lunedì 16 settembre 2024

“Nodo alla gola (Rope)” (1948) - regia di Alfred Hitchcock

 


Cult Movie


“Nodo alla gola (Rope)” (1948)


regia di Alfred Hitchcock 

con James Stewart, John Dall, Farley Granger, Joan Chandler, Douglas Dick, Cedric Hardwicke, Constance Collier, Edith Evanson, Dick Hogan


«A questo punto soltanto un delitto potremmo commettere: il delitto di fare uno sbaglio. L'essere deboli è uno sbaglio.»


Alfred Hitchcock, in un’intervista a Truffaut, ebbe a definire la sua prima pellicola a colori, lo stupefacente piccolo grande gioiello di “Nodo alla gola”, “un pasticcio” che si convinse chissà perché a girare, e che lo allontanava da quello che aveva deciso fosse il suo stile dell’epoca, che era basato sulla segmentazione dei film e sulle possibilità offerte dal montaggio. 

L’idea, comunque fosse, fu ideata da lui, e fu concepita dopo essersi imbattuto nella commedia teatrale di Patrick Hamilton.


L’intenzione era quella di adattare la commedia agli stessi suoi tempi, girandola, esclusivamente all’interno di un appartamento, con una sola inquadratura, un solo piano sequenza, interrotto solo da cambi bobina, che però si interrompeva nel punto esatto in cui sarebbe poi stato ripresa con la bobina successiva, facendo passare gli attori davanti alla cinepresa, un modo originale di montare il film in anticipo.

I dialoghi sono spumeggianti e tutti gli attori si attengono ad una recitazione squisitamente teatrale.


La tecnica per girare “Nodo alla gola” era allora del tutto sperimentale, con mobili e pareti che scorrevano.

La sua realizzazione risultò davvero assai complicata, con bobine rovinate per ogni minimo errore e il regista a girare di nuovo da capo l’intero spezzone. La meticolosità di Hitchcock in questo film è al di là di ogni immaginazione, quindi appare quantomeno severo il suo giudizio, visto che ammise che la cosa lo divertì molto. Tuttavia, è comprensibile, perché le sperimentazioni costano sempre qualcosa a chi è abituato a muoversi in un certo schema già collaudato.


Era stato costruito, inoltre, un modello finto di grande finestra, come sfondo per buona parte delle riprese, che riproduceva i grattacieli di New York con delle nuvole. Un effetto di grande suggestione. Uno sfondo mobile che veniva cambiato mentre non era inquadrato. Il miracolo continuava con l’uso del colore, considerato anche il fatto che, essendo la prima volta, la difficoltà era di rendere il passaggio del tempo dal giorno alla notte tramite varie sfumature cromatiche; e il risultato finale è semplicemente sorprendente.


Gli accorgimenti non si limitano solo agli aspetti visivi, ma vanno oltre, ci sono anche molte invenzioni sonore nel film, come quelle finali della folla oltre la finestra e della sirena. Tutto avviene cercando di replicare esattamente con grande realismo una serie di più disparate situazioni.

È comunque lo stratagemma della cassapanca con cadavere, usata come tavola apparecchiata per la festa, il vero colpo di genio di tutta la rappresentazione.


Il plot poi si intreccia perfettamente con la recitazione. James Stewart è semplicemente ammirevole nella sua ricerca della misura. Il personaggio che interpreta, il prof. Rupert Cadell, è un po' il deus ex machina di tutta la vicenda, il breve monologo finale sul senso dell’etica e della libertà è paradigmatico, così appassionato e disperatamente autocritico nei confronti di educatori che giocano per diletto con idee mostruose.

Un film che, a quasi ottant'anni dalla sua realizzazione, non è invecchiato neanche un po’.


“Nodo alla gola” è un po' l’anticipazione di “Delitto perfetto”, stesso taglio teatrale, stesso colpevole svelato all’inizio, ma a mio parere a un livello persino superiore. In questo caso, ben due colpevoli, giovani ex studenti di Cadell, con caratteri completamente opposti: spavaldo e con delirio di onnipotenza Brandon, terrorizzato e oppresso dal senso di colpa Philip, rispettivamente gli ottimi John Dall e Farley Granger. Sono chiaramente una coppia gay, ma la cosa non viene mai resa del tutto palese, dato il divieto che c’era all’epoca di inserire nei film personaggi omosessuali. Hitchcock aggirò con astuzia tale proibizione.


Mentre, è veramente esplicito il messaggio, insito nel racconto, di condanna di un’ideologia di ispirazione nietzschiana, sulla superiorità morale e intellettuale che consentirebbe il dominio dei migliori e la sottomissione dei più deboli. Nel 1948 l’eco del nazismo pesava ancora molto sulla coscienza collettiva. 

Di una dolcezza incantevole è anche l'interpretazione di Joan Chandler nella parte di Janet.

venerdì 13 settembre 2024

“Solaris” (1972) - regia di Andrej Tarkovskij


 Cult Movie


“Solaris” (1972)


regia di Andrej Tarkovskij

con Donatas Banionis, Natal'ja Bondarčuk, Danijelic Mijliorinic, Jüri Järvet, Anatolij Solonicyn, Sos Sarkisjan


«La scienza? Sciocchezze. In questa situazione la mediocrità e il genio sono ugualmente inutili! Noi non vogliamo affatto conquistare il cosmo. Noi vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio. Ci affanniamo per ottenere un contatto e non lo troveremo mai. Ci troviamo nella sciocca posizione di chi anela una meta di cui ha paura e di cui non ha bisogno. L'uomo ha bisogno solo dell'uomo!»



Quando uscì in Italia, “Solaris” di Tarkovskij fu presentato come «la risposta della cinematografia sovietica a “2001, Odissea nello spazio”», una banalità, che poteva forse avere senso solo in piena Guerra fredda, sfruttando quel contesto a fini promozionali. Definire in questo modo il capolavoro del regista russo, non solo  è assolutamente riduttivo per il suo film, ma lo è anche per quello di Kubrick, dando una falsa percezione di due opere d’arte assolutamente imparagonabili, se non per il fatto di rientrare nella generica definizione di space opera.


Sarà la terza o la quarta volta che vedo “Solaris”, la precedente è stata molti anni fa, e non ho mai provato un’emozione così forte, colpito in particolare dalla prima parte, lasciata ovviamente in russo con i sottotitoli, quella ambientata sulla Terra, ignobilmente tagliata per intero nella versione italiana del 1974, ma non è l’unico taglio, ce ne sono altri qua e là, per tutta la durata del film, un vero e proprio scempio, con doppiaggio rimaneggiato per coprire i vuoti di logica narrativa. 


Devo dire che sono stato di nuovo sedotto dalla suggestiva sequenza del viaggio in automobile, quello del ritorno in città dell’ex astronauta e di suo figlio, mentre percorrono gallerie, autostrade e attraversano paesaggi metropolitani desolati, e che ha un deciso sapore avveniristico. Tutto in uno sterile, ma affascinante, bianco e nero che sfuma alla fine di nuovo nel colore del caos urbano, inquadrato con una panoramica ripresa dall’alto. E sono stato altrettanto sedotto dalle atmosfere oniriche che avvolgono le scene degli incontri con la moglie e con la madre di Kelvin.


Il Cinema di Tarkovskij, il poeta delle immagini, è il trionfo dell'incanto della lentezza, dei grandi spazi, dell’anatomia dei particolari e dei prolungati silenzi; è gioco di contrasti tra il bianco e nero, il colore e i filtri della cinepresa; è la meraviglia del tocco delicato, la malinconia dei chiaroscuri.

Ma che cos'è di preciso Solaris? È forse il dolente, bellissimo volto e il corpo seducente di Hari, interpretata dall’affascinante Natal'ja Bondarčuk, figlia del famoso regista.


Ho già avuto modo di scrivere, nella recensione sul romanzo di Stanislaw Lem, che ben poche essenziali cose legano le due opere. Quella di Tarkovskij non è solo un adattamento cinematografico del forse massimo capolavoro della fantascienza letteraria, è soprattutto altro, a cominciare proprio dal prologo terrestre, che manca del tutto nel romanzo, così come è assente il sorprendente e spettacolare epilogo ideato dal regista.


Se paragone tra il film del regista russo e l'Odissea di Kubrick non può sussistere, forse ancora meno senso ha mettere a confronto le due diverse bellezze: quella letteraria e quella cinematografica di “Solaris”. 

È del tutto ovvio che Tarkovskij si sia ispirato al romanzo di Lem, ma lo ha reso volutamente un territorio liberato da qualsiasi vincolo di fedeltà.

La cosa l'aveva ben capita lo scrittore polacco, quando sottolineò l'enorme differenza dei presupposti alla base del romanzo e del film, e questo leggendo solo la sceneggiatura, senza poi volerlo vedere.


Stanislaw Lem quindi criticò Tarkovskij per questo, perché disse che il suo intento come scrittore era stato quello di porre al centro un’indagine filosofica sulla conoscenza umana e sui suoi limiti, e non sullo spazio interiore di carattere psicologico, tema ricorrente nella produzione del russo.

Pur avendo torto nel criticarlo, ne aveva comunque rintracciato esattamente i termini della diversità. Anche se poi non volendo, lo spazio interiore ballardiano emerge inevitabilmente lo stesso anche nell’opera letteraria, seppur con minore intensità.


Il tema della manipolazione mentale e della follia che ne consegue è invece l’oggetto principale della visione filosofica del russo.

Ben rappresentato dal disordine e dal caos che regna nella stazione spaziale in orbita attorno al pianeta, con oggetti abbandonati, cavi elettrici rotti che penzolano un po' dappertutto.

In entrambi, è comunque rintracciabile la critica allo scientismo, anche se in misura ein modi diversi, molto più accentuata nel romanzo.


L’amore è indistruttibile, trascende persino la morte, non si estingue neanche a milioni di anni luce di distanza. È questa la vera follia, che pare voler mettere in luce Tarkovskij, e un oceano pensante di un pianeta sperduto nella galassia e lì a ricordarlo a Kelvin, come a tutti noi.

Ma forse, proprio per questo è anche così orribile. Ci si potrà mai abituare a tali continue resurrezioni?

Tuttavia, se l’uomo desidera illudersi, l’oceano, che rappresenta l'espansione della nostra coscienza, gli dona illusioni, persino quella dell’immortalità.

mercoledì 11 settembre 2024

Graham Greene, “Una pistola in vendita” (1936)

 


Classici 


Graham Greene, “Una pistola in vendita” (1936)


«Penso a quegli anni fra il 1933 e il 1937 come a un’età di mezzo per la mia generazione, offuscata in Inghilterra dalla Grande Crisi che proietta ombre su questo libro, e dall’ascesa di Hitler. Impossibile a quel tempo non sentirsi coinvolti, e riesce difficile ricordare i particolari della vita privata mentre tutt’intorno a noi si preparava lo smisurato campo di battaglia».

Graham Greene


«Un romanzo che tutti dovrebbero leggere, per il loro bene».

Edwin Muir


Graham Greene fu tra quegli scrittori del XX secolo la cui produzione era al confine tra mainstream e letteratura di genere, e che dimostrò quanto questo confine fosse del tutto astratto e labile di fronte al genio.

Secondo una superficiale e sbrigativa catalogazione, Greene rientrerebbe, infatti, tra gli autori di gialli, di polizieschi e di thriller.


In svariati scritti biografici viene spesso dato risalto a quanto peso abbiano avuto alcune letture giovanili: Stevenson, Kipling, Dickens, Conan Doyle, Edgar Wallace ma soprattutto Henry James e Joseph Conrad, che teneva in conto come maestri. Successivamente a queste determinanti influenze, si affiancò anche quella di T. S. Eliot.

Un misto quindi di letteratura “alta” e di grande letteratura di “genere”.


La narrativa di Greene deve molto però anche al Cinema dal quale fu influenzato e che, a sua volta, influenzò.

Una delle critiche ricorrenti riguardava appunto il fatto che la sua produzione fosse condizionata dall’eccessivo investimento, che lo scrittore riponeva sul possibile potenziale adattamento cinematografico dei suoi romanzi.

Una delle sue attività collaterali, fu infatti, quella di recensore di film su riviste del settore.


Quello che per alcuni poteva essere un difetto, era invece senza dubbio un pregio: arricchendo la sua narrazione di molte sfumature, grazie alla particolare sensibilità che aveva del concetto di movimento. La sua passione per il Cinema gli era servita per apprendere il valore della velocità e dell'azione e di come riuscire a inserirli all'interno di un racconto.

La svolta verso questa direzione fu intrapresa dal “Treno d’Istanbul” in poi, il suo primo vero romanzo importante.


Ciò che lo affascinò maggiormente del Cinema fu la possibilità di gestire “il punto di vista”, una delle caratteristiche che apprezzò molto della narrativa di Henry James. 

La verità per entrambi gli scrittori, non era da rintracciare in ciò che oggettivamente si può vedere, il punto di vista è invece estremamente soggettivo, e l’occhio che narra è quello di chi sta anche dietro alla cinepresa, qualcosa che indaga alla ricerca di ciò che è visibile, ma che è solo intuibile, non sempre verificabile.


Greene è indagatore del male, anche come più vitale rappresentazione di un'epoca, quella degli anni trenta, in cui il male si va diffondendo, attraverso il totalitarismo. La sua interpretazione del male contrapposto al bene, in chiave religiosa, gli deriva dalla conversione al cattolicesimo.

È con questo spirito che nasce “Una pistola in vendita” che ha come protagonista uno spietato assassino, sicario professionista, denominato Raven. Tuttavia, il male più evidente è quello del contesto sociale e politico in cui è ambientato: la pesante crisi economica, i venti di guerra e la speculazione sul traffico di armi dominano la scena.


Come si può facilmente arguire dal titolo questo è un thriller noir, dal quale, a proposito di Cinema, è stato molto liberamente tratto il film “Il fuorilegge”del 1942, per la regia di Frank Tuttle, con Alan Ladd e Veronica Lake.

Il romanzo era stato catalogato dallo stesso autore come genere "entertainment", filone narrativo che sarebbe stato motivato prevalentemente da questioni economico commerciali, per distinguerlo dalla produzione “seria”, impegnata, catalogazione che poi, Greene abbandonò nel corso del tempo, ritenendola per fortuna inadeguata.


Non ha nessun senso pensare a due Greene diversi, e seppure da parte dell’autore le motivazioni potevano essere differenti, lo scrittore era unico e non avrebbe potuto anteporre le sue intenzioni al risultato letterario, che rimase sempre di alta qualità, come appunto avviene anche in questo caso.

Il “Greeneland”, la terra di Greene, concetto non solo legato all’ambientazione fisica, è sempre la stessa: un luogo ostile, cupo, nero, degradato.


Di solo intrattenimento, infatti, non si può parlare. La vicenda è raccontata attraverso le lenti della critica sociale, per dei versi classicamente politiche, rispecchiando le polemiche che all’epoca infuriavano in Inghilterra sui lavori della Royal Commission, in merito al mercato delle armi. Il “punto di vista” di Greene è esplicito ed è di condanna nei confronti dei guerrafondai che soffiavano per attizzare i conflitti e favorire l’industria bellica.


Il fine di Greene era quello di dimostrare che la redenzione può raggiungere sempre chiunque. Il suo, infatti, era un cattolicesimo profondamente umanista, in buona parte eretico, molto prossimo a quello postconciliare futuro. Il Dio dello scrittore inglese quindi agisce pienamente da redentore.

Molto del materiale che gli servì nella sua attività letteraria lo raccolse durante l’esperienza coi Servizi segreti britannici dai quali si dimise nel 1944, lavorando anche a contatto col famoso doppiogiochista Philby, particolare che Greene ignorava.


Ma anche la sua attività nei Servizi la svolse in maniera in qualche modo paradossalmente critica. Sì, al servizio del suo Paese, ma cercando sempre di armonizzarla col rispetto dovuto alle altre nazionalità e agli equilibri internazionali. Questo aspetto è più che evidente proprio in questo romanzo dal taglio “pacifista” e socialisteggiante.


Raven è un criminale cinico e spietato, che cerca di essere però amorevole con la sua gattina e tenero con la donna amata, lo fa con ruvidezza, perché non conosce altra modalità con cui comunicare. I suoi sentimenti sono autentici.

Viene da buona parte della gente però ricambiato col disprezzo. È il suo aspetto, nonostante tutto, che gli attira avversione, a cominciare dal labbro leporino.

Eppure, il vero cattivo non è lui, ma i suoi mandanti ed è ovvio che ad un certo punto si verifichi un graduale ma deciso capovolgimento del punto di vista, in cui il lettore si sente chiamato a partecipare.


La forma è quella del thriller, con una trama assai avvincente, ma il libro è senza alcun dubbio anche un romanzo sociale, tanto è radicato in un ambiente di crudo realismo, con sullo sfondo la minaccia bellica, che già negli anni trenta, influenzava la vita quotidiana e culturale delle persone.

La cittadina di Nottwich è un'invenzione letteraria, ma è ricalcata su luoghi reali delle Midlands, molto simile a Nottingham. L’esistenza di Raven si intreccia soprattutto con quella di altre tre persone: il poliziotto Jimmy Mather, la sua donna Anne Crowder e il viscido Cholmondeley.

 

Sir Basil Zaharoff era un potente mercante di armi dell’epoca e Greene in un’introduzione al libro, ci tenne a specificare che il personaggio di Sir Marcus non era Sir Basil, «ma la rassomiglianza è evidente».


«Il negozio si trovava in una stradina laterale, di fronte a un teatro. Era una piccola libreria, di un unico locale, dove non si trovava niente di più intellettuale di «Film Fun» e «Breezy Stories». C’erano cartoline di Parigi in buste chiuse, riviste americane e francesi, tascabili sadomaso al prezzo di venti scellini, per i quali il giovinastro foruncoloso che stava in negozio, o sua sorella che a volte lo sostituiva, ne rimborsavano quindici se li riportavi indietro.

Fare un appostamento da quelle parti non era facile. All’angolo, una poliziotta teneva d’occhio le puttane e di fronte c’era soltanto il lungo muro cieco del teatro, con l’ingresso della galleria.»


«Quei pensieri erano più freddi e sgradevoli della bufera. Non era abituato a un sapore che non fosse amaro sulla lingua. Era stato impastato con l’odio; l’odio lo aveva plasmato in quella esile scura sagoma di assassino sotto la pioggia, braccata e brutta. Sua madre lo aveva dato alla luce mentre suo padre era in prigione, e sei anni dopo, quando suo padre era stato impiccato per un altro delitto, si era tagliata la gola con un coltello da cucina. E dopo, l’orfanotrofio. Non aveva mai provato la minima tenerezza per nessuno. Era stato plasmato in quella immagine e ne andava, a suo modo, fiero. Non voleva essere disfatto. D’improvviso lo colpì con terribile certezza l’idea che, se voleva salvarsi, ora più che mai doveva essere se stesso. Non è con la tenerezza che si diventa svelti a estrarre la pistola.»

lunedì 9 settembre 2024

“Il prestanome” (1976) - regia di Martin Ritt

 


Cinema - Cult Movie 


“Il prestanome” (1976)


regia di Martin Ritt

con Woody Allen, Zero Mostel, Herschel Bernardi, Michael Murphy, Andrea Marcovicci 


Si può fare un film con Woody Allen sul maccartismo che non sia propriamente una commedia? Martin Ritt ci riuscì brillantemente. “Il prestanome” è allo stesso tempo un dramma e una commedia e Woody Allen, al terzo lungometraggio che interpreta diretto da altri, dopo "Ciao Pussycat" di Clive Donner e “Provaci ancora, Sam” di Herbert Ross, è semplicemente perfetto per la parte.


Sia Ritt che Walter Bernstein, lo sceneggiatore, così come diversi attori del cast, erano stati vittime della caccia alle streghe, finiti tutti sulla lista nera. 

Il montaggio fu curato in fase definitiva da Allen e Bernstein. Allen, come al solito ipercritico, non amò molto questo film, ingiustamente, aggiungo io. Secondo me, invece, funziona e molto bene, a cominciare dall’idea originale di fondo.

Fu la prima produzione che a Hollywood si occupò del tema.


È, però innegabile, senza togliere merito ad Allen e a Ritt che il vero punto di forza del film è proprio la sceneggiatura.

Una sceneggiatura che finisce per acquisire anche un valore simbolico, visto che la trama del film immagina proprio un modo con il quale salvare tante sceneggiature dal rozzo oscurantismo del maccartismo.

E poi c’è il finale a dir poco straordinario che vale tutto il film.


L’interpretazione di Allen vira molto sul crepuscolare, accentuando la parte più malinconica del suo personaggio. Per questa sua prova un po' inconsueta si attirò un certo numero di critiche negative, giudicato poco adatto a sostenere il ruolo. Un giudizio che trovo assolutamente ingeneroso e che credo abbia condizionato anche quello di Allen. Non è forse la sua interpretazione migliore, ma nel complesso, tra sceneggiatura, regia e recitazione, è un film che resta impresso nella memoria e questo non accade certo a caso.


L’arma di Allen, nonostante il ruolo tendente al drammatico, è, anche in questo caso, l'ironia, e Ritt e Bernstein ne sono pienamente consapevoli.

Tuttavia, l’interpretazione più intensa è quella assai commovente del mitico Zero Mostel, attore comico, anche lui sulla lista nera della famigerata Commissione per le attività antiamericane.


La genialità dell’operazione sta proprio in questa sorta di terra indefinita tra dramma e commedia, in questo universo dell’assurdo, in cui saltano tutte le relazioni umane, sotto la grottesca spinta della delazione, che è lo spirito maligno che aleggia sull’intero film, paradossalmente speculare a quella del nemico che si pretenderebbe di combattere: il comunismo sovietico.


Questo è il punto fondamentale attorno a cui ruota tutta la trama: la delazione è una delle armi preferite da tutti gli autoritarismi, sia di destra che di sinistra, ma va ben oltre le ideologie. Solo gli illusi non lo sanno. Non arriverà mai nessun salvatore. Il potere di qualsiasi tipo si fonda sulla delazione, anche quello dei piccoli gruppi. Perfino nelle relazioni personali più inquinate dalle dinamiche di potere, spesso, molto spesso, si ricorre al suo uso.


La delazione non è solo un mezzo col quale estorcere informazioni. È il fine stesso, è un modo per piegare ogni coscienza, per far accettare il meccanismo inquisitorio. In fondo, non è così importante “chi” venga denunciato, l’importante è che si ceda al ricatto e si accetti di denunciare. Ecco perché è sufficiente denunciare anche chi è già stato denunciato.


Non c'è possibilità di compromesso con l’autoritarismo. Howard Prince, il protagonista del film, nel suo percorso umano da prestanome, finisce per impararlo, per prenderne coscienza, così prende coscienza del grande potenziale contenuto nella rivolta individuale, nella disobbedienza.


Il tema del doppio e dell'alter ego è il sottile espediente che rende il dramma anche una ben congegnata commedia degli equivoci e della dissimulazione, con una serie di gag molto efficaci.

Quindi, a prescindere dal contesto, sono proprio le tematiche della delazione e del doppio a tenere banco in tutta la durata del film intrecciandosi tra loro, interagendo in una specie di azione parallela, ma allo stesso tempo conflittuale.

venerdì 6 settembre 2024

La transizione digitale


La transizione digitale è il merdone più grosso che abbiamo all'orizzonte. Ancora più pericoloso perché è assolutamente inedito. È una componente della tendenza odierna al totalitarismo, che nel passato era assente. Non può essere liquidata come semplice progresso tecnologico, il quale per essere tale deve ancora accordarsi a una seppur minima dialettica democratica e a principi etici condivisi. 


La transizione digitale contiene una filosofia di vita assai pervasiva e destabilizzante, essendo concepita come un fine e non più come un mezzo di emancipazione: produce isolamento, sociopatia e disumanizzazione dell'individuo, in modo tale da poterlo controllare meglio, nella vita privata e in quella pubblica, separandolo così dal tessuto sociale. 

Inoltre, è veramente globale. Trovatemi un regime o un sistema politico che non la stia adottando, accettandone tutti i suoi strumenti in maniera più velocemente possibile, limitati per ora solo da ostacoli dovuti alla capacità di ogni singolo contesto di gestire economicamente i tempi di realizzazione e i fattori culturali. 


Molti credono che sia legata alla narrazione sulla difesa del pianeta e degli ecosistemi, ma questo è solo uno degli aspetti ideologico culturali della propaganda, che non risulta però del tutto pienamente convincente in termini di cambiamento delle abitudini delle masse, diretto com’è solo a colpire l’immaginario di una fetta molto limitata di persone. 

La motivazione che fa più presa è quella sulla comodità, sulla libertà dalla burocrazia, sulla semplificazione delle procedure amministrative, sull’azzeramento dei conflitti.

E questo anche perché non è parte integrante di nessuno complotto. È solo la necessità di adeguarsi da parte del potere alle nuove modalità di sorveglianza e di dominio.


È molto preoccupante, a tal proposito, l'introduzione di “innovazioni”, soprattutto in materia di formazione scolastica ed educativa, fino addirittura a prefigurare la sostituzione della figura dell'insegnante, o il suo drastico ridimensionamento, riducendolo ad una sorta di tecnico informatico. 

La transizione digitale, proprio, per tutto questo può essere attuata in maniera dolce, senza necessità di tradizionali imposizioni violente e questa la rende infinitamente più dannosa, perché viene interiorizzata dagli individui come naturale e necessaria. 

Sottintende quindi una mutazione antropologica epocale.

“Cane di paglia” (1971) - regia di Sam Peckinpah


 Cinema - Cult Movie 


“Cane di paglia” (1971)


regia di Sam Peckinpah 

con Dustin Hoffman, Susan George, Del Henney, Ken Hutchison, Peter Vaughan, Donald Webster, Sally Thomsett 


«Il Cielo e la Terra sono spietati e trattano le miriadi di creature come cani di paglia: il saggio è spietato e tratta le persone come cani di paglia... Lo spazio tra Cielo e Terra non è come un soffietto?»

Lao Tzu


«Kubrick ci insegna freddamente che viviamo in un inferno che ci siamo costruiti da soli; Peckinpah brucia nelle fiamme con noi, agonizzante.»

William S. Pechter


“Cane di paglia” è il film più controverso di Peckinpah, ed è il suo primo “non western". Quello per il quale è stato accusato di fascismo e misoginia.

Il film nasce dall’idea del produttore Daniel Melnick di adattare per il grande schermo un romanzo del quale possedeva i diritti.

La storia non era niente di che: riproponeva il frequente stereotipo della difesa da parte dell’uomo pacifico della propria famiglia da un gruppo di soggetti prepotenti e violenti. Melnick aveva, però intuito che il libro nelle mani sapienti di Peckinpah poteva diventare un ottimo film d’azione.


Peckinpah non ne era molto entusiasta, perché aveva dichiarato che dopo “Il mucchio selvaggio” era stufo di girare un altro bagno di sangue.

L’intento della storia era quello di far emergere da un pacifista liberal l’istinto distruttivo e vendicativo, le pulsioni violente più dissimulate. Ma lui rese il carattere del protagonista ben più complesso, aiutato dalla strepitosa prova attoriale di Dustin Hoffman.

Ringiovanì la coppia dei coniugi ed eliminò la figura della figlia. 


La relazione tra i due personaggi non è tutta rose e fiori. Il professor David Sumner nonostante la sua attitudine al pacifismo, ostenta una superiorità intellettuale che irrita la giovanissima moglie, la quale lo vorrebbe più attento affettivamente. L’aggressività del protagonista è malcelata e cova sotto la cenere. Come forma di ritorsione Amy mette in atto una serie di piccoli dispetti e comincia a flirtare con gli operai che gli stanno costruendo un garage, tra cui ci sono alcuni suoi amici e una vecchia fiamma.


Questa dinamica ha molto di autobiografico e ripropone alcuni aspetti della relazione del regista con la moglie.

Il contrasto maggiore che emerge tra i due protagonisti è rappresentato dal posto in cui scelgono di andare a vivere: il luogo di origine di lei, un villaggio in Inghilterra.

Per la location fu scelto un paesino della Cornovaglia e una fattoria come residenza dei Sumner.


Quanta parte di Peckinpah c’è in Sumner? Quanti di noi si sono riconosciuti in lui?

Per ammissione dello stesso regista la risposta a entrambe le domande non può non essere di conferma: Peckinpah è Sumner, noi siamo Sumner.

La scelta della tipologia del personaggio non avviene così automaticamente come nel soggetto. Non c’è nulla che possa far pensare che nel regista ci fosse l’intenzione di prendere di mira un certo stereotipo. 


È invece più credibile che scatti una sorta di identificazione nel personaggio: un intellettuale un po' borioso che viene fatto oggetto di prepotenze e che cerca un riscatto usando l'intelligenza e una raffinata forma di violenza contro la forza bruta, ma che, proprio per questo, è destinato ad arrivare ad un livello maggiore di crudeltà.


La sequenza dello stupro che si trasforma in atto d’amore passionale consenziente e poi di nuovo in stupro, con il volto di Susan George quasi sempre in primo piano, oltre ad essere un’interpretazione memorabile, è anche il clou di tutto il film, e forse il motivo maggiore di polemiche.

Fu la George comunque a convincere il regista a girarla così, dopo essere scappata precedentemente dal set, terrorizzata dal lui e da quello che pretendeva.


In questa sequenza viene fuori tutto Peckinpah, filtrato dalla moderazione della George: da un lato il violento e pericoloso abusante, dall’altro l’uomo tenero e gentile. Una scena che pose fine incredibilmente senza un motivo razionale al rapporto di amicizia tra lei e Hoffman.


Peckinpah fu accusato di maschilismo per la messa in scena dello stupro in maniera così ambivalente e di fascismo per lo scatenamento della violenza successiva del giovane professore. La critica si divise tra chi lo accusava e chi ne prendeva le parti, affermando che era invece un atto d’accusa contro la violenza privata in tutte le sue forma. E si può ben affermare che nessuna delle due interpretazioni abbia torto. Nell'ambiguità, possono essere tutte e due corrette.


Peckinpah non sciolse mai il dubbio, nelle interviste sembrava far sue entrambe le interpretazioni. D’altronde, spiegare la propria arte non ha sempre senso, mentre lo ha nel cercare di decifrare l’arte altrui. E quindi si potrebbe dire che Sumner sia da condannare e insieme da comprendere, perché è molto umano, è molto vicino a ciascuno di noi. La rappresentazione di ciò che è dentro la nostra coscienza, anche se sono istinti primordiali, anche se è un inferno, è comunque un atto di denuncia in sé, a dispetto di ogni interpretazione ideologica.


Durante il film, Peckinpah fece la conoscenza di Katy Haber, una delle segretarie. Katy divenne centrale, con la sua estrema efficienza, nell’organizzazione della vita del regista nelle riprese, e sua partner sentimentale. Era figlia di rifugiati ebrei, fuggiti dalla Cecoslovacchia poco prima di essere catturati dai nazisti, una sua zia morì in un campo di concentramento. Una gigantesca foto della zia è ospitata in un museo sull’olocausto. 

Nacque un grande amore tra il già maturo Sam e la giovane Katy. Un amore molto passionale, assai problematico, persino distruttivo, ma che durò per sette anni.


Peckinpah si era talmente immedesimato che durante le riprese andò spesso fuori controllo, con grande preoccupazione di tutta la troupe, si ammalò anche di polmonite. Alternava il rapporto amoroso con Katy, con quello con un’altra segretaria: Joie Gould, terza moglie del regista. I suoi scatti di gelosia, nei confronti di entrambe, perfino violenti nel caso della Gould, divennero famosi.

Tuttavia, lui non si faceva scrupoli, era un seduttore incallito, cadevano nella rete persino donne insospettabili.


Come possa essere venuto fuori un capolavoro del genere da un nevrotico sessuomane alcolizzato è il mistero della sregolatezza che favorisce il dispiegarsi del genio, una caratteristica che si ripropone spesso nell’arte. A prescindere, comunque, da ogni facile moralismo, è la creatività umana che fa i conti con la realtà nel momento in cui la rappresenta, con le proprie pulsioni, con i propri sentimenti, anche con quelli più reconditi, e con la parte più nera di ognuno di noi.


Nonostante il fatto che “Cane di Paglia” contribuì a rendere ancora più famoso Peckinpah in tutto il mondo, il film non ebbe un grande riscontro commerciale, probabilmente per gli stessi motivi che lo resero famoso, un paradosso non così raro nel Cinema.


«[David] aveva preparato tutto [...] Se guardate, ci sono diciotto diversi momenti nel film in cui avrebbe potuto evitare tutto questo. Non lo ha fatto. Ha lasciato che accadesse [...] Come spesso nella vita anche noi lasciamo che le cose ci accadano perché lo vogliamo [...] Ho dato ormai già due lezioni sul film a degli psichiatri [...] Mi chiedevano: “Come l’hai scoperto?” Be’, sono stato sposato un paio di volte».

Sam Peckinpah 


«C’era un preciso meccanismo di autodistruzione in Sam, non c’è dubbio al riguardo», dice Susan George. «Ma trovò il suo corrispettivo dentro quel film in Ken Hutchison. Ken era la sua anima gemella. A volte era stupido, irascibile e spaventoso quanto Sam. Io e Hoffman tornammo all’hotel una sera dopo essere stati insieme tutto il giorno e assistemmo a questa lite nel bel mezzo della sala ristorante. Pensai: oddio, no, non un’altra volta! Perché di queste risse da bar ce n’erano sempre. Dissi a Sam: “Oh, ti prego, non farlo! Per favore, non essere così stupido!” E continuavano, e continuavano, finché non infransero dei bicchieri su un tavolo e Ken si tagliò un braccio. Dovetti accompagnare Ken all’ospedale. Ma ero anche quella che poteva parlare a Sam quando accadevano cose del genere. Quando ferì Ken, ero furiosa con lui. Fermai la lite. Mi aveva molto turbata. Sam mi dava ascolto; odiava ferirmi. Mi trattava come se fosse il mio fidanzato e mio padre».


[Le citazioni sono tratte dal libro biografico “Se si muovono… falli secchi” di David Weddle]

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