giovedì 29 agosto 2024

Frank Herbert, “Dune” (1965)

 


Classici della fantascienza 


Frank Herbert, “Dune” (1965)


«All’inizio c’è stata l’idea.

L’idea specifica di Dune nacque una decina d’anni prima che scrivessi i romanzi, in un periodo in cui preparavo un articolo per un quotidiano. L’articolo mi aveva condotto a Florence, nell’Oregon: una cittadina costiera che aveva dei guai con le dune di sabbia. Poiché è sede di un progetto coordinato, statale e federale, per controllare il movimento delle dune, Florence è una specie di Mecca per chiunque, in ogni parte del mondo, abbia lo stesso tipo di problemi. (E non lo dico per far piacere alla locale Camera di Commercio, ma perché è la verità: delegazioni di un mucchio di Paesi – Israele, Cile, Italia, Spagna, Algeria, Turchia, Iran, India, Arabia Saudita, Messico – si sono recate a Florence per studiare i metodi con cui si può controllare il movimento delle dune.)»

Frank Herbert


«Non si può evitare l’influenza della politica in seno a una religione ortodossa. La lotta per il potere permea l’educazione, l’addestramento e la disciplina di una comunità ortodossa. A causa di questa pressione, i capi di una simile comunità devono affrontare inevitabilmente l’ultimo dilemma interiore: soccombere al più completo opportunismo per conservare il loro potere, o rischiare di sacrificare se stessi nel nome dell’etica ortodossa.»


«Molto di ciò che finora è andato sotto il nome di religione conteneva in sé un atteggiamento d’inconscia ostilità verso la vita. La vera religione deve insegnare che la vita è colma di gioie che rallegrano l’occhio di Dio, e che la conoscenza senza l’azione è vuota. Ciascuno deve accorgersi che l’insegnamento di una religione solo per mezzo di regole ed esempi altrui è un imbroglio. Un insegnamento giusto e corretto si riconosce facilmente. S’intuisce subito, perché risveglia in te una sensazione di qualcosa che hai sempre conosciuto.»


La fantascienza sperimenta tante diverse possibilità, esplora mondi, dimensioni, intraprende viaggi interstellari e intergalattici, viaggi nella coscienza interiore, nella spiritualità, nel sovrannaturale, visita pianeti, immagina sistemi di governo del futuro. Si nutre di fantasia, incubi e illusioni. Recupera il passato e perfino la sfera ancestrale. La fantascienza non è solo un genere letterario, è un metodo per descrivere il reale attraverso il surreale.


Frank Herbert in “Dune” fa un po' tutto questo, plasma la materia fluida dell’immaginazione per costruire una storia concreta, ma lo fa in maniera allucinata, gotica, delirante, con riferimenti letterari tratti dall'epica cavalleresca e dalla vita quotidiana nel feudalesimo, recuperando la tradizione letteraria che va ben oltre la fantascienza o il fantasy.

Di particolare interesse sono i riferimenti linguistici e culturali al mondo arabo e a quello islamico.


Sì, perché “Dune” parla di un futuro lontanissimo, ma in un’atmosfera che ricorda la storia del passato, costruendo una novella in un contesto neo-feudale, con tanto di aristocrazia spaziale.

È pura science-fantasy, che incontra la space opera e il poema epico. Oserei definirla fantascienza barocca. Un filone analogo, insomma, a quello del ciclo di Star Wars, ma con uno sviluppo e una tensione narrativa diversa, se non addirittura opposta e una qualità letteraria migliore. Un vero e proprio romanzo narrativamente completo, che dà inizio a un’intera saga.


La storia si basa sulla contesa tra due casate nobiliari sul dominio del pianeta Arrakis, anche detto Dune, ed è quella tra gli Atreides e gli Harkonnen. Arrakis è un pianeta desertico con scarsità d'acqua e un numero esiguo di abitanti, tra i quali, un ruolo particolare lo hanno i misteriosi pirati della sabbia Fremen (da Free Men, uomini liberi), con il loro capo Stilgar, la “elfica” Chani, e il planetologo dell’imperatore Pardot Kynes, “convertitosi” a Fremen, che vivono nel deserto. 


Protagonisti ancor più originali sono i vermi delle sabbie, che vengono prodotte dalla digestione degli stessi vermi, anche detti i Creatori, gigantesche creature che, non volendo, aiutano ad estrarre una spezia dai molteplici utilizzi (contenuta anche nel cibo), e che in particolare serve a produrre una droga assai potente, che dona la “prescienza”.


Il pianeta Dune, nonostante l’aridità, ha comunque una sua affascinante bellezza.

Ma la fauna di questo luogo apparentemente assai desolato non si limita solo agli inquietanti vermi delle sabbie. Altre specie animali, tra l'altro molto letali, popolano il mondo di Dune. 

Si verificano, inoltre, di frequente delle terribili tempeste, dette di Coriolis, che possono arrivare fino a 800 chilometri l’ora standard, e che non hanno eguali in nessun altro luogo.


Sopra agli Atreides e agli Harkonnen, sul gradino più alto della scala gerarchica, domina l’Imperatore Padiscià, Shaddam IV, che spesso fomenta i conflitti, proprio per mantenere saldo il dominio nelle sue mani e non permettere che i suoi potenti vassalli si coalizzino tra loro. Si accompagna sovente al suo inseparabile amico, il sinistro Conte Hasimir Fenring.


Il Barone Vladimir Harkonnen è un personaggio repellente, obeso oltre ogni immaginazione, sempre affamato di cibo, di denaro e di potere, il suo antagonista è il Duca Leto Atreides, con il figlio Paul, figura centrale del romanzo, una sorta di messia dalla grande umanità, che diventerà il Muad’Dib dei Fremen, il vero eroe del poema, che per questo è anche romanzo di formazione.

Herbert mette in continuazione a confronto, sottolineandone le differenze, Caladan, il mondo da cui provengono Paul Atreides e la sua famiglia, e Arrakis.


A “vegliare” su questo fragile equilibrio ci sono i Sardaukar, la potente e letale guardia pretoriana dell’imperatore.

Il potere economico invece è nelle mani della CHOAM, una corporazione che controlla i commerci e della Gilda Spaziale dei Navigatori che controllano i trasporti e i viaggi interstellari, e che guidano immense astronavi anche grazie alla prescienza. 

Tuttavia, l'invenzione più originale del romanzo è la tuta distillante dei Fremen che serve a recuperare l'acqua del corpo.


A completare il quadro, abbiamo i Mentat uomini dalle capacità mentali superiori (detti anche “computer umani”), di cui fa parte Thufir Hawat, Maestro degli Assassini, una sorta di istruttore del ragazzo; le Bene Gesserit, un ordine religioso femminile con poteri molto particolari, esercitati sempre per mezzo della mente, e che perseguono un progetto basato sull’eugenetica, di cui fa parte anche Lady Jessica, la madre di Paul, e al cui vertice c’è la Reverenda Madre, che è alla ricerca del Kwisatz Haderach, il maschio che potrà diventare come una Bene Gesserit; la piccola Lady Alia Atreides, la “Maledetta”, figlia di Leto e sorella di Paul, dotata di poteri incommensurabili; Gurney Halleck, il guerriero menestrello, uomo fedelissimo degli Atreides.

Infine, c'è l'altro antagonista: il crudele e astuto Feyd-Rauthan Rabban, nipote ed erede del Barone.


È tra il complesso conflitto di tutti questi poteri che l’universo di Dune e degli altri pianeti che fanno parte dell'Impero, viene alimentato. 

Ma come rivela lo stesso Herbert in una convention di fantascienza del 1964, le tematiche ecologiste, sociali, religiose e politiche non sono il fine, ma solo il mezzo per raccontare una storia. Il pretesto funziona, ma resta pur sempre un pretesto, perché è la fiaba la cosa più importante, non il messaggio che contiene, anche se questo ha comunque un valore intrinseco in sé.


L'idea, come dice nella citazione in testa alla recensione, gli è venuta osservando le dune dei deserti, a cui ha collegato l'ambiente arido del pianeta di Arrakis, immaginandolo molto più arido di qualsiasi deserto sulla Terra, e con delle difficoltà da superare per riuscire a sopravvivere e affrontare l’esistenza. Non per questo la tematica dell’armonia dell’uomo con il territorio in cui vive è così secondaria, anzi, fa parte della narrazione, e, nel contesto di enorme aridità del pianeta di Dune, è una tematica essenziale, così come quella di mutua dipendenza tra uomo e natura, e degli uomini tra loro.


La storia è colma di intrighi, di macchinosi complotti e di feroci giochi di potere.

L’abilità di Herbert nell'inventare un universo concepito nei minimi particolari, con una singolarissima tecnologia, è stupefacente.

Una delle costruzioni più geniali di tutta la storia della fantascienza, curata in maniera maniacale. Herbert fa un meticoloso lavoro anche sul linguaggio, partendo dalla sua passione per i dizionari.


“Dune”, ciononostante, è soprattutto un romanzo corale, con una folla di personaggi e di creature, durante la lettura del quale non è affatto facile districarsi.

L’andamento narrativo è analogo a quello della composizione di un grande puzzle, dove gli elementi non emergono subito, ma un po' alla volta, pezzi che si vanno gradatamente a incastrare per rendere la dimensione più unitaria possibile. È una costruzione non esattamente coerente, nella quale gli elementi confliggono di volta in volta, un’architettura che si sgretola per poi ricomporsi diversamente.

Ogni capitolo è introdotto da una citazione tratta dalle opere della principessa Irulan, figlia dell'imperatore. 


Tuttavia, non si tratta solo di raccontare una straordinaria fiaba per adulti, il romanzo contiene, come si diceva, anche una discreta dose di critica sociale, politica, religiosa ed ecologista di grande intensità, che lo rende ancora più interessante, visto che sono passati ben sessant’anni dalla sua prima edizione.

Tutto ciò è arricchito dalle sue esperienze personali e dal fatto che Herbert ha vissuto per diverso tempo nel deserto messicano di Sonora. Ha studiato in maniera approfondita gli ecosistemi dei deserti e tutto ciò che concerne la vita umana, la flora e la fauna di quell’ambiente.


Il ciclo di Dune è diviso in due trilogie: la prima parte da questo romanzo, che vinse sia il premio Nebula, che il premio Hugo, i due riconoscimenti più prestigiosi nell’ambito della fantascienza letteraria, il secondo atto è “Messia di Dune”, si conclude infine col terzo atto: “I figli di Dune”; tutti pubblicati tra il 1964 e il 1976.

La seconda trilogia si compone invece di: "L'imperatore-Dio di Dune” (1981), “Gli eretici di Dune” (1984) e “La rifondazione di Dune” (1985).

Il primo romanzo, a sua volta, si divide in tre parti: "Il pianeta delle dune”, “Muad’Dib” e “Il profeta”. 


Alla fine del libro, si trovano sei appendici, nelle quali sono contenute ulteriori informazioni: 1. “Ecologia di Dune” una particolareggiata spiegazione sulla spezia, i vermi e altre forme di vita; 2.“La religione di Dune”, un saggio sul complesso sistema plurireligioso, sull’importanza che per esso hanno i viaggi spaziali, sui tentativi di dialogo della C.T.E, la Commissione dei Traduttori Ecumenici, e sull’originale invenzione della Bibbia Cattolica Orangista; 3. la "Relazione sui motivi e sui propositi del Bene Gesserit”; 4. “L’Almanacco en-Ashraf” (Estratti scelti delle Case Nobili); 5. “Terminologia dell’Impero” (un semplice, ma utile glossario); e 6. “Carta di Dune” (carta geografica, con note cartografiche annesse).

Quanto la saga di “Star Wars” debba a questo romanzo, e almeno agli altri due della prima trilogia, non è difficile da capire, ma, a sua volta, è assai debitore nei confronti del “Signore degli Anelli”.

mercoledì 28 agosto 2024

“Il Settimo Sigillo” (1957) - regia di Ingmar Bergman

 


Cinema - Cult Movie 


“Il Settimo Sigillo” (1957)


regia di Ingmar Bergman 

con Max Von Sydow, Gunnar Björnstrand, Bengt Ekerot, Bibi Andersson, Nils Poppe


«E quando [l'Agnello] aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un profondo silenzio di mezz'ora. E vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio, e furono loro date sette trombe. [...] E allora il primo angelo die' fiato alla tromba, e ne venne grandine e fuoco misto a sangue. E così furono gettati sopra alla terra, e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi fu arsa, e fu arsa l'erba verdeggiante. E quindi il secondo angelo die' fiato alla tromba e una specie di grande montagna di fuoco ardente fu gettata in fondo al mare, e la terza parte del mare diventò saggia [...] E anche il terzo angelo die' fiato alla sua tromba. E dall'alto del cielo cadde una stella grande, ardente come fiaccola. La stella si chiamava [...] Assenzio.»


«Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?»


«Lo ricorderò, questo momento: il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte, i vostri volti su cui discende la sera, Mikael che dorme sul carro, Jof e la sua lira... cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo, delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare. E sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere.»





Ingmar Bergman è a mio parere il regista che meglio di altri ha saputo giocare con la dimensione onirica: in quasi tutta la sua produzione è presente, infatti, un alternarsi di sogno e di incubo, o addirittura una loro fusione in un unico elemento narrativo e visivo, con gioia, ironia, sarcasmo, terrore e orrore, anche nello svolgersi di uno stesso contesto, o di una stessa unica sequenza. Uno degli autori più visionari della “settima arte”, ma nello stesso tempo spietatamente realista. È stato un raffinato interprete del tema del doppio e dell’ambiguità.


Tra le tante cose incredibili di un film come il “Settimo Sigillo” non si può non evidenziare il fatto che un capolavoro del genere sia stato girato solo in trenta giorni e con pochissimi mezzi.

Erano infatti queste le condizioni poste dalla produzione al regista che lo aveva fortemente voluto, stimolato, a sua detta, anche dall’ascolto dei “Carmina Burana” di Orff. 


Il film è un riadattamento di una breve pièce teatrale in un atto unico dello stesso Bergman dal titolo “Pittura su legno”, ed è infatti ispirato agli affreschi contenuti in alcune chiese medievali. Non so se tra questi ci fossero anche opere di Albrecht Dürer, in quanto è proprio l'artista tedesco che viene soprattutto in mente guardando il film.


“Il Settimo Sigillo” contiene l’essenza del medioevo in tutte le sue manifestazioni: sia in quelle idilliache, nelle quali viene celebrato il trionfo della vita, sia nel loro contrario, nel tremendo incedere della morte. 

Una delle sequenze più esplicite in questo senso è quella della festosa e dionisiaca rappresentazione buffonesca della compagnia dei guitti, interrotta dall’irrompere del tristo corteo dei flagellanti.


All’interno del film sono rintracciabili, inoltre, una pluralità di temi differenti, consegnati di volta in volta all’immaginario collettivo: il peccato, l’espiazione, la superstizione, il terrore panico per la fine di tutte le cose, l’angoscia esistenziale che viene ad affacciarsi sulla scena della Storia, il disarmato e magico contatto con la natura, l’eresia, il dubbio e l’assurdità della guerra; la ricchezza e la complessità stessa del medioevo, epoca, tutt’altro che schematizzabile. 


Tuttavia, è la sequenza del cavaliere Antonius Block che gioca a scacchi con la Morte, sullo sfondo di una cupa spiaggia sassosa e deserta, con il mare mosso e un cielo plumbeo colmo di nubi, testimoni e messaggeri di un’apocalisse incombente, ad entrare nel mito. Una delle sequenze in assoluto più famose della storia del Cinema. 

L'apocalisse è rappresentata qui dall’arrivo della peste, che si teme possa probabilmente portare con sé la fine del mondo.


La varie sequenze degli scacchi e quella finale della macabra processione al seguito della Morte riassumono sinteticamente e meravigliosamente il senso di tutto il film, fatto di luce, ombra, di chiaroscuri, di passioni in tumulto, di delirio mistico e di bruciante affermazione dell’esistenza.

Il cavaliere e il suo scudiero sono ombre alla deriva di ritorno dalla Crociata. Hanno già visto in faccia la Morte, ma solo il primo sa riconoscerla nella sua personificazione, perché ancora crede che il divino possa in qualche modo rivelarglisi. 


Sono entrambi come svuotati dalla guerra, il cavaliere però non si arrende, tormentato dall'ossessione della ricerca di Dio. Lo scudiero Jöns invece è oramai assolutamente privo di speranza ed è posseduto da un infinito, ironico e cinico disincanto, da un assoluto nichilismo. È un uomo già volto verso un’asettica razionalità, dalla quale contempla unicamente il vuoto assoluto. Si fa beffe del timore e del sentimento spirituale. Per lui tutto è già finito.


È l'eterno conflitto tra chi vuole trovare a ogni costo un senso e chi ha perso ogni illusione. Il rogo della strega è la terribile simbolica sintesi tra le due condizioni. Lei non ha visto Dio, ma sicuramente sa che cos'è il diavolo, e il maligno forse sa dove può trovarsi Dio. 

In fondo, cavaliere e scudiero non hanno visioni così opposte, inconciliabili. Sono come due facce d’una stessa medaglia, due versioni della stessa anima umana tormentata dalla vertigine dell’insensatezza dell’esistenza.


D’altronde, è proprio con questo film, che il maestro svedese affronta la tematica del “silenzio di Dio”, a cui poi successivamente dedicherà una specifica trilogia. 

È da tale silenzio che derivano il vuoto e la disperazione dell’uomo.

Una ricerca che non troverà risposta non solo nel corso del film, ma di un’intera carriera, anche se tornerà a ossessionarlo più volte. È il punto di vista di un ateo o di un uomo profondamente religioso? C’è chi sostiene che quella del regista sia una visione influenzata, volontariamente o meno, dall’etica calvinista. 


In ogni caso, Bergman sembra suggerire, anche a se stesso, che Dio acquista senso solo quando è inafferrabile, imponderabile, lontano, e un’ossessiva ricerca può rivelarsi vana fin dall’inizio.

Tuttavia, la dilazione che il cavaliere chiede alla Morte gli permetterà di compiere una buona azione, che, a dispetto dello scudiero apre forse il sigillo della speranza e dell’amore. La presenza di Dio, nella sua assenza.


“Il Settimo Sigillo” è anche l’opera che ha lanciato definitivamente quel mostro di bravura che è stato Max Von Sydow, qui proprio nella parte del cavaliere, la cui carriera fu caratterizzata da un lungo e proficuo sodalizio con Ingmar Bergman. È comunque tutto il cast a essere fantastico: da Gunnar Björnstrand, nella parte dello scudiero, a Bengt Ekerot, negli inquietanti panni della morte, alla bellissima e solare Bibi Andersson e al brillante Nils Poppe.

lunedì 26 agosto 2024

“Orizzonti di Gloria” (1957) - regia di Stanley Kubrick

 


Cinema - Cult Movie 


“Orizzonti di Gloria” (1957)


regia di Stanley Kubrick 

con Kirk Douglas, George Macready, Ralph Meeker, Adolphe Menjou, Wayne Morris, Christiane Harlan 


«Molti artisti, quando montano una tela bianca, cominciano con dettagliati tratti di matita. Stanley cominciava tutti i suoi film in modo concettuale, secondo me, con grandi pennellate di colori primari, e batteva su questi concetti che erano abbastanza ovvi. In Orizzonti di gloria, per esempio, ogni sequenza ha un suo messaggio chiaro, ma in ogni sequenza la regia è sottile e quasi gentile.»

Steven Spielberg 


Almeno quattro film di Kubrick trattano ampiamente di antimilitarismo e pacifismo. “Orizzonti di gloria”, meno celebrato e meno famoso del “Dottor Stranamore” e di “Full Metal Jacket”, che di solito, è proprio il caso di dirlo, si prendono tutta la scena, è il secondo atto di questa non ufficiale tetralogia dopo “Paura e desiderio” (il suo primo film in assoluto, non del tutto riuscito, tanto da essere disconosciuto dal regista stesso). 


Tuttavia, è proprio “Paths of Glory” il film in cui Kubrick rompe gli indugi per la prima volta e lo fa con una perfezione che ha dello straordinario, ma dirò di più: è questo il film antimilitarista per eccellenza della storia del Cinema.

“Orizzonti di gloria” è anche la prima opera della maturità artistica del regista. Non che i tre film precedenti siano opere da disprezzare, anzi. Soprattutto “Rapina a mano armata” è già un capolavoro. Ma quando si parla di Kubrick il metro di giudizio è direttamente proporzionale alla sua grandezza, veramente fuori norma.


Il film subì l’ostracismo della censura francese, fu vietato anche in Svizzera e nella stessa Germania, che non volevano che fossero turbati i rapporti con la Francia, ed ebbe difficoltà per lo stesso motivo negli USA, dove riuscì a passare solo grazie a Kirk Douglas, che ne era anche il produttore, portandosi appresso però polemiche e riprovazione. In Francia, venne proiettato solo nel 1974, quando fu abolita ogni forma di censura politica. L’ottusità del potere militare incontrò, non a caso, quindi, quella della censura. 


I francesi si sentirono offesi nel loro onore, non capendo che l'intento di Kubrick non aveva come obiettivo propriamente la Francia, ma il militarismo tout court, e per fare questo prese come soggetto il romanzo omonimo di Humphrey Cobb, riadattandolo per il grande schermo, e quindi la decisione di quali dovessero essere gli attori in quel contesto, con la scelta del fronte franco-tedesco della Grande Guerra, non fu dettata da altre motivazioni, se non quella offertagli da un buon modello letterario.


Seguendo la linea narrativa sulla guerra e aggiungendo anche “Spartacus” e “Barry Lyndon”, si dovrebbe avere ben chiaro quale fu il discorso complessivo di Kubrick, inserito in quello più vasto sulla violenza tout court proprio dell'intera sua filmografia. 


Probabilmente, il sottoscritto sarà stato condizionato anche dalla prima volta che lo vide. Mi fece a dir poco un’impressione enorme, eppure non era il suo primo film che vedevo. Ma restai assai meravigliato per la tecnica già avanzatissima delle riprese rispetto all’anno di produzione. 


È sufficiente guardare la sequenza di Kirk Douglas che passa in rassegna, apparentemente imperturbabile, la bolgia infernale, polverosa e dantesca della trincea, o il seguente attacco fallito al Formicaio tedesco, coi soldati francesi circondati dal fuoco delle esplosioni, un’atmosfera talmente realistica, da sconfinare nel surreale.


Tuttavia, ciò che mi stese veramente fu il finale. A mia memoria, dopo tanti anni, posso dire con relativa certezza che un finale più commovente e struggente non l’ho mai visto; e ogni volta, non mi vergogno a dirlo, sono lacrime. 

Ogni sequenza è comunque magistrale, quella del processo, immerso in un cupo e glaciale ambiente kafkiano, con tanto di pavimento a scacchi, nella quale si respira l’ineluttabile e venefica disumanizzazione della guerra e degli eserciti.


E ancora quella della cella in cui sono rinchiusi i tre poveracci che aspettano che il loro destino si compia, mentre sono in compagnia di un impotente cappellano, la cui presenza serve a conferire legittimità religiosa alla barbarie. 

Inappuntabile l’interpretazione di Douglas, tuttavia la prova attoriale migliore la offre George Macready nei panni del mefistofelico generale Paul Mireau.


La messa in scena di Kubrick della violenza consegna crudamente la degenerazione dell’essenza umana all'abominio dell’auto distruttività. Ogni giustificazione non fa altro che renderla ancora più mostruosa. Così come non esiste violenza giustificabile, non esistono guerre giuste. Il militarismo è solo il culto che la legittima, che ha come massimi sacerdoti i vertici militari, in ogni epoca e in ogni luogo.

Alla fine di ogni guerra, c'è solo morte, e proprio per questo tutto diventa lecito.


“Orizzonti di gloria” non cambiò solo il corso della vita artistica del regista americano, ma anche quello della vita privata. Fu proprio sul suo set che Kubrick incontrò l’amore della sua vita: l’attrice tedesca Christiane Harlan, unica figura femminile del film e protagonista proprio dell’ultima sequenza, che sposò nel 1958 e con la quale rimase fino alla morte.

sabato 24 agosto 2024

La scienza non è neutra


Avremmo dovuto imparare, almeno dal 2020 in poi, che la scienza non è neutra e così pure la tecnologia, a meno non si vogliano spacciare, in nome del progresso, come conquista dell’umanità anche le armi nucleari.

Non tutto ciò che l’uomo sperimenta e inventa è potenzialmente buono e giusto. E neanche che sia buono o cattivo a secondo di come lo si usi, e ancora peggio, di chi lo usi.


Che scienza e tecnologia progrediscano è sempre un bene, ma che lo facciano almeno a beneficio del singolo individuo anche quello più povero e senza potere, e non di interessi finanziari e di potere politico, sarebbe il minimo.

Sarebbe bene ricordare, inoltre, che il mezzo contiene sempre il fine e alcune innovazioni sono strumenti di oppressione in sé, o meglio, sarebbe bene valutare di volta in volta, cum grano salis, quanto e come l’applicazione di nuove tecnologie possa costituire un passo avanti, e quanto invece siano strumento di controllo, tracciamento e di distruzione dell’umano. 


Faccio un esempio, nel settore del digitale: un apparecchio per l’udito, oppure una protesi di un arto sono sempre un bene, qualora sia garantito il diritto alla privacy, e l'esclusivo controllo da parte dell’utente. Stessa cosa non si può certo dire del riconoscimento facciale, cosa del tutto superflua, che non apporta alcun benessere agli individui, ma solo uno strumento di controllo in più in mano ai dominanti, mascherato da comodità per i cittadini.

venerdì 23 agosto 2024

Magnus, “Lo sconosciuto” (1975-76, ristampa del 1998)

 


Classici del fumetto


Magnus, “Lo sconosciuto” (1975-76, ristampa del 1998)


Ci sono iniziative editoriali destinate ad acquisire valore artistico, estetico, culturale e antropologico, col trascorrere del tempo e a passare in qualche modo alla Storia. È questo il caso anche del presente fumetto, raccolto da Einaudi nell’ormai lontano 1998, nella presente pubblicazione, nella quale sono contenuti i sei volumi di un’opera uscita a metà anni settanta. Sono passati quindi più degli anni che la separavano dall’originale, ovverosia in tutto quasi cinquant'anni.


Scrivere di Roberto Raviola, in arte Magnus, non è affatto facile, anche se se n'è parlato moltissimo. Non è facile perché vuol dire parlare dell'epoca d'oro del fumetto italiano che attraversa almeno tre decenni: gli anni sessanta, settanta e ottanta. E di come l’opera di Magnus si venga a innestare perfettamente in questo periodo, quali influenze culturali assorba e come diventi influente a sua volta.


Vuol dire parlare di gente del calibro di Hugo Pratt, Milo Manara, Guido Crepax, le sorelle Giussani, Gianluigi e Sergio Bonelli, Andrea Pazienza, Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Max Bunker, Alfredo Castelli, Tiziano Sclavi, Gianfranco Manfredi e la coppia Berardi / Milazzo. E delle loro creature.

Vuol dire parlare di fumetto italiano.


Alcuni di loro, sceneggiatori, altri disegnatori, altri ancora entrambe le cose, hanno lasciato un segno indelebile e uno stile inconfondibile che ha fatto scuola negli anni successivi.

Magnus fa parte di quelli con maggiore inventiva, capacità, fantasia ed eclettismo. Era disegnatore e sceneggiatore, a volte da solo, altre volte in collaborazione.

Fu disegnatore dal tratto inconfondibile e profondamente personale, ideatore di decine di personaggi e di molteplici storie. 


È famoso soprattutto per l’assoluta, geniale invenzione, insieme a Max Bunker, del celeberrimo Alan Ford e del suo Gruppo TNT, e in tono minore di Maxmagnus, tuttavia, ha al suo attivo una carriera molto intensa.

Il sodalizio con Max Bunker era iniziato un po' di anni prima di Alan Ford, nel 1964, con Kriminal e con Satanik, la risposta più nera, con elementi fantasy, horror e sadomaso, al Diabolik delle Giussani. 


E con quel sodalizio che verrà formandosi la vena trasgressiva di Magnus, che quando si troverà ad agire in solitaria diverrà incontenibile. Basti ricordare le sue opere di quel periodo, in cui i temi legati ai due criminali in costume, verranno estese e comprenderanno generi diversi (storico, fantascienza, fantastico, grottesco, thriller, horror), uniti spesso dal comun denominatore erotico, al limite del pornografico, come nella novella capolavoro “Le centodieci pillole”, o come nella collaborazione con diversi numeri della rivista “Casino”. 


Almeno un altro sodalizio andrebbe ricordato, però, quello con Giovanni Romanini, con la creazione della spassosissima "Compagnia della Forca”.

Questa evoluzione lo porterà nel 1975 a iniziare un ciclo, e all’interno di esso a pubblicare sei album per la rivista “Orient Express”, riuniti insieme in questa raccolta, di un altro personaggio molto interessante: “Lo sconosciuto", che poi nella presunta fantasiosa versione originale del fumetto sarebbe “Unknow” senza la enne.


Il fumetto è caratterizzato da una marcata contaminazione di generi diversi: avventura, thriller, noir e spionistico. Il protagonista infatti è un avventuriero, mercenario, un po’ anarchico, che si trova a vivere molteplici situazioni, intrighi internazionali, traffico di armi e di droga, omicidi, terrorismo, guerra. Ovviamente, pesa molto il contesto storico e val la pena sottolineare che le storie non tengono esattamente conto del politically correct, e non si risparmiano in quanto a violenza. Sono dure, sporche, cattive e ciniche, come il protagonista.


Più che il contenuto in sé, legato a un certo periodo e a un certo punto di vista, bisogna tener conto dell'intreccio con cui sono costruite le storie, dei personaggi e della qualità del disegno. 

Le vicende sono ambientate in Marocco, a Roma, a Mont Saint Michel, ad Haiti e nel Libano. Unknow è coinvolto, il più delle volte suo malgrado, con trafficanti, mafiosi, faccendieri, politici e guerriglieri.

Tornerò più in là a parlare di nuovo di Magnus.

mercoledì 21 agosto 2024

“Rapito” (2023) - regia di Marco Bellocchio

 


Cinema


“Rapito” (2023)


regia di Marco Bellocchio

con Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Edoardo Maltese, Fabrizio Gifuni


Avete per caso sentito parlare del bellissimo film "Rapito" di Marco Bellocchio, uscito l’anno scorso? Non preoccupatevi se la risposta dovesse essere negativa, è normale. Sui mass media e sui social, si è preferito, come al solito, fare polemica tra squadre contrapposte sul mediocre film della Cortellesi, oppure su “Io capitano”, piuttosto che parlare di uno dei film italiani migliori degli ultimi anni, diretto da uno dei pochi registi veri ancora in attività.


È tratto da una storia vera, con protagonista negativo uno dei papi più antisemiti della storia: Pio IX. Al centro della trama il noto caso di Edgardo Mortara, bambino ebreo di Bologna strappato alla sua famiglia nel 1858, dai vertici ecclesiastici, perché battezzato di nascosto da neonato da una domestica di casa, che voleva salvarlo dal Limbo. Le norme canoniche dello Stato pontificio proibivano a una famiglia non cristiana di crescere ed educare un bambino battezzato come cristiano.


Classico caso fondato sul paradigma antigiudaico del popolo deicida testimone, vecchio di più di millesettecento anni, che la chiesa cattolica, fino al Concilio Vaticano II, promuoveva con il fine della conversione, forzata o meno, di tutti gli ebrei, e che tanto peso ha avuto anche sulla formazione dell'antisemitismo moderno. Era il sistema di umiliazione, quello che lo storico Jules Isaac definiva “insegnamento teologico del disprezzo”, il cui inizio coincide con l'ascesa al potere politico della Chiesa cristiana.


Ma che aveva già gettato le basi alla fine del primo secolo, al tramonto del giudeo - cristianesimo, sulla ceneri di una Chiesa nata profondamente ebrea, e a causa dell’inasprirsi del conflitto tra giudaismo rabbinico e giudaismo cristiano, con inevitabile e dolorosa separazione definitiva della Chiesa dalla Sinagoga.

“Rapito”, oltre ad essere scrupolosamente fedele nella ricostruzione storica, risulta fin da subito appassionante, con un ritmo assai sostenuto, ed è liberamente tratto dal libro di Daniele Scalise “Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa”.


Devo confessare che pochissimi film prodotti negli ultimi anni sono riusciti a destare il mio stupore, film italiani poi, ancora di meno. Ho visto ottimi film, magari anche dei capolavori, ma opere che mi hanno veramente stupito, no. 

Bellocchio riesce in questa sorta di miracolo, sia per la tematica trattata, sia per la grande inventiva, che per la capacità di sintesi.


“Rapito” è un’eccellente opera sull'intolleranza, che parte da quella religiosa, fino a estendere la sua critica alle dinamiche che la sorreggono, fondate sulla riproduzione culturale di un pregiudizio che si perde nei meandri del fanatismo, dell’irrazionalità, del plagio, dell’indottrinamento e della superstizione. Bellocchio rintraccia perfettamente quali siano i meccanismi della manipolazione da parte del potere, che prescinde anche da quello religioso, riesce ad essere magicamente esaustivo e non dimentica nulla sull’argomento. 


Il film è girato con grande maestria in un’atmosfera soffocante e claustrofobica e si avvale di attori tutti bravissimi. Una particolare menzione meritano innanzitutto Paolo Pierobon nella parte di un delirante Pio IX, Fabrizio Gifuni che interpreta l'inflessibile inquisitore Pier Feletti, Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi, nelle parti rispettivamente della madre e del padre di Edgardo, colti perfettamente nel loro indescrivibile dolore, ma indisponibili al ricatto di dover rinunciare alla loro religione per convertirsi, al fine di poter riabbracciare il loro bambino.


Le sequenze da ricordare sono diverse, distribuite in tutto il film. Ma su tutte, val la pena di menzionare quella che non può essere dimenticata: Edgardo bambino, che colto dal senso di colpa, sogna di arrampicarsi su un enorme crocifisso e di togliere i chiodi dalle mani e dai piedi del Cristo.


Bellocchio ha dimostrato di avere coraggio a scegliere questo soggetto, sia per ovvie implicazioni politico religiose, sia perché è un argomento che poteva rivelarsi assai scivoloso. Dimostra invece di saperlo trattare con il dovuto equilibrio, ma senza indecisioni e senza mitigarne il messaggio complessivo.

 

Un film importante, insomma, in un periodo in cui assistiamo a un pericoloso rigurgito di tradizionalismo cattolico, reazionario, antisemita e anticonciliare, il cui intento è appunto la cancellazione del Vaticano II. Il cattolicesimo sa essere ben altro, per fortuna.

Usare la parola “capolavoro” non è affatto esagerato, allora. Una rara luce nel panorama italiano odierno.

lunedì 19 agosto 2024

“Dr. Cyclops” (1940) regia di Ernest B. Schoedsack

 


Cinema - Cult Movie 


“Dr. Cyclops” (1940)

regia di Ernest B. Schoedsack

con Albert Dekker, Thomas Coley, Janice Logan, Charles Helton, Victor Kilian, Frank Yaconelli, Paul Fix, Frank Reicher


I motivi di interesse legati a questo B-movie da culto sono quasi tutti relativi a fattori visivi, e cioè alla curiosità che può destare un’opera di più di ottant'anni fa, come primo esempio di fantascienza in technicolor. Ed è proprio l’uso del technicolor uno degli elementi più qualitativamente apprezzabili. 

Desta abbastanza stupore, inoltre, come certe trovate sceniche e certi effetti speciali possano conservare il loro fascino dopo tanti anni. Il Cinema fa di questi miracoli.


Certo, tutto è relativo, per cui l’evidente usura del tempo gioca la sua parte. Soprattutto sulla sceneggiatura e in parte sulla regia. Tuttavia, l’impegno artigianale profuso è encomiabile e può essere ancora oggi ritenuto oggettivamente un elemento di grande qualità. 

La storia è un riadattamento dei miti di Prometeo e di Polifemo fusi insieme in chiave fantascientifica. 


Il protagonista principale della storia è uno scienziato in pieno delirio di onnipotenza, il dottor Thorkel, che gioca a fare Dio, manipolando i delicati equilibri naturali. Scopre come miniaturizzare gli esseri viventi con l'ausilio dell’energia atomica. E coinvolge in questa impresa in maniera casuale un gruppo di scienziati, che aveva convocato solo per un consulto.

Il crescendo di follia è a questo punto inevitabile.


L'analogia con la storia di Polifemo è notevole, ma l’espediente narrativo è esattamente capovolto.

Nel mito omerico, Ulisse e i suoi compagni non subiscono alcuna mutazione fisica, si trovano catapultati al cospetto di un gigante. In Dr. Cyclops, è la riduzione delle dimensioni dei malcapitati ad essere fuori norma, e quindi a far sì che vengano alterate le percezioni dei due punti di vista.


Inoltre, il punto di vista delle vittime è quello dominante nella narrazione, si identifica immediatamente con chi ha subito un sopruso e diventa anche quello dello spettatore. Questo viene confermato da alcuni aspetti, come la percezione dei movimenti del “ciclope” da parte delle vittime e il suo provvisorio accecamento, così come è anche provvisoria la miniaturizzazione.


La provvisorietà della situazione che vivono i personaggi è anche la chiave di interpretazione del film. La condizione è provvisoria in quanto è artificiosa e dipende da fattori esterni a quelli naturali. 

Anche l’incipit del film, calato in un'atmosfera onirica, è velato da un gioco di ombre e da riflessi colorati, come se fosse ancora in bianco e nero. È la rottura dell’equilibrio che conduce quindi all’irrompere del potente e innaturale colore.


Il regista, Ernest B. Schoedsack, all’epoca era già famoso. Aveva diretto insieme a Merian C. Cooper, il mitico “King Kong” del 1933. E, sempre in duo con Cooper, anche “Gli ultimi giorni di Pompei” del 1935.

L’interpretazione di Albert Dekker ha il merito di donare al film la dose di qualità necessaria per entrare a far parte della leggenda. Il gigante calvo con gli occhialini è qualcosa che resta indelebile nella memoria. Da bambino, era uno dei miei film preferiti, sospeso tra terrore e fascino. Un retrogusto di quella sensazione è ancora presente quando mi capita di rivederlo.

“Nodo alla gola (Rope)” (1948) - regia di Alfred Hitchcock

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