boemo Hans Janiwitz. 


Wiene sostituì Fritz Lang, impegnato nelle riprese di un altro film e mise, quindi, la firma a una delle opere più importanti della storia della cinematografia mondiale, che influenzò moltissimo la produzione successiva, basti pensare a molti famosi thriller e a molti film horror. E, quel che è più sorprendente, non ha smesso di farlo ancora oggi.


Nello stesso anno uscì un altro classico dell'espressionismo tedesco: “Der Golem”, diretto da Paul Wegener e Carl Boese, ispirato alla leggenda ebraica del mostro d'argilla, ma ispirato anche al romanzo capolavoro di Gustav Meyrink. Ne parlerò in futuro.


Nell'analizzare “Caligari” non si sa mai da dove iniziare, tanto è colmo di significati, di contenuti e di simbologia. La cosa che però salta subito evidente è la scenografia. La scelta a favore di un contesto assolutamente non realistico è determinante. Lo sfondo disegnato e sghembo, le strutture di cartapesta e di legno creano un effetto allucinato da incubo che condiziona tutta l’atmosfera.


Le forme e le linee oblique riassumono in un unicum il senso estetico di quegli anni, allestimenti molto frequenti allora nelle scenografie dei cabaret e dei teatri e grafica che accompagnava la pubblicità. Così le scritte delle didascalie, che riportano descrizioni e dialoghi, riprendono lo stesso stile, oppure che lampeggiano sovrapponendosi verso la fine del film, il tutto qui però ambisce a produrre un’atmosfera cupa, ossessiva e malata. 


È il trionfo dell’avanguardia visiva, che si sostanzia in una nuova organizzazione dello spazio.

L’espressionismo è la forma d’arte che meglio si adattava all’incubo, al sogno, al genere fantastico, al gotico e all’horror, e molti registi giustamente ne approfittarono.

“Caligari” è la rappresentazione massima di un delirio paranoide. Una nera fiaba gotica. Tanto affascinante, quanto più è delirante. È una fiaba che gioca sul doppio e sul dominio. 


Il film ha una sorprendente carica anticipatoria, condizionata dal contesto storico: è stato girato immediatamente dopo la Grande Guerra e all’inizio della Repubblica di Weimar. 

L’incubo allucinatorio pervade tutta la vicenda, dall’inizio alla fine. E anche il presunto svelamento lascia in sospeso la soluzione del caso. Qual è la realtà? Esiste una realtà?

Non è solo la rappresentazione estetica che è fondamentale, quanto il fatto che questa riesca ad essere l’espressione dei sentimenti interiori.


Tuttavia, la cosa più incredibile è che ha conservato intatta, a più di un secolo di distanza, tutta la potenza evocativa della suggestione. Impressiona ancora come allora, e il merito è dell’intera equipe: regia, scenografia, sceneggiatura, fotografia, recitazione, in un assoluto stato di grazia. E a proposito della recitazione, val la pena sottolineare quanto l’interpretazione degli attori abbia avuto un ruolo importante, e quanto sia ad alto livello qualitativo, anche se era allora nella norma e non costituiva nulla di così eccezionale.


Da un punto di vista estetico e narrativo, soprattutto dopo l’eccellente opera di restauro, “Caligari” anche oggi non necessita di alcuna aggiunta, sia per quanto riguarda gli “effetti speciali”, sia per la scenografia, sia per l’interpretazione, la formula del film muto è senza alcun dubbio quella più adeguata, che ovviamente, per la regia. E ciò è assolutamente sorprendente.

È un miracolo che un film muto del 1920 non sia per niente invecchiato. 


Tuttavia, non deve essere interpretato come un episodio in sé eccezionale, faceva parte di un programma specifico di rinnovamento culturale dell’industria cinematografica, infatti non restò un fenomeno isolato. Non fece altro che inaugurare un periodo di grande fermento artistico, dando inizio a un intero genere cinematografico, che col tempo ha acquistato un valore ben oltre la definizione di genere.


Da sottolineare anche il viraggio per la colorazione della pellicola: con alternanza di rosa, seppia, azzurro e grigio, colori atti a conferire una maggiore suggestione, opportunamente diversificati a secondo del contesto narrato e finalizzato a indicare se ci si trova in un interno o in un esterno, di giorno o di notte. La magnetica colonna sonora, infine, completa il tutto. 

domenica 23 giugno 2024

AA.VV. "Donna, vita, libertà” (2023), a cura di Marjane Satrapi

 


AA.VV. "Donna, vita, libertà” (2023), a cura di Marjane Satrapi 

«L’assassinio di Mahsa Amini ha dato avvio alla prima rivoluzione femminista della storia sostenuta dagli uomini. Nelle prossime pagine vedrete gli episodi che hanno segnato il movimento “Donna, Vita, Libertà”, che è stato in grado di unire persone dentro e fuori l’Iran, e i tanti modi in cui le iraniane e gli iraniani si sono mobilitati, a volte a costo della loro stessa vita.»


«Da quarantaquattro anni, tutte le alte sfere del potere sono occupate da 2500 uomini provenienti da un ristretto numero - al limite dell’incesto - di famiglie del clero… Il numero delle donne autorizzate ad andare all’università è limitatissimo e molti ambiti di studio rimangono proibiti perché giudicati poco femminili.

Le donne non possono lasciare il Paese o farsi operare senza l’autorizzazione di un “maschio”, che sia il padre, il fratello, il marito eccetera…

… Eppure, malgrado tutte queste vergognose limitazioni, ci sono più donne laureate, che uomini, più donne autrici e imprenditrici di prima e un numero sproporzionato di autrici di best seller in Iran e nella diaspora.»


«Anche i radical chic che, negli anni, hanno denigrato il movimento delle donne e la lotta contro l’hijab obbligatorio definendoli capricci della piccola borghesia, ormai capiscono che, se le donne non sono libere e con pari diritti, la libertà e la democrazia non possono essere parte della società.» 


«L’uomo che vuole controllare il tuo corpo, la tua vita, vuole anche controllare cosa pensi e cosa non pensi. È per questo che la questione non si limita al velo… È una lotta per la libertà d’espressione e per i diritti umani!!!»


Per ricordare Mahsa Amini, ragazza iraniana morta il 16 settembre 2022, a causa delle percosse ricevute dalla polizia morale per aver indossato male il velo, a un anno dalla sua morte, viene pubblicato questo volume dalla casa editrice “L’Iconoclaste”, ed è curato da Marjane Satrapi. Esiste quindi un collegamento con l’autrice di “Persepolis” e con le manifestazioni di piazza che da due anni si svolgono in Iran.


La Satrapi e il suo “Persepolis” sono il punto di riferimento di questa operazione editoriale di notevole impatto visivo e contenutistico, perché il volume è una raccolta di fumetti, di racconti e di testi illustrati, che si pone in continuità proprio con la famosa graphic novel di Marjane, che, oltre alla cura editoriale, si limita solo a scrivere la presentazione, qualche testo e a fare qualche disegno, dato che l’artista ha deciso di porre fine alla sua attività di fumettista nel 2004. 


La maggior parte del volume, quindi, ospita gli interventi di altri autori, con la collaborazione in particolare di tre persone, oltre alla Satrapi: Farid Vahid, politologo, esperto di storia dell’Iran, Jean-Pierre Perrin, reporter prima di “Libération” e poi di “Mediapart” e Abbas Milani, storico del dipartimento di Iranian Studies a Stanford.

I disegnatori sono quattro iraniani e tredici tra europei e americani. 


Il protagonismo delle donne in Iran viene da lontano, il movimento di protesta degli ultimi due anni non è una cosa improvvisa, inaspettata, ma è legato a una storia che è lunga millenni, il libro, con i contributi raccolti, racconta anche di quanto sia particolare la cultura persiana e di quanto peso abbia da sempre in un Paese con una storia molto travagliata come l’Iran.

Segue quindi anche un breve profilo di Mahsa Amini che spiega perché questo episodio ha prodotto una così viva reazione; e perché è stato scelto proprio lo slogan “Donna, vita, libertà” che ha poi dato nome all’intero movimento.


Lo slogan viene dalla lotta dei curdi della regione autonoma del Rojava che lo avevano a loro volta preso dal PPK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), partito di opposizione curdo.

I curdi del Rojava avevano creato dieci anni prima un laboratorio di democrazia dove le donne avevano un grande peso, anche formando battaglioni esclusivamente femminili che combattevano contro lo Stato Islamico che le voleva sterminare.


Viene analizzata in ogni strofa la canzone «Barâyeh» di Shervin Hajipour, inno della rivolta. La canzone accenna a diversi temi, tra cui: la violenta disuguaglianza tra sessi; la povertà che colpisce soprattutto i bambini; la repressione brutale; l’inquinamento; la devastazione urbana; i cani maltrattati perché considerati impuri; milioni di afghani rifugiati in Iran, che che non hanno gli stessi diritti degli iraniani; gli edifici costruiti senza tener conto delle norme antisismiche, grazie alla corruzione che favorisce le oligarchie; il carcere inferno di Evin, dove i prigionieri vengono sottoposti a torture e umiliazioni.


Il regime islamista si comporta come l’Inquisizione cattolica ai tempi di Giordano Bruno e di Galileo: pretende l’abiura.

Se vivete in Iran, scordatevi le manifestazioni di protesta autorizzate: sono tutte vietate e le piazze sottoposte a controllo ossessivo. Quindi, bisogna imparare alcune tecniche per riuscire a organizzarsi e per sfuggire alla polizia e ai picchiatori di regime.


Il venerdì nero del 6 ottobre 2022 è stato uno dei giorni peggiori, quando la polizia sparò sui manifestanti che si erano riuniti per protestare contro lo stupro di una ragazza di 15 anni del Belucistan da parte del capo della polizia, ma anche su semplici passanti e sui bambini, uccidendo sessantasei persone e ferendone circa un centinaio. I beluci, sciiti non persiani, vengono discriminati da più di quarant’anni.


L’anima della nuova protesta sono le generazioni più giovani, oltre ovviamente alle donne. È un movimento femminista e di popolo vivo che lotta per la propria liberazione e per quella di tutta la società iraniana, ed è vergognoso che dai movimenti politici occidentali venga pochissima solidarietà per motivi ideologici, subalterni a logiche geopolitiche da tifoserie calcistiche: le opposizioni iraniane non meritano manifestazioni e cortei perché sarebbero eterodirette dai media occidentali, dagli USA e da Israele. 


In Occidente molti movimenti credono alle menzogne della propaganda iraniana e le ripetono a pappagallo, molti hanno paura di passare per islamofobi: “Persepolis” è proibito in molte scuole americane proprio per islamofobia. 

La Satrapi dice nel colloquio finale: «Molti film iraniani che si vedono a Cannes sono concepiti per piacere ai francesi… la collina, un asino, l’esotismo… ma merda! Siamo umani come te! Una giuria di ricchi che assegna premi a film orientali che sembrano poveri. Si chiama buona coscienza.» E io aggiungerei che è anche un misto tra senso di colpa e razzismo.


Khomeini diceva: «Posso mentire su tutto, se lo faccio in nome di Dio.»

La manipolazione delle coscienze tramite l’informazione, infatti, è uno dei punti cardine della Repubblica islamica. La TV diffonde informazioni false, diffama gli oppositori. Il regime crea account troll sui social, crea dal nulla oppositori demagoghi che nessuno conosce, minaccia i membri della diaspora. Cose che, in alcuni casi, vediamo anche da noi, ma che sono enfatizzate ed estremizzate in maniera imparagonabile. Una vera e propria pressione ossessiva che si estende in ogni ambito della vita quotidiana.


Farid Vahid, con l’aiuto di alcuni disegnatori, denuncia le molte condanne alla pena capitale, le studentesse gasate a novembre del 2022, le intercettazioni, le minacce, il controllo orwelliano a cui sono sottoposti i cittadini.

Abbas Milani, Farid Vahid, Perrin e la Satrapi si alternano nel raccontare la storia del Paese: le tre rivoluzioni, la caduta dello scià, la guerra con l’Iraq, l’introduzione della Sharia, come sono ripartiti i poteri politici, cos’è la polizia morale, creata nel 2005 da Ahmadinejad, e cosa sono i terribili e potenti Guardiani della rivoluzione islamica, che rappresentano terrore, corruzione e fanatismo.


Il regime di Khamenei in cambio del sostegno degli oligarchi, li sostiene economicamente e questi godono di privilegi, di assoluta libertà, non devono sottostare alle coercizioni e alla censura imposte dalla legge, mentre la maggioranza dei cittadini diventa sempre più povera e più oppressa. È il classico sistema di scambio mafioso. Il regime ormai si regge solo su di loro e sul terrore, perché il consenso in quarant'anni è quasi del tutto svanito. La debolezza dell’opposizione però è la divisione interna e il fatto che molti dei cervelli migliori sono emigrati.


La differenza di ricchezza tra le regioni, le città e addirittura i quartieri è impressionante, perché è concentrata nelle mani delle classi benestanti.

La censura opera in maniera capillare, ma in modo a dir poco grottesco e ridicolo con tagli e cancellazioni anche su vecchie pellicole.

L’opposizione in Iran è trasversale, coinvolge tutte le classi sociali, credenti e non credenti.


Il compito della diaspora è importante, si occupa di informare l’opinione pubblica occidentale, con molti rischi e scarso successo purtroppo.

Alcuni autori ci rivelano che, dopo quarant'anni di Repubblica islamica, la fede religiosa è purtroppo ai minimi storici. Il regime, quindi, per eterogenesi dei fini ha danneggiato un'intera religione.

Alla lunga il fondamentalismo finisce sempre per fare del male innanzitutto alle proprie religioni di riferimento.


Assai toccante è la parte dedicata alle vittime della repressione dalla morte di Mahsa Amini in poi, tutti giovani o molto giovani. 

Mentre è tra il serio e il faceto la ricostruzione a fumetti della storia e della composizione della diaspora, circa otto milioni di iraniani, sparsi in tutti i continenti, in cui regna molta diffidenza a causa degli infiltrati e degli informatori di regime, che spesso tiene in vero e proprio ostaggio i familiari rimasti in Iran.


Alle donne è vietato partecipare a molti eventi sportivi, anche solo come tifose, ma le sfide al divieto non mancano: travestendosi da uomini, o più recentemente, partecipando senza velo alle gare sportive consentite.

«Vivere da sola, fare jogging, truccarsi, mettersi lo smalto, farsi un piercing, indossare il velo lasciando vedere i capelli, o non indossarlo affatto, lavorare, cantare, flirtare» sono piccoli grandi gesti di disobbedienza da parte delle donne. «Sono gocce che fanno il mare» (proverbio persiano).


Sono molti i dissidenti famosi arrestati e torturati. Nel volume ne vengono presentati alcuni. 

Una delle torture più terribili è quella della cosiddetta “tortura bianca”, denunciata nel 2022 dalle testimonianze di quattordici donne, raccolte dall'avvocatessa Narges, detenuta anche lei, che consiste nel chiudere la prigioniera in una stanza interamente bianca, costringendola a non avere più la percezione del giorno e della notte per spingerla quasi fino alla follia.


Molto istruttivo e divertente è il fumetto posto alla fine del volume che riporta il colloquio tra Perrin, Vahid, Milani e la Satrapi, di cui è autore il disegnatore ebreo Joann Sfar, amico di Marjane da trent'anni, in cui vengono affrontati vari temi: su Iran, Francia, Occidente e sull’emancipazione della donna e di come questa sia oggi centrale per favorire ogni cambiamento sociale. Il popolo iraniano comincia a non avere più paura, è il regime ora ad avere paura.

Il volume si chiude con un messaggio finale di grande speranza che auguro ardentemente agli iraniani di riuscire a realizzare.


sabato 22 giugno 2024

“Barbarella” (1968) - regia di Roger Vadim

 


Cult Movie 

“Barbarella” (1968)


regia di Roger Vadim 

con Jane Fonda, John Phillip Law, Anita Pallenberg, Ugo Tognazzi, Marcel Marceau, David Hemmings, Milo O’Shea.


«Jane non è una superstar come la Bardot o la Loren; è soltanto una brava e diligente giovane professionista…

… È la prima volta che mi sposo senza essere obbligato. Brigitte (Bardot, ndr) l’avevo sposata perché era l’unico modo per vivere con lei, vista l’opposizione dei suoi genitori. Annette (Stroyberg, ndr) perché era la madre di una mia bambina: lo ritenni un dovere. Non così con Catherine (Deneuve, ndr), anche se avevo un figlio. Invece Jane l’ho sposata perché niente mi obbligava a sposarla, tantomeno lei e gliel’ho chiesto come si offre un mazzo di fiori.»

Roger Vadim


«Ho recitato in “Barbarella” con Jane Fonda. Il regista era Roger Vadim. Facevamo una sola ripresa al giorno attorno alle 6,30 di sera. Era così noioso aspettare, probabilmente mi sono data alle droghe per quello. Vadim era divertente. Pensava di essere un ragazzino e si comportava come un ragazzino. Jane Fonda era molto professionale, ha avuto una vita molto tragica.» 

Anita Pallenberg


Non poteva esserci anno simbolicamente più appropriato del ‘68 per l’uscita di “Barbarella”. Una considerevole parte della critica dell'epoca però fu troppo severa nel giudicare il film. Ci furono diverse stroncature. Probabilmente alcuni critici erano scarsamente avvezzi a un particolare tipo di ironia, più propensi a impegnativi esercizi intellettuali. 

Pur essendo potenzialmente un contesto assai favorevole per le produzioni culturali trasgressive, certa intellighenzia non poteva evidentemente tollerare un film fanta-erotico, assai leggero, disimpegnato e politicamente molto scorretto.


Ma ci pensò il tempo a fare giustizia. Divenne infatti un film di culto per molti appassionati. E ancora oggi riesce a divertire assai, è rimasto impresso indelebilmente nell’immaginario di diverse generazioni di amanti della fantascienza.

L’intento di regia e produzione era quello di creare un progetto di assoluta evasione e di divertimento, con una notevole dose di ironia. Non c’era nessun fine intellettuale in chi lo aveva ideato e prodotto, solo uno puramente estetico. 


“Barbarella”, nonostante tutto, ha parecchi pregi, che non sono da ascrivere solamente all’interpretazione supersexy di Jane Fonda, ma anche ad altri fattori, in primis quello scenografico di taglio pop, con un dispendio di colori, effetti speciali, costumi, invenzioni sceniche e meccaniche non indifferenti, che oggi appaiono, sì, molto ingenui e assai datati, ma che ci rimandano a un’immagine abbastanza precisa ed evocativa dell’epoca.


Il film è tratto dal fumetto omonimo dei primi anni sessanta del disegnatore francese Jean-Claude Forest, che però si ispirava alla figura di Brigitte Bardot e che rendeva omaggio a Flash Gordon. A proposito di questo, c’è da segnalare una curiosità. Jane Fonda fu solo una scelta di “ripiego”, perché la parte fu offerta nell’ordine: a Virna Lisi, alla stessa Bardot e a Sophia Loren. 


Tutte rifiutarono per motivi diversi. Anche la Fonda era restia, ma fu invogliata dal regista Roger Vadim, marito dell’epoca. E fu una scelta assai felice che segnò per sempre positivamente la carriera dell’attrice, che veniva già dal grande successo di “A piedi nudi nel parco”, e fu una fortuna anche per il film, che probabilmente non avrebbe avuto la stessa riuscita con le altre sue colleghe.

I costumi dello stilista Paco Rabanne ebbero immediatamente un successo strepitoso coniando l’etichetta di “moda spaziale”.


La pellicola è ricca di sequenze memorabili: quella di apertura con Jane Fonda che fa uno spogliarello integrale, liberandosi della tuta spaziale in assenza di gravità; i bimbi che aggrediscono Barbarella con bambole meccaniche provviste di denti aguzzi; il labirinto infernale, dove sono confinati e puniti i cittadini del pianeta Sogo perché non fanno parte del male; il volo dell’angelo cieco Pygar insieme a Barbarella, con annesso gustoso combattimento aereo; la tortura dell’eroina chiusa in un gabbia con dei pappagallini; la macchina del piacere mandata in corto circuito dalla stessa Barbarella; la psichedelica Camera dei Sogni della Regina Nera; il finale apocalittico, lisergico e visionario.


Tra i musicisti autori della colonna sonora, figura anche, non accreditato, David Gilmour dei Pink Floyd. 

Il celebre gruppo techno-pop degli anni ottanta dei Duran Duran prese il suo nome da quello dello scienziato Durand Durand, inventore del raggio positronico, che Barbarella era andata a salvare in missione. 


C’è anche uno spassoso Ugo Tognazzi nella parte del villoso “acchiappabimbe” del pianeta.

I materiali di scena furono in gran parte usati anche nel “Diabolik” di Mario Bava che uscì nello stesso anno, interpretato ancora da John Phillip Law, e che è molto in sintonia con “Barbarella” dal punto di vista estetico. 

giovedì 20 giugno 2024

“Napoleon” (2023) regia di Ridley Scott

 


Cinema

“Napoleon” (2023)


regia di Ridley Scott 


con Joaquin Phoenix, Vanessa Kirby, Tahar Rahim, Rupert Everett, Ben Miles, Anna Mawn, Edouard Philipponnat 


Insomma, ho la sensazione che Ridley Scott abbia proprio fatto centro. Il suo “Napoleon”, pur non essendo un grande capolavoro, è un film molto ben curato, con un impianto scenico di alta classe, un cast di attori senz’altro indovinato, un'ottima sceneggiatura, e, quel che più importa, è un film che riesce a comunicare delle forti emozioni, servendosi anche di una dose di beffarda ironia. 


Se poi si cerca il rigore storico in senso assoluto, sarebbe meglio cercarlo in un saggio biografico o in un documentario, non in una fiction.

Il film è pieno di “deliziose”, ironiche e artistiche inesattezze che contribuiscono alla sua originalità. 

Già solo la sequenza iniziale della decapitazione di Maria Antonietta vale da sola l’intero film, soprattutto per la sua spettacolare rielaborazione.


È innegabile che questo sia il Napoleone di Ridley Scott, il suo punto di vista, la sua versione visionaria, come è innegabile che sia un punto di vista parziale, omissivo, a tratti palesemente e “scandalosamente” falso. 

Sarà forse che amo il suo modo di fare cinema, che sono un ammiratore di Joaquin Phoenix, che sono anch’io parziale, ma ritengo che il modo migliore per guardare un film di ambientazione storica sia quello di lasciarsi andare alle emozioni, non approcciarsi in maniera rigida, ideologica e neanche prenderlo come oro colato. Ogni dramma storico ha le sue inesattezze.


Non amo affatto la definizione di “biopic”, ma le riconosco l'efficacia della sintesi. Come riconosco che gli autori di romanzi, film o serie TV abbiano diritto ad una certa libertà di espressione artistica. Non possiamo non considerare che Ridley Scott sia anche l’autore del “Gladiatore”, nel quale la libera rielaborazione di fatti e personaggi storici era ancora più marcata. La mente, comunque, per analogia, più che al “Gladiatore”, va ai “Duellanti”, uno dei massimi capolavori di Scott.


Potremmo richiamare anche film “biopic” del passato come “Amadeus”, che ha avuto un’accoglienza da parte della critica molto positiva, e anche lì, in quanto a rigore storico biografico, eravamo ben lontani dal trovarlo. Eppure, ha lasciato nell’immaginario collettivo due personaggi rielaborati in maniera indimenticabile, non solo un Mozart assolutamente dionisiaco, ma un Salieri in preda a ossessione psicotica.


Quindi, il metro di giudizio per il Napoleone di Ridley Scott non vedo perché debba essere diverso, evitando paragoni abbastanza impropri, solo per fare alcuni esempi, col “Napoleon” del 1927, capolavoro assoluto di Abel Gance, col “Waterloo” del 1970 di Bondarchuk, oppure con la bella miniserie TV francese del 2002. Il regista britannico non è Tolstoj e il suo film non è “Guerra e pace”.

Quello di Scott e Phoenix è un Napoleone grottesco, verboso, eccessivo, caricaturale, indifferente, capriccioso e glaciale; e ci sta tutto. Il metro di giudizio resta quindi quello estetico e l’esame, a parer mio, lo passa a pieni voti.


Quella di Scott è pura rappresentazione di un personaggio mediocre e miserabile nella sua grandezza, ma evita accuratamente un giudizio storico definitivo, tenendosi lontano sia dalla apologia, che dalla condanna. Fa ironia a trecentosessanta gradi. Il film resta in bilico tra kolossal epico e satira di costume, dove il grand'uomo non fa una bella figura.

E non dite che sembra avere sempre la stessa età. Nell’iconografia, Napoleone Bonaparte non è mai stato giovane e non può invecchiare, perché deve restare immutabile fermo nel tempo, anche nella morte.

 

Joaquin Phoenix e Vanessa Kirby, nel ruolo di Giuseppina, formano una coppia assai credibile, la loro relazione è descritta come torbida, fondata sull’opportunismo e sulle dinamiche di potere. La Kirby perversa, dominatrice e dominata, è anche assai regale, magnifica nella sua completa identificazione nella parte. Ridley Scott punta tutto sul loro amore indissolubile, fino alla fine del film.


Tuttavia, è il Wellington di Rupert Everett l’interpretazione più azzeccata. 

Seppure ridotto a una comparsata, a Everett bastano poche parole, qualche smorfia di disgusto, alcuni sguardi e il suo Wellington molto british e altezzoso è servito. La scena del colloquio con Napoleone in una sala col pavimento a scacchiera è uno dei punti più alti del film, che richiama, qui, come in alcune altre scene, il “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick.


Le sequenze delle battaglie e dei disordini di piazza sono, al contempo, crude e realistiche, ma anche come sospese in un universo di estranea indeterminatezza, quasi che fossero state prelevate da un film fantasy. Soprattutto Austerlitz col ghiaccio, una completa invenzione scenica di Scott, oppure la riproduzione di una Mosca spettrale, o ancora la crudele rappresentazione della battaglia di Waterloo.


Se un limite ha il film, è che nell’ambizione di voler coprire un arco di tempo così vasto, Scott si costringe a raccontare interi periodi, come quello finale di Sant’Elena, nello spazio di pochissimi minuti e qualche battuta. Ma è anche giusto che sia così, il cinema di Ridley Scott, oltre a non aver mai avuto pretese di obiettività storica (come lo ha invece purtroppo “Oppenheimer” di Nolan), è anche altamente simbolico nella sua manipolazione del materiale storico trattato.

Tuttavia, esiste anche una versione director’s cut di ben quattro ore, la cui uscita era stata annunciata, ma sembrerebbe poi stata sospesa o addirittura annullata.


Se un significato politico vogliamo rintracciare in “Napoleon”, è nella sua natura profondamente anarcoide. Il modo in cui Scott mette alla berlina il potere e tutti i personaggi del film, figure di contorno comprese, trattandoli come maschere tragicomiche di una commedia dell’arte, evidenziando le sembianze e gli atteggiamenti grotteschi.


Qualcuno ha detto che “Napoleon” di Scott è per amanti del Cinema e non della Storia. Non è affatto così, anche se questa affermazione contiene una dose di verità. Che sia per amanti del Cinema è abbastanza evidente, ciò non toglie che non possa essere anche per amanti della Storia, nonostante sia liberamente tratto da una storia vera. 

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