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venerdì 12 dicembre 2025

Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, “L’uomo della sabbia” (1816)


Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, “L’uomo della sabbia” (1816)

«Preso dalla curiosità di saperne di più su chi fosse quella creatura e che cosa avesse a che fare con noi bambini, mi rivolsi infine alla vecchia che si occupava di mia sorella più piccola chiedendole chi fosse mai quest’uomo della sabbia. «Ma come Thanelchen» replicò quella «ancora non lo sai? È un uomo cattivo che viene dai bimbi che non vogliono andare a letto e gli butta manciate di sabbia negli occhi fino a farglieli schizzare via tutti pieni di sangue; lui poi li getta nel sacco e li porta sulla mezzaluna in pasto ai suoi figli, che se ne stanno dentro il nido e hanno becchi ricurvi come quelli delle civette per poter beccare gli occhi dei bimbi cattivi.» L’immagine dell’uomo della sabbia, crudele e disgustosa, mi si era dunque dipinta nell’animo; quando la sera sentivo le scale rintronare, tremavo di paura e di terrore. E la mamma non riusciva a strapparmi altro che il grido: «L’uomo della sabbia!, l’uomo della sabbia!» balbettato fra i singhiozzi. Dopodiché correvo nella mia stanza e per tutta la notte ero torturato da quella terribile apparizione.»

Nel 1919, poco più di un secolo dopo che E.T.A. Hoffmann aveva scritto questo piccolo grande gioiello, Freud pubblicò il saggio sul Perturbante e scelse proprio L’uomo della sabbia come testo letterario chiave per illustrare la sua teoria. Il perturbante, secondo Freud, non nasce da ciò che è totalmente ignoto, ma da qualcosa di familiare: è l’orrore che deforma ciò che conosciamo, ciò che ci è già vicino. La novella, per questo, è ben lontana dall’essere un semplice racconto del terrore.

La psicoanalisi freudiana gioca con il linguaggio: la parola tedesca Unheimlich è composta da un- (negazione) e heimlich (“familiare”, “domestico”, ma anche “nascosto”, “segreto”). Letteralmente, Unheimlich significa “non-familiare”, “non-casalingo”: qualcosa che è stato rimosso e riaffiora all’improvviso, il familiare che diventa estraneo e minaccia la stabilità dell’identità individuale. A farci paura non è ciò che non abbiamo mai visto, ma il ritorno del rimosso, che riappare celato o travestito. Il doppio, il Doppelgänger, diventa così un segno di morte.

Il perturbante è dunque il fallimento di un meccanismo difensivo deputato a tenere nascosti ricordi sgradevoli, paure e traumi infantili. Nel racconto di Hoffmann esso si incarna nel doppio di Nathanael, rappresentato da Coppelius/Coppola, e nella figura ambigua di Olimpia, automa insieme animato e inanimato. Per Freud, il trauma originario si fonda sulla paura della cecità, letta come metafora della castrazione.

Il racconto, basato su un'antica leggenda del folklore germanico, è pervaso da un’inquietudine crescente ed è scritto con una mirabile scorrevolezza: un moto irrefrenabile verso un epilogo intuibile sin dalle prime righe. Hoffmann intreccia prospettive differenti, una polifonia di voci che amplifica l’incubo, l’ossessione e l’effetto orrorifico. Per farlo ricorre a un espediente tipico della narrativa gotica dell’epoca: le lettere che i personaggi si scambiano e il diario che accompagna la voce narrante.

L’ambiguità tra trauma infantile e soprannaturale è l’essenza stessa del racconto. È ciò che costruisce quell’atmosfera sospesa e rarefatta che influenzerà tanta letteratura gotica e mistery successiva; e ovviamente ha ispirato anche il Sandman di Neil Gaiman. La maschera che ritorna sotto forme diverse produce un effetto straniante, a tratti allucinatorio. Attraverso questo registro visionario, Hoffmann parla anche di altro: della mente che costruisce la propria persecuzione mediante associazioni irrazionali, prive di fondamento nella realtà, ma capaci di innescare l’autodistruzione.

Uno dei temi portanti, oltre alla vista come strumento che crea o trasfigura la realtà (lo sguardo di Nathanael, gli occhi di Olimpia, il binocolo maledetto), è un secondo aspetto del perturbante: l’illusione della perfezione che nasconde una natura meccanica, artificiale, imitativa dell’umano. In questo senso Hoffmann anticipa non solo la psicoanalisi, ma anche questioni etiche e scientifiche moderne. L’automa diventa anche simbolo del bisogno narcisistico: il desiderio di amare ed essere amati da un oggetto che incarni l’idea di completezza.

Hoffmann insiste su un tratto che ritroviamo anche nel Doppelgänger: la verità non è univoca, ma nasce dalla tensione continua tra percezione soggettiva e realtà condivisa. La storia diventa così una riflessione radicale sul rapporto tra identità, paura e costruzione psichica del mondo. L’uomo della sabbia è un’entità demoniaca reale, oppure una proiezione della psicosi di Nathanael? Hoffmann, neppure nel finale, offre una risposta definitiva: lascia il lettore immerso in un universo di ambiguità, lo stesso in cui l’essere umano è costantemente chiamato a confrontarsi.


[Nell'immagine: Nathaniel, nascosto dietro ad una tenda, spia gli esperimenti alchemici di suo padre e di Coppelius - un disegno a penna di E. T. A. Hoffmann per il suo racconto]



martedì 9 dicembre 2025

Kafka e l’autosorveglianza: “la tana” come destino.


Kafka e l’autosorveglianza: “la tana” come destino.

«Mentre vivo in pace nella zona più interna della mia casa, il nemico potrebbe avvicinarsi da qualche parte, scavando lentamente e silenziosamente. Non voglio dire che egli abbia un fiuto migliore del mio; forse sa di me altrettanto poco di quanto io so di lui. Ma ci sono predatori accaniti che scavano la terra alla cieca e, data l'enorme estensione della mia tana, possono sperare di incontrare in qualche punto una delle mie vie.»

«Ma la cosa più bella nella mia tana è il suo silenzio. Certo, esso è ingannevole. Può essere rotto all'improvviso e allora tutto finisce. Ma per il momento c'è ancora. Posso strisciare per ore lungo le mie gallerie e non sentire nulla se non il fruscio di qualche animaletto che fra i miei denti riduco subito al silenzio, o un leggero franare di terra che mi segnala la necessità di una qualche riparazione; per il resto è silenzio. Dentro spira l'aria del bosco e fa caldo e freddo allo stesso tempo. Talvolta mi distendo e mi rotolo dal benessere, nella galleria.»

«Non è detto che sia un vero nemico colui nel quale posso suscitare la voglia di seguirmi, può essere benissimo un innocente qualsiasi, qualche creaturina ripugnante che mi insegue per curiosità e che, senza volerlo, diventa guida del mondo intero contro di me; non occorre neppure che sia questo, potrebbe essere, e non è meno peggio, anzi sotto parecchi aspetti è la cosa più brutta - potrebbe essere qualcuno della mia specie, un conoscitore ed estimatore di tane, un fratello del bosco, un amante della pace, ma un vero farabutto che vuole abitare, senza costruire.»

L’opera incompiuta è il destino che sembra accompagnare gran parte della vita e della produzione letteraria di Kafka. “La tana” è uno degli ultimi racconti dell’autore praghese, scritto probabilmente tra il 1923 e il 1924. Ed è incompiuto. Ma è un’incompiutezza necessaria, quasi perfetta. Si potrebbe anzi considerarlo come una sorta di epilogo ideale, una seconda parte de “La metamorfosi”: non in senso narrativo – “La metamorfosi” un finale lo possiede – ma in senso filosofico e concettuale.

Che cosa può esserci di altrettanto mostruoso rispetto al risvegliarsi trasformati in un enorme insetto, se non l’essere costretti, o peggio ancora costringersi, a vivere per sempre chiusi sottoterra? La creatura de “La tana” potrebbe essere letta come un’ulteriore metamorfosi dello stesso essere vivente, una volta umano, ora definitivamente altro: un uomo-talpa. Un processo di auto-disumanizzazione che richiama anche l’“umano, troppo umano” nietzschiano, piegato però in direzione patologica.

La ricerca ossessiva di protezione attraverso la costruzione e il perfezionamento della propria tana rivela uno stato perenne di angoscia e disorientamento. La tana è insieme spazio fisico, psichico, metafisico e politico-esistenziale. Siamo di fronte a un’architettura della paura che produce una trappola senza via di fuga, peggiore di qualunque rischio esterno si possa temere.

Il racconto è affidato alla voce della stessa creatura che, nel descrivere minuziosamente ogni dettaglio della propria opera, rivela lo stato paranoico in cui è sprofondata: una prigione mentale che si trasforma in una prigione fisica da incubo. Questa prigione presenta evidenti analogie con quella burocratico-teologica rappresentata ne Il processo e ne Il castello. Qui, però, il controllo esercitato da entità esterne si trasforma progressivamente in autosorveglianza. Anche le rare incursioni in superficie non sono mai vere aperture verso l’esterno: restano sempre funzionali all’esistenza della tana, che incombe come un’entità onnipresente.

Il costruttore della tana non dorme mai, ascolta ogni minimo rumore, teme nemici che non ha mai visto, ricalcola senza sosta le proprie difese, vive nel terrore costante di un attacco imminente. Si infligge sofferenza continua, fino all’autolesionismo. La tana, da rifugio contro la paura, diventa l’architettura stessa che genera terrore e dolore. Architettura psichica e fisica insieme: ciò che sfugge alla creatura è che il vero pericolo, quello più grande, non viene dall’esterno, ma abita dentro di lei. Non è l’insicurezza esterna a produrre l’angoscia, bensì l’illusione di poterla eliminare attraverso sistemi di controllo totale.

L’estrema razionalità dell’architetto si rovescia così in paranoia assoluta. Il persecutore esterno, in realtà, non esiste: è un concetto generato dalla mente della creatura, che sembra al tempo stesso desiderare l’esistenza di un nemico e temerla disperatamente. Vivere significa forse essere sotto assedio permanente? Un’esistenza senza la paura dell’avversario sarebbe vuota, inconcepibile? La paranoia diventa così uno stato ontologico. Ed è da questo stato che derivano anche le sue implicazioni “politiche”: l’accettazione del controllo totalitario su se stessi e sugli altri, fino a diventarne complici attivi.

Con “La tana” Kafka sembra dialogare con l’intero pensiero novecentesco sulla società della sorveglianza, della sicurezza preventiva, dell’emergenza permanente. Scrive prima del pieno compimento dei totalitarismi storici, sulla soglia del mondo che li produrrà, ma ne anticipa con impressionante lucidità la psicologia profonda: la paura come principio di governo. E, allo stesso tempo, anticipa la tendenza al totalitarismo latente nelle società contemporanee. Il suo è un concetto universale.

L’identificazione con la propria tana è totale, non solo mentale ma anche fisica: non si può più vivere senza la paura dell’Altro, senza questa percezione costante di minaccia, fino al punto da non riuscire più a comprendere che ognuno di noi può trasformarsi nel nemico di se stesso, nella stessa tana che lo assorbe e lo consuma. Lo spazio e il tempo, percepiti in forma circolare, diventano così senza soluzione e senza sbocco, privi di una reale possibilità di liberazione.

A questo punto, non esiste neppure una necessità oggettiva, da parte di un potere dominante, di creare un nemico per controllarci: è sufficiente l’autosorveglianza. Ed è ciò che avviene anche nel potere politico attuale, sempre più come un misto di dispotismo e propaganda, capace di produrre paura e un bisogno estremo di protezione, alimentando uno stato d’eccezione permanente, i cui primi custodi e gendarmi finiamo per essere noi stessi.

È per questo che l’incompiutezza del racconto risulta perfetta. La conclusione è narrativamente impossibile, perché dovrebbe implicare la messa in discussione del presupposto ontologico stesso: comprendere che la sicurezza assoluta non è il contrario della paura, ma la sua forma più tragica e definitiva. Ci si potrebbe interrogare su come sfuggire a tale paura, su come capovolgere questo destino e se sia davvero possibile farlo. Ma è lecito dubitare che Kafka avrebbe mai accettato un finale orientato verso una soluzione.


domenica 7 dicembre 2025

David Bowie, “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” (1972)


David Bowie, “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” (1972)

Così come la fantascienza può essere definita letteratura d’anticipazione, le composizioni del Duca Bianco possono essere definite musica d’anticipazione. Con questo album immenso, il legame con la fantascienza non è soltanto nominativo ed esplicito, ma diventa anche profondamente simbolico.

“The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”, con diversi anni d’anticipo, suonava già come un disco di new wave: anticipava suoni, forme e attitudini che sarebbero esplosi più tardi. Molta della new wave inglese di fine decennio e dell’inizio di quello successivo deve moltissimo a Bowie, e questo è probabilmente il suo album più “saccheggiato”. E che cos’è, per esempio, “Suffragette City”, se non un vero e proprio anthem punk ante litteram?

Bowie ci ha abituati, nel corso della sua carriera, a continui miracoli sonori. Qui ne sono contenute svariate tipologie. Nella sua forma di concept album, “Ziggy Stardust” ci introduce a una storia destinata a diventare leggenda. Il Duca inventa un personaggio che è insieme metafora artistica ed esistenziale: un alieno, rockstar caduta sulla Terra. Non a caso, pochi anni dopo, uscirà il film di Nicolas Roeg con lo stesso Bowie protagonista, tratto dal romanzo di Walter Tevis, che riecheggia in modo evidente proprio l’universo simbolico di questo disco.

In realtà, Bowie lavorava già da anni in questa direzione: se ne avvertivano i prodromi fin dall’album d’esordio del 1967. Ma la traiettoria si chiarisce davvero a partire da “Space Oddity”, “The Man Who Sold the World” e soprattutto “Hunky Dory”. È pur vero che anche Marc Bolan, prima con i Tyrannosaurus Rex e poi con i T. Rex, percorreva una direzione affine: ambiguità sessuale, trasformazione dei generi musicali, capacità di anticipazione su punk e new wave. Bowie incarnava il lato più romantico e visionario, Bolan quello più sotterraneo e tribale. Ma fu l’investimento radicale sull’immagine a fare la differenza decisiva. La metamorfosi continua della sua estetica emerse come elemento di rottura definitiva.

Anche un altro film, la celeberrima opera rock del 1975 “The Rocky Horror Picture Show", si ispirerà in buona parte al personaggio di Ziggy Stardust, seppur in modo meno diretto. E se è vero che in quel periodo il travestitismo era già entrato nell’immaginario collettivo del rock, lo si doveva ancora una volta, in larga misura, proprio a Bowie.

David Bowie è nato alieno ed è vissuto come alieno in mezzo a noi. Qualcuno lo ha definito il Leonardo da Vinci del rock, e l’artista toscano, in fondo, era a sua volta un “alieno”. Alieni, però, profondamente umani. Bowie è stato un profeta, un messia androgino, maschio e femmina insieme, venuto dalle stelle: lo Starman che si incarna nell’astronauta terrestre di “Space Oddity”, che diventa Ziggy Stardust, muore e rinasce come Major Tom, per poi morire ancora, in una spirale di metamorfosi continue.

L’album si apre con la scanzonata e geniale profezia apocalittica di “Five Years”, e da quel momento, per quasi quaranta minuti, il miracolo si dispiega con una naturalezza decadente e insieme con una vitalità inaudita: tra piacere e sofferenza, ascesa e caduta, angelo e demone. Si alternano pop, psichedelia, rock’n’roll, folk song, in un equilibrio perfetto.

Così scorrono tutte le tracce del disco, una più bella dell’altra, fino all’epilogo oscuro, alla catarsi tragica di “Rock’n’ Roll Suicide”. Ziggy Stardust, oltre a essere una parabola sull’artista come eccesso, genio, ambiguità e sregolatezza, è un’opera profondamente autobiografica. È così anticipatrice da raccontarci già il Bowie che verrà: i suoi suicidi metaforici, la disponibilità a uccidersi e rinascere ogni volta, come vero artista camaleontico.

Ziggy, dopo il tour del 1973, non tornerà più in quella forma. Bowie lo “uccide”, ma nello stesso tempo lo interiorizza: continua a cadere sulla Terra infinite volte, fino al cupo Blackstar, che annuncia la sua morte materiale. Ma simbolicamente Bowie continua a “cadere” tra noi anche oggi, quando l’artista non c’è più — come accade solo alle grandi anime dell’arte.


mercoledì 3 dicembre 2025

La spirale del silenzio - reloaded


LA SPIRALE DEL SILENZIO - RELOADED

Questo mio post è stato pubblicato, nel corso degli anni, in diverse versioni, sia sui social sia su alcuni blog. Lo ripropongo ancora una volta modificato, riadattandolo alle mutate condizioni e alle mie mutate percezioni. La prima versione risale al 2018. Il tema centrale rimane identico perché, pur cambiando il contesto, la dinamica comunicativa analizzata resta immutata. 

Lo stato d’eccezione del triennio posto all’inizio degli anni Venti di questo secolo ha accentuato un processo già avviato, alterando comportamenti, percezioni e rapporti con l’Altro, tanto sul piano fisico quanto su quello morale. Dal 2023, la percezione di un diffuso stato di guerra ha sostituito nell’immaginario collettivo l’emergenza sanitaria, instaurando uno stato d’eccezione non dichiarato ma, di fatto, in continuità diretta con il precedente.

In questo scenario l’opinione pubblica ha continuato a fratturarsi: la polarizzazione estrema è diventata lo stato naturale delle cose, accentuando le dinamiche amico-nemico e alimentando livelli crescenti di intolleranza. Si finisce così per subire la pressione della relazione conflittuale e ci si autocensura preventivamente, prima ancora che intervengano gli altri, con conseguenze ancora più nefaste. L’effetto collaterale è un crescente senso di estraneità rispetto ai propri gruppi di appartenenza.

Anche chi si accorge dell’inganno, spesso, è portato a tacere per timore di essere etichettato. E, come nelle più celebri distopie, finisce con il perdere contatto con molti dei propri simili, provando un senso di colpa che lo frena dall’oltrepassare il limite della libera espressione. A ciò si aggiunge un’ulteriore dinamica, alimentata dalla propaganda — non solo mainstream, ma anche da gran parte della cosiddetta controinformazione — che genera conflitti orizzontali spesso artificiosi, i quali trovano terreno fertile nella fragilità psicologica degli individui.

Si tratta di conflitti che, non di rado, raggiungono vette di grottesco infantilismo. Alimentano dinamiche di esclusione e inducono i soggetti più sensibili, o semplicemente dotati di senso del ridicolo, ad astenersi dall’intervenire per non alimentare il conflitto o rafforzare narrazioni già preconfezionate, perché sanno che sarebbero destinati a essere equivocati.

In alternativa, finiscono per adottare ciò che potremmo chiamare “effetto juke-box”: dire ciò che i propri followers desiderano ascoltare — pratica da tempo in uso fra i cacciatori di clic — oppure proporre una versione edulcorata di ciò che si intenderebbe realmente comunicare. Il disagio cresce, perché ci si sente responsabili persino del malessere altrui.

Tutto ciò avviene a discapito dell’integrità sociale e “mentale” del singolo all’interno delle comunità, cui di fatto è negata una pubblica interazione, libera, sana e di confronto dialettico con altri individui e con le comunità stesse. Viene così compromesso anche il percorso verso il riconoscimento di una piena legittimità di sé, senza doversi autocenseurare per paura dell’esclusione.

Il problema non riguarda solo i social network, le discussioni in rete, ma anche, seppure con minore intensità, la vita reale. In quest’ultima, almeno potenzialmente, si riescono ancora a trovare forme di interazione meno alienanti, in cui la comprensione reciproca (in senso letterale) è più percorribile. Ma tutto rimane comunque gravemente inquinato. Nello scontro virtuale, in particolare, si tende sempre più a polarizzare il ragionamento, rinchiudendosi in frame rigidi e opposti, riducendo anche temi fondamentali al livello dei conflitti secondari. Gli esempi abbondano.

Tali frame, infatti, sono continuamente stimolati da una straripante immissione di notizie marginali o scandalistiche, anche di infimo livello, destinate a suscitare sensazione. La tecnica è quella di enfatizzare singoli, isolati episodi affinché si abbia la sensazione che questi siano indicativi di quanto la realtà stia cambiando. Il risultato ottenuto non è solo quello di dividere il corpo sociale, ma anche di distrarre e destabilizzare quella parte minoritaria più critica. Su questi conflitti si inseriscono, ovviamente, i soliti opportunisti.

La generalizzazione e la polarizzazione possono anche avere un senso e un innegabile ruolo, soprattutto sui grandi temi, nel rispetto però delle opinioni altrui, quando invece diventano norma finiscono per soffocare ogni ragionamento più complesso, che trova spazio solo se sostenuto da grande visibilità o da una pazienza quasi ascetica, con risultati spesso deludenti. Con la consapevolezza che anche tale sforzo può risultare banale, dando vita ad altri frame.

Si tenga conto anche del fatto che l'orizzonte del fanatico, di qualsiasi fanatico, è dato una volta per tutte e non può essere modificato, perché appartiene ad una realtà a parte, una realtà impenetrabile al confronto e alla dialettica. Il fanatico, che è quello che alla fine gestisce la polarizzazione, è sostanzialmente un “puer aeternus” che può però risultare dannoso e letale anche nelle versioni meno attive.

Alla fine, si sceglie di tacere.

Qualcuno potrà dire che si tratta di un problema antico; eppure il fenomeno assume sempre più i tratti di una gabbia mentale, di una vera e propria patologia collettiva, favorita da un modello a/sociale di isolamento, che conduce a un’estremizzazione di due comportamenti speculari: da un lato l’individualismo narcisistico, dall’altro il comportamento gregario. Ruoli, peraltro, interconnessi e facilmente intercambiabili.

Un buon esempio di questo meccanismo è, infatti, la spirale del silenzio, teorizzata da Elisabeth Noelle-Neumann nel 1984 (un anno che è solo una coincidenza?), e come evidenzia anche una ricerca effettuata anni fa negli USA dal PEW Research Internet Project:

«….l’impiego dei principali social network (Facebook e Twitter) riduce l’espressione delle reali opinioni degli utenti. Infatti, se un utente percepisce di avere un’opinione minoritaria, rispetto alla rete dei propri contatti/amici, decide di non esprimerla in percentuali maggiori che nella vita reale. Ciò accade sia perchè gli utenti non vogliono deludere i loro contatti/amici, ma anche perché gli utenti non vogliono lasciare tracce digitali delle loro opinioni minoritarie, dato che temono che esse possano danneggiarli in futuro (socialmente, professionalmente, ecc.).

Per questo motivo molti utenti scoprono, con sorpresa, che i loro amici esprimono sui social network opinioni diverse da quelle espresse verbalmente nella vita reale.»

Sto comunque constatando una graduale presa di coscienza, oggi più diffusa rispetto agli anni passati: un disagio che si sta ampliando, pur restando marginale, e che viene interpretato da prospettive diverse e talvolta opposte. Proprio queste letture, quando sono approssimative o parziali, fanno però intravedere il rischio di nuove semplificazioni sotto mentite spoglie.

La soluzione dovrebbe avere come obiettivo l'inclusione dei singoli, la ricostruzione di una sensibilità comune, che non passi attraverso codici o dogmi alternativi, ma che sia di tutela, sviluppo e stimolo nei confronti del libero pensiero e della libera espressione individuale.

[Per approfondimenti sulla la teoria di Elisabeth Noelle-Neumann :

https://it.wikipedia.org/wiki/Spirale_del_silenzio

https://web.archive.org/web/20091122202104/http://www.sociologia.uniroma1.it/users/nobile/12%20Spirale%20del%20silenzio%20e%20teoria%20della%20coltivazione.pdf]



lunedì 1 dicembre 2025

“Non ti pago” (1940)


I capolavori di Eduardo

“Non ti pago” (1940)

«Nun 'o pozzo vedè! E troppo fortunato! Quanno 'a bon'anema 'e mio padre 'o facette venì a ffatica dint' 'o banco lotto nuosto, nun teneva piezze 'e scarpe 'o pede, se mureva 'e famma. Accumminciaie a giucà, e d'allora nun c'è sabato ca nun pizzeca ll'ambo, 'o situato, 'o sicondo estratto, 'o terno... E a poco 'a vota s'è corredato, s'è equipaggiato, e mo nun se fa mancà niente. Cu' 'a vincita 'e dint' 'o banco lotto mio spignaie tutte 'e pigne d' 'a zia, po' se facette vestite, biancheria... Neh, duie anne fa io lasso 'a casa mia a o primo piano, cu' chillu balcone che affacciava ncopp' 'o banco lotto, e io me ne iette pecchè era muorto mio padre e mme faceva impressione, chillo vence nu terno e s'affitta 'a casa mia. Po' ne vincette n'ato e facette 'a rinnovazione. E mo se sonna 'a mamma, mo se sonna 'o pate, 'a sora, 'o frato, 'e nepute, 'e cugnate, 'a nunnarella... L'ha distrutte a tutte quante... rimasto vivo isso sulo. Comme mette 'a capa ncopp' 'o cuscino s' 'e sonna... Quanno s'addorme, accumencia 'a Settimana Incom.»

“Non ti pago”, al di là della sua struttura leggera e da commedia degli equivoci, è un’opera intensamente drammatica, disturbante, sofferta. E la critica – almeno quella più attenta – non ha tardato a riconoscerlo. L’apparente comicità non è che un velo: uno schermo che copre una tragedia profondamente umana, scavando nelle pieghe del linguaggio, dell’esistenza e del cinismo che abita l’intimità della coscienza. Eduardo porta tutto questo alla luce e, invece di mascherarlo con ipocrisia, lo rende esplicito. La riflessione filosofica attraversa tutta la vicenda, sorretta da un impianto di pura farsa.

Ferdinando Quagliuolo, titolare di un banco lotto, appare inizialmente come un uomo gretto e superstizioso, pronto a sacrificare gli affetti e persino la propria esistenza pur di piegare la realtà alla sua visione. Ma questa sarebbe una lettura solo superficiale. Il tema centrale è la sofferenza dell’individuo di fronte al caso. La sua non è l’astuzia di un prepotente: è la frustrazione del perdente, di chi ritiene che il destino lo abbia privato di una vincita che gli spetta e cerca disperatamente di ristabilire l’equilibrio violato.

Ferdinando rifiuta di arrendersi e combatte fino allo sfinimento contro una fortuna che non risponde a logiche morali né a criteri di giustizia. La sorte è cieca, appartiene a chi capita, e lui non accetta l’imprevedibilità. Per questo “Non ti pago” fa ridere amaramente: perché il peso di un destino ingovernabile si insinua come un morbo nella mente dello spettatore, condizionandone la sensibilità. Il genio di Eduardo sta nel rendere questa doppiezza attraverso dialoghi di impressionante precisione e un intreccio di sorprendente inventiva.

Il paradosso su cui si regge la commedia funziona perfettamente. Il finale a sorpresa costringe lo spettatore a provare pena e perfino empatia per Ferdinando, perché Eduardo ci mette davanti a uno specchio: l’antipatico Quagliuolo siamo noi, quando ci troviamo al cospetto della crudeltà del destino e reagiamo in modo irrazionale pur di non accettare l’accanimento delle avversità.

“Non ti pago” è anche, in un certo senso, il risultato del periodo in cui prendono forma progetti teatrali fondati sull’antinomia, originata dal conflitto tra Peppino ed Eduardo: la contrapposizione fra due figure speculari e opposte. Qui abbiamo il fortunato e lo sfortunato, Mario Bertolini e Ferdinando Quagliuolo. Un’antinomia che si articola anche nei ruoli sociali: dipendente e datore di lavoro, futuro genero e futuro suocero. 

Il conflitto diventa così ancora più netto e radicale. Mario è solare, giovane, baciato dalla fortuna; Ferdinando è cupo, rancoroso, un anziano incattivito dalla sfortuna. Un personaggio ispirato, secondo lo stesso Eduardo, allo Shylock de “Il mercante di Venezia”, che Shakespeare utilizzò per far emergere la condizione di emarginazione degli ebrei del suo tempo.

Il meccanismo empatico cresce gradualmente: Ferdinando finisce per assumere i tratti di un eroe tragico che non si piega al destino, ma lo sfida, a costo di conseguenze estreme. Molti critici concordano infatti sul carattere profondamente inquieto della pièce, che fa ridere e insieme terrorizza. Un’intenzione dichiarata dallo stesso autore: «Una commedia molto comica che secondo me è la più tragica che abbia scritto».

Il capovolgimento tra il secondo e il terzo atto prepara il colpo di scena finale: un espediente drammaturgico con cui Eduardo riequilibra la vicenda verso una forma diversa e condivisa di giustizia, così come il sogno del padre di Ferdinando, affidato a Mario, era servito in precedenza a creare lo squilibrio. Va ricordato che la prima versione della commedia aveva un terzo atto molto diverso, più farsesco e centrato sul conflitto, con una interpretazione di Peppino nei panni di Bertolini che molti giudicarono irresistibile.

La critica accolse con entusiasmo già questa prima stesura, riconoscendo in “Non ti pago” la definitiva maturazione di Eduardo come grande autore. Le riserve sul terzo atto, ritenuto eccessivamente farsesco, lo convinsero però a rivedere il testo. Si arrivò così alla versione cinematografica del 1942, diretta da Carlo Ludovico Bragaglia e interpretata da tutti e tre i De Filippo, affiancati da Vanna Vanni, Giorgio De Rege e Paolo Stoppa. Il film introdusse diverse modifiche narrative che influenzarono la stesura definitiva della versione teatrale.

Le revisioni finali risalgono con ogni probabilità al 1947. Il rifacimento riguardò l’ultima parte del secondo atto e l’intero terzo, incluse scene destinate a diventare celebri, come l’invettiva di Concetta. L’opera cambiò così non solo nei contenuti, ma anche nella forma, trasformando le dinamiche del conflitto in modo da aumentare il peso drammatico della figura di Ferdinando, ridimensionando il ruolo che un tempo era stato di Peppino, dopo la separazione artistica tra i due fratelli.

Da segnalare infine, più del film – qualitativamente lontano dal testo teatrale – la riduzione televisiva del 1964, che come spesso accadeva con questo format, consegnava al pubblico una versione capace di restituire pienamente la grandezza delle opere eduardiane, arricchita da prove attoriali straordinarie, a cominciare dall’interpretazione dello stesso Eduardo, perfettamente a suo agio davanti alle telecamere della Rai.

giovedì 27 novembre 2025

John Coltrane, “My Favorite Things” (1960)


John Coltrane, “My Favorite Things” (1960)

L'incontro che ebbi con questo disco (una quindicina d'anni dopo la sua incisione) produsse in me quasi un trauma. Quando ascoltai per la prima volta la title track, non volli credere alle mie orecchie. Pochissime altre volte aveva e avrebbe preso forma, nella mia esperienza di ascoltatore, un così intenso stupore.

Con “My Favorite Things” — brano e album — John Coltrane compie un’operazione audacissima, soprattutto per un musicista come lui e per il 1960. È l’esordio discografico del quartetto classico di Coltrane. Realizza un disco di “cover” fuori dall’ordinario, trasformando un materiale popolare in un capolavoro senza tempo. Prende un celebre brano da musical e lo reinventa radicalmente, pur mantenendone intatta l’aura vitale e gioiosa. La trasfigurazione attraverso il jazz modale dona nuova vita a ciò che, all’apparenza, era solo un “pezzo leggero”. Bisogna ricordare che appena un anno prima Coltrane aveva partecipato a “Kind of Blue” di Miles Davis, una pietra miliare e uno dei primi vertici del jazz modale.

Il sassofonista compie così un gesto quasi sovversivo: porta una canzone appartenente alla cultura di massa nella dimensione dell’esplorazione sonora. La nuova versione ha una struttura ipnotica e circolare; ogni ritorno introduce una variazione che amplia il respiro del tema. Ho sempre immaginato Julie Andrews, in una scena mai girata di “Tutti insieme appassionatamente", danzare sull’erba seguendo il ritmo della versione di Coltrane.

Anche la scelta del sax soprano è un atto di rottura. La leggendaria copertina lo sottolinea con forza. Fino ad allora relegato a un ruolo marginale nel jazz, lo strumento diventa ora protagonista assoluto, sostenuto dagli altri tre musicisti del quartetto: il pianoforte di McCoy Tyner — già in grande evidenza anche nel resto del disco — la sezione ritmica con il mago Elvin Jones alla batteria e Steve Davis al contrabbasso. Insieme reggono quasi quattordici minuti di estasi sonora ininterrotta. 

Non è comunque neanche un caso che la scelta cada su un brano del genere. Pensiamoci bene: privo di qualsiasi attinenza con la tradizione musicale afroamericana, la canzone originale era un semplice valzer. Coltrane, quindi, cerca di dimostrare la capacità del jazz, anche di quello più ardito, non solo di adattarsi a qualsiasi tipo di fonte sonora, ma addirittura di riadattare e stravolgere i canoni della musica bianca, anche di quella meno colta. Reclama per il jazz la vocazione al "popular" e, nello stesso tempo, alla migliore avanguardia.

Il gruppo non si ferma qui: dopo Richard Rodgers, arriva l’omaggio a Cole Porter con la reinterpretazione della celebre ballad “Everytime We Say Goodbye”, l’esatto contrario della title track. È una versione rilassata, con Coltrane che passa al sax tenore in un gesto di apparente rispetto per la tradizione. Il brano è dolce, intimo, ma l’impronta di “Trane” è inconfondibile, e la sua lettura lascia un segno personale e deciso.

La seconda facciata del vinile è interamente dedicata a George Gershwin, con due classici senza tempo. Il celeberrimo "Summertime", tratto da “Porgy and Bess", è probabilmente la composizione più nota dell’intero album. Si torna al soprano e a un clima teso, ruvido, quasi drammatico: il jazz modale qui sfiora il free. Coltrane stravolge la canzone secondo i canoni sperimentali che caratterizzeranno sempre più la sua evoluzione futura.

Il secondo brano di Gershwin, e ultimo del disco, è una delle sue composizioni più amate: “But Not For Me”. Le versioni di Ella Fitzgerald e di Chet Baker sono indimenticabili, quella di Coltrane — di nuovo al tenore — conserva sorprendentemente una certa qual leggerezza melodica, trasformandola però con fraseggi vertiginosi e improvvisazioni straordinarie. Da notare anche l’incredibile assolo di McCoy Tyner, un vertice del pianismo modale.

“My Favorite Things” è insomma un album di transizione, sospeso tra tradizione e innovazione. Paradossalmente — ma con Coltrane nulla è davvero paradossale — il lato più sperimentale emerge soprattutto nelle reinterpretazioni di Gershwin. Qui si apre il nuovo percorso grandioso che Coltrane intraprenderà negli anni successivi, un cammino che la sua prematura scomparsa nel 1967, a soli quarantun anni, interromperà troppo presto.


mercoledì 26 novembre 2025

Le origini del totalitarismo, l’importanza dei pan-movimenti nel nazismo e nello stalinismo e un parallelo con la situazione attuale


Le origini del totalitarismo, l’importanza dei pan-movimenti nel nazismo e nello stalinismo e un parallelo con la situazione attuale

«Il nazismo e il bolscevismo devono, rispettivamente, più al pangermanesimo e al panslavismo che a qualsiasi altra ideologia o movimento. Ciò è più evidente nella politica estera, dove la strategia della Germania nazista e della Russia sovietica ha seguito così strettamente i programmi di conquista vagheggiati dai pan-movimenti prima e durante la prima guerra mondiale, che gli obiettivi totalitari sono stati spesso confusi col perseguimento di presunti interessi permanenti tedeschi o russi. Fatto significativo, Hitler e Stalin si sono sempre ben guardati dall’ammettere di aver tenuto conto della lezione dell’imperialismo nell’elaborazione dei loro metodi di governo, ma non hanno mai esitato a richiamarsi esplicitamente all’ideologia dei pan-movimenti o a imitarne gli slogans.»

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo (1951)

Questo passaggio apre il capitolo “Imperialismo continentale e Pan-movimenti" e contiene uno dei nuclei teorici più importanti dell’intero libro. Arendt sostiene che i due grandi totalitarismi del Novecento non nascano soltanto dalle loro ideologie dichiarate — il razzismo biologico nel caso del nazismo, il marxismo rivoluzionario nel caso del bolscevismo — ma che traggano la loro forma politica, la loro logica del movimento e la loro concezione dello spazio da due ideologie ottocentesche di espansione continentale: il pangermanesimo e il panslavismo.

È fondamentale comprendere che Arendt, quando parla del “bolscevismo”, si riferisce al bolscevismo divenuto totalitarismo, cioè allo stalinismo. Non sostiene che il bolscevismo originario fosse panslavo: di Lenin e del suo autoritarismo si possono dire molte cose, ma era internazionalista e ostile ai nazionalismi russi. È con Stalin che il regime assume una struttura mentale, una visione imperiale e una missione storica che riprendono direttamente la tradizione panslava, trasformandola in ideologia di conquista. È in questo senso che “il bolscevismo deve più al panslavismo che ad altro”.

Arendt distingue due tipi di imperialismo: l’imperialismo occidentale d’oltremare, diretto verso l’Africa e l’Asia; l’imperialismo continentale, volto alla conquista di territori confinanti in Europa e fondato su una concezione organica, storica e messianica della nazione. La differenza è decisiva. L’imperialismo d’oltremare non mirava a rendere il mondo omogeneo: governava altri popoli, magari li schiavizzava, ma non li voleva assorbire. Il suo razzismo era strumentale al dominio politico-economico. I pan-movimenti, invece, concepivano la missione nazionale come illimitata: la nazione doveva espandersi senza confini, unificare o “liberare” i popoli affini, ridefinire lo spazio secondo criteri etnici.

Da queste ideologie non nascono semplicemente grandi nazionalismi, ma una concezione della politica come movimento espansivo permanente. Il nazismo e lo stalinismo ereditarono proprio questa dinamica: l’idea che la nazione non fosse una realtà storica da consolidare, ma una forza da spingere oltre ogni limite, abolendo confini geografici e giuridici. Nel nazismo e nello stalinismo il razzismo — biologico o storico-culturale — non fu un complemento propagandistico, come nell’imperialismo d’oltremare, ma il fulcro di una weltanschauung totalizzante: non spiegava solo l’inferiorità dell’Altro, ma definiva l’essenza della nazione, il suo destino e la sua missione.

Il totalitarismo nasceva quando il movimento nazionale prescindeva dallo Stato, quando la missione etnica prendeva il sopravvento su ogni istituzione e creava una dinamica politica illimitata, che poteva sfociare nella purificazione razziale, nei pogrom, nella pulizia etnica e, infine, nel genocidio. E poiché il totalitarismo voleva apparire come qualcosa di totalmente nuovo, scientifico e ineluttabile, Hitler e Stalin negarono sempre l’eredità pan-imperiale che invece utilizzavano apertamente: ne riprendevano slogan, miti, idee di superiorità e destini continentali.

È possibile attualizzare questa analisi senza confusioni anacronistiche. I nazionalismi etnocratici contemporanei — pur non essendo totalitari nel senso arendtiano — ereditano alcuni tratti dei pan-movimenti: la fusione tra Stato e identità etnica, la delegittimazione dell’opposizione come “tradimento”, la concezione della sovranità come proprietà di un gruppo culturale definito. Ciò vale, per esempio, con differenze anche sostanziali, per: la Russia putiniana, la Turchia dell’AKP, l’India di Modi, l’Ungheria di Orbán, la destra messianica israeliana, il palestinismo fondamentalista, la “Grande Cina” proposta dal PCC.

Tutte concezioni che si muovono tra nazionalismo transfrontaliero e revival di miti storici, spesso ibridati con elementi religiosi, ideologici o di “civilizzazione”. Non tendono verso le forme classiche di totalitarismo. Tuttavia, condividono tre elementi arendtiani: erosione del pluralismo; etnicizzazione della cittadinanza e della legittimità politica; sovrapposizione tra Stato e nazione etnica.

La Repubblica Popolare Cinese, però, rappresenta anche un fenomeno diverso. Non è più totalitaria nel senso classico arendtiano: non mobilita continuamente le masse, non propone un’ideologia onnipresente e non è più maoista. Ma ha sviluppato un modello nuovo, fondato sulla sorveglianza digitale, sull’ingegneria sociale, sulla tecnocrazia e su una forma di razionalità strumentale che interiorizza il controllo. Più che una replica del totalitarismo, è una forma di neo-totalitarismo tecnologico, in cui il terrore non deve essere visibile: basta che sia possibile, potenziale, pervasivo.

Esistono poi forme di totalitarismo teocratico transnazionale: lo Stato Islamico, con la sua ideologia pan-religiosa, e l’Iran, che combina autocratismo, teocrazia e una missione rivoluzionaria sciita globale. Anch’essi non si collocano nel quadro arendtiano classico, ma rappresentano forme di totalitarismo ibrido, dove ideologia religiosa, missione universale e distruzione del pluralismo coincidono.

Pertanto, la democrazia si svuota, i sistemi democratici vanno in crisi di libertà e si lascia spazio a forme ibride di dominio: democrazie etniche, regimi illiberali, autocrazie competitive, post democrazie, neo-totalitarismi, autoritarismo populista, un movimento opposto all’allargamento della democrazia e alla redistribuzione dei poteri verso il basso, cosa di cui ci sarebbe davvero bisogno. Si critica giustamente l’involuzione autoritaria dell’Occidente, ci si allarma per il rischio di dispotismo, ma sale paradossalmente il sostegno per i sistemi dispotici.

Il nazionalismo etnocratico e l'occidente post democratico potrebbero, quindi, sviluppare, accanto ai neo-totalitarismi, ulteriori forme di totalitarismo, anche se diverse, seppur accomunate dall’uso di strumenti tecnologici di sorveglianza a da raffinate tecniche di manipolazione del consenso, sia dentro che fuori i propri confini. 

Le potenze contemporanee, occidentali e non occidentali, sperimentano quindi modalità diverse di controllo politico: alcune attraverso forme di imperialismo continentale rinnovato, altre mediante un nuovo imperialismo di oltremare, altre ancora tramite forme miste, tutte però utilizzano strumenti ibridi, a prescindere dalle tradizionali azioni militari: guerra asimmetrica, propaganda, manipolazione informativa, armi di migrazioni di massa, pressione commerciale e finanziaria.

Il cuore dell’analisi rimane quello di Arendt: quando la politica diventa movimento illimitato, quando l’identità si fa missione storica, quando la nazione pretende di ridefinire lo spazio in modo globale e totalizzante, allora la sostanza del totalitarismo può rinascere in forme nuove, più sofisticate, meno riconoscibili, ma non meno pericolose.


lunedì 24 novembre 2025

Famiglia e Stato


Aver riconosciuto, nel passato, la famiglia e lo Stato come possibili matrici di oppressione dell’individuo ha aperto lo spazio per processi reali di emancipazione, per l’allargamento dei diritti civili e per la costruzione di forme più mature di cittadinanza. Oggi, però, di quel lascito rimane spesso soltanto la messinscena di un dissenso e di un certo antagonismo che continuano a percepire lo Stato come forma del dominio, ma in modo contraddittorio: la critica è oscillante, incoerente, priva di un orientamento stabile.

Il paradosso è evidente nella retorica di chi invoca una nebulosa “sovranità nazionale”, immaginata come riscatto collettivo, mentre al tempo stesso propone soluzioni che richiederebbero un potere statuale ancora più invasivo, e auspica alleanze con regimi apertamente autocratici e anti-liberali. In questa torsione si rivela l’anima autoritaria di un libertarismo dichiarato che, in realtà, non aspira a meno Stato, ma a uno Stato di altro tipo: meno liberale, più identitario, più verticale.

La stessa incoerenza si manifesta nella critica alla famiglia. Non si riconoscono più le dinamiche concrete di potere al suo interno; si preferisce sostituire la complessità con narrazioni semplicistiche e oppositive. Così si verifica una convergenza inattesa: da un lato gruppi che immaginano ecovillaggi e micro-comunità fondate su codici morali alternativi, spesso altrettanto rigidi; dall’altro chi sogna il ritorno a un’idilliaca famiglia patriarcale chiusa, con ruoli definiti e gerarchie naturali.

Il cerchio, così, si chiude. La critica non è più rivolta allo Stato in quanto possibile strumento di oppressione, ma esclusivamente alla sua forma liberale. E in questo rovesciamento, ciò che appare come opposizione reciproca – il “woke” e il tradizionalismo identitario – finisce per trovare una sorprendente sintonia: entrambi cercano una comunità disciplinante, una forma alternativa di autorità, un ordine che sostituisca il pluralismo liberale con un codice più rigido, sia pure apparentemente per vie opposte.


domenica 23 novembre 2025

Holodomor, genocidio o catastrofe generata da politiche fallimentari e criminali?


Holodomor, genocidio o catastrofe generata da politiche fallimentari e criminali?

«Chi firmò quell’assassinio di massa? Spesso io penso: che non sia stato Stalin? Penso: un ordine simile, da quando esiste la Russia, non è stato mai dato. Un ordine così non l’aveva firmato mai né lo zar, né i tartari, né gli occupanti tedeschi. Un ordine che diceva: uccidere per fame i contadini dell’Ucraina, del Don, del Kuban’, uccidere loro e i loro bambini. Un’ordinanza che diceva di requisire anche tutto il grano riservato alla semina. Lo cercavano come se non fosse grano, ma bombe, mitragliatrici. Saggiavano la terra con le baionette, con le canne dei fucili, misero sossopra, scavarono in tutte le cantine, scassarono tutti i pavimenti, cercarono negli orti. A certuni sequestrarono il grano che tenevano in casa, dentro un vaso, una tinozza. A una donna sequestrarono il pane che aveva cotto, lo caricarono sul carro e portarono al distretto anche quello. I carri cigolavano giorno e notte, la terra sembrava avvolta dalla polvere. In mancanza di sili, versavano il grano per terra, e attorno mettevano sentinelle. Con l’avvicinarsi dell’inverno il grano s’imbevve di pioggia, cominciò a marcire: il potere sovietico non aveva abbastanza tela incatramata per ricoprire il grano dei contadini.»

Vasilij Grossman, “Tutto scorre…” (1963, 1970)

«Tenuto conto che nel 1932 in Ucraina vivevano 32.680.00 persone, diverse fonti convergono nella valutazione delle vittime con una stima che va dai 4.5 ai 6 o 7 milioni.

Lo storico e giornalista Paolo Rumiz parla di "almeno sei milioni di morti per fame nella sola Ucraina" e cioè "25mila al giorno", "17 al minuto", specificando poi che "un morto su tre era bambino o neonato”. Andrej Gregorovich, ucrainista americano, parla della morte di 7 milioni di ucraini; cita la testimonianza dello stesso Stalin a Churchill secondo cui i morti in quattro anni di collettivizzazione sarebbero stati 10 milioni; afferma che "stime prudenti" ritengono che i morti siano stati circa 4,8 milioni, mentre "molti studiosi riconosciuti" hanno stimato il numero dei morti oscillante dai 5 agli 8 milioni…

…Dal censimento del 1933 confrontato con quello del 1926 si evince che la popolazione dell'URSS, cresciuta del 15,7%, era invece calata in Ucraina del 9,9%. Gli archivi dell'epoca, accessibili solo da poco tempo, testimoniano lo sfruttamento intenzionale della carestia da parte del regime sovietico per colpire i contadini nel nuovo disegno di "ingegneria sociale". Tenendo segreta la verità, il potere sovietico voleva sfuggire alle proprie responsabilità.» (dal sito della Fondazione Gariwo)

Oggi è il giorno in cui si commemorano le vittime dell'Holodomor, quindi questo mio post, preparato da tempo, per la serie sui genocidi e sugli stermini, cade proprio a proposito.

L’Holodomor – letteralmente “sterminio per fame” (dall’ucraino holod - "fame" e moryty - "uccidere, sterminare") – designa la devastante carestia che colpì l’Ucraina sovietica tra il 1932 e il 1933, causando milioni di morti. Per molti studiosi e per la memoria collettiva ucraina, non fu solo una tragedia umana, ma un atto deliberato di annientamento politico perpetrato dal regime di Stalin. Per altri, pur senza negarne l’orrore, fu una catastrofe generata da politiche economiche brutali e fallimentari più che da un intento genocidario mirato. Ciò che è certo è che l’Holodomor rappresenta uno dei momenti più oscuri del Novecento europeo: una carestia in un Paese fertile, una ferita ancora oggi non del tutto rimarginata.

Alla fine degli anni ’20 l’Unione Sovietica intraprende la collettivizzazione forzata dell’agricoltura, cuore della trasformazione economica voluta da Stalin. Il mondo contadino, vasto e spesso autonomo, era percepito come un ostacolo alla modernizzazione e come una minaccia politica. La propaganda parlava di “kulaki”, contadini medi e ricchi definiti parassiti, sabotatori, nemici del progresso.

La collettivizzazione non fu un processo spontaneo: si impose con deportazioni, confische, violenza, distruggendo modelli secolari di lavoro e comunità. L’Ucraina, con la sua tradizione agricola e la sua forte identità culturale, fu un terreno particolarmente delicato: già da inizio anni ’20 Stalin aveva soffocato ogni forma di autonomia nazionale ucraina, sospettando – non senza paranoia – che lo spirito nazionale potesse trasformarsi in separatismo.

Nel 1932 il governo sovietico impose all’Ucraina quote di raccolto irrealistiche, pretendendo quantità di grano superiori a quelle prodotte. Quando i contadini non riuscirono a soddisfare le richieste, il regime rispose con una brutalità crescente:

confisca totale delle scorte alimentari, non solo del grano; istituì la “legge delle spighe” (agosto 1932), che puniva con anni di gulag o con la morte persino la raccolta di poche spighe nei campi; blocco dei villaggi “inadempienti”, isolati fisicamente e privati dei rifornimenti; e istituzione di una “lista nera” di intere regioni, punite con l’esclusione totale dal commercio.

Il grano, intanto, veniva esportato per finanziare l’industrializzazione sovietica. Non fu il cattivo raccolto a creare la carestia: fu la politica criminale di un tiranno e del suo apparato di potere. Stalin e la dirigenza sovietica sapevano della carestia. Ricevevano rapporti dettagliati. Eppure non solo non intervennero, ma mantennero i livelli di requisizione, intensificarono la repressione delle migrazioni dalle zone affamate e continuarono a esportare cereali. La fame diventa così, nella lettura di molti storici, un mezzo per spezzare la società contadina ucraina e annientare ogni residuo di autonomia nazionale.

L'Holodomor non fu solo un attacco di classe (contro i contadini), ma anche un attacco nazionale. Colpire i contadini significava colpire il cuore dell'identità ucraina, dato che erano i principali portatori della lingua, delle tradizioni e della cultura nazionale. Una delle componenti più inquietanti dell’Holodomor è il silenzio costruito intorno alla tragedia. La propaganda sovietica negava l’esistenza stessa della carestia, mentre giornalisti occidentali compiacenti – il caso più emblematico è Walter Duranty del “New York Times” – contribuirono a diffondere una narrazione tranquillizzante: tutto sotto controllo, nessuna carestia, solo qualche eterogenea difficoltà di transizione.

Lo scrittore Gareth Jones, che riportò fedelmente la tragedia, fu screditato e messo da parte. Per decenni l’Holodomor rimase marginale nella storiografia, un “vuoto” che rifletteva tanto la forza dell’occultamento sovietico quanto le ambiguità delle democrazie occidentali nel leggere l’URSS.

La domanda centrale oggi non è se l’Holodomor sia avvenuto – ma che cosa sia stato. Molti studiosi, e lo Stato ucraino, lo definiscono un genocidio, richiamando la Convenzione ONU del 1948: la distruzione deliberata di un gruppo nazionale. A sostegno di questa tesi: la carestia colpì in modo mirato l’Ucraina e i territori a maggioranza ucraina del Kuban’; le misure punitive furono indirizzate specificamente contro l’Ucraina; la fame fu accompagnata dalla repressione delle élite culturali ucraine (l’“Olocausto culturale” del 1930-33); il regime ostacolò consapevolmente qualsiasi aiuto.

Altri storici, pur riconoscendo le responsabilità criminali di Stalin, ritengono che la carestia sia stata il risultato estremo di politiche economiche fallimentari applicate in tutto lo spazio sovietico, sebbene con una durezza particolare in Ucraina. Il dibattito rimane aperto, ma la tendenza internazionale – specie dopo il 2014 e il 2022 – è verso il riconoscimento della natura genocidaria dell’Holodomor.

La Russia, erede dell'URSS, respinge questa interpretazione, definendola una carestia che colpì diverse regioni dell'URSS. Riconoscere l’intenzionalità del genocidio significherebbe mettere in discussione il mito sovietico e la figura di Stalin, ancora celebrata da ampi settori della società e della politica.

L’Holodomor è più di una carestia. È il punto di incrocio tra ideologia, terrore, ingegneria sociale e distruzione deliberata. È la dimostrazione che la fame può essere un’arma politica tanto efficace quanto le armi convenzionali. È un monito sui pericoli della disumanizzazione, della propaganda, del potere incontrollato. Comprenderlo significa non solo restituire dignità alle vittime, ma riflettere su come le società contemporanee possano difendersi dagli abusi ideologici e dalle manipolazioni che, pur mutate di forma, continuano a minacciare la vita, la verità e la libertà dei popoli.

È di fondamentale importanza studiare e commemorare l'Holodomor come monito contro i totalitarismi, la manipolazione della storia e l'uso della fame come arma politica, ed è per questo necessario condannare tutti i crimini contro l'umanità con pari dignità, indipendentemente dall'ideologia o dal carnefice.

La carestia del 1932-33 rappresenta anche una ferita storica che ha profondamente influito sui rapporti tra ucraini e russi, soprattutto nel modo in cui ciascun popolo interpreta il passato e la propria identità, determinando una tragica situazione di inaudita gravità. Nella memoria collettiva ucraina, l’Holodomor è un fondamento dell’identità nazionale, è la prova dell’oppressione storica da parte dei poteri centrali russi ed è un monito sulla necessità dell’indipendenza.

Nella memoria ufficiale russa, invece, l’Holodomor è una tragedia “sovietica”, non nazionale, non può essere considerato genocidio ucraino senza minare il mito positivo dell’URSS, non deve quindi essere percepita come un’accusa politica.

Sono due narrazioni che appaiono inconciliabili. E quando la memoria si divide, anche le identità si allontanano. E con esse si allontana la possibilità di una riconciliazione. Il risentimento, quindi, non deriva solo dall’evento, ma dal suo significato nella memoria ucraina e dalla sua negazione nella memoria russa.

“Tutto scorre…” è l’ultimo grande libro di Vasilij Grossman, un’opera che nasce negli anni più difficili della sua vita: la censura di “Vita e destino" (mia recensione: https://cassielheaven.blogspot.com/2025/05/vasilij-grossman-dilogia-di-stalingrado.html), il sequestro del manoscritto, l’isolamento intellettuale, la malattia. È in questo contesto che lo scrittore decide di affrontare uno dei temi più proibiti dell’Unione Sovietica: la carestia del 1932-33 in Ucraina, oggi conosciuta come Holodomor. 

L’analisi dell’Holodomor occupa una sezione centrale del romanzo, ma non ha il formato della finzione: è un saggio storico-morale incastonato in un testo narrativo. Grossman ne fa un nodo cruciale della sua riflessione sul totalitarismo, sulla responsabilità individuale e collettiva, sul rapporto tra potere e verità.

La potenza dell’analisi grossmaniana sta nel suo tono antiretorico: non vi è pathos, ma un’esposizione dei meccanismi dello Stato che trasforma la fame in strumento di dominio. La tragedia è il prodotto di timbri, ordini, inventari, rapporti quotidiani di funzionari di livello medio.

Uno dei contributi più originali di Grossman è la descrizione della fame come dissoluzione dell’umano. La sua analisi del corpo affamato non si limita agli effetti fisici: passa dal metabolismo al comportamento, dalla fisiologia alla percezione. Grossman, fu testimone di “secondo grado”: molto più vicino di altri scrittori. Era nato in Ucraina (Berdyčiv). Conosceva la cultura, la lingua, la vita contadina. Aveva una memoria personale dei luoghi che la carestia avrebbe devastato. Viveva in regioni limitrofe alla crisi e lavorò per anni nel Donbass, a stretto contatto con contadini ucraini, minatori e operai che fuggivano dai villaggi affamati, ferrovieri che trasportavano grano e vedevano gli affamati assaltare i treni.

Sentì testimonianze dirette da persone che arrivavano dalle zone affamate.

Molti di loro erano suoi amici, conoscenti, colleghi. Vide gli “effetti collaterali” nelle città. Anche se Mosca negava tutto, nelle città ucraine e russe si vedevano: migliaia di contadini in fuga, bambini scheletrici, famiglie che mendicavano ai mercati, migranti respinti dalle stazioni, reparti di milizia che impedivano l’accesso alla ferrovia ai contadini affamati. Grossman riferirà, anni dopo, di aver visto personalmente gruppi di contadini ridotti allo stremo arrivare nelle città industriali. Fu anche autore, insieme a Il'ja Ėrenburg, del saggio “Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945” (https://it.wikipedia.org/wiki/Il_libro_nero_-_Il_genocidio_nazista_nei_territori_sovietici_1941-1945)


Un po' di fonti online in italiano:

Articoli vari dal sito GariwoMag

https://it.gariwo.net/magazine/holodomor/

“Holodomor – Il genocidio per fame perpetrato dal regime sovietico” (GariwoMag – La foresta dei giusti) 

https://it.gariwo.net/educazione/approfondimenti/holodomor-3502.html

Wikipedia

https://it.wikipedia.org/wiki/Holodomor

Profilo di Gareth Jones

https://it.wikipedia.org/wiki/Gareth_Jones_(giornalista)

Profilo di Vasilij Grossman

https://it.wikipedia.org/wiki/Vasilij_Sem%C3%ABnovi%C4%8D_Grossman

“Holodomor, il genocidio del popolo ucraino” (Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa) 

https://www.balcanicaucaso.org/cp_article/holodomor-il-genocidio-del-popolo-ucraino/

“La grande carestia che grava sulla memoria collettiva ucraina” (Università di Milano)

https://air.unimi.it/retrieve/bb6dd2c7-9e8c-4cf7-a11d-e32034331b36/HolodomorKrisis.pdf

“Holodomor, la terribile carestia che colpì l’Ucraina sovietica” (EastJournal)

https://www.eastjournal.net/archives/113003

“Il cibo come strumento di pressione geopolitica: il caso russo-ucraino”

https://ricerca.unicusano.it/wp-content/uploads/2025/02/Il-cibo-come-strumento-di-pressione-geopolitica-il-caso-russo-ucraino.pdf

“L’Holodomor, la ‘grande fame’ dell’Ucraina sovietica” (Geopop)

https://www.geopop.it/holodomor-fame-carestia-ucraina-causa-storia/

“La grande carestia” (Fondazione Micheletti)

https://www.fondazionemicheletti.eu/public/contents/26-lezioni-novecento/allegati/file/07_04_Holodomor.pdf

Documentazione ufficiale del parlamento italiano sul riconoscimento dell’Holodomor come genocidio. Utile per comprendere il contesto politico-istituzionale in Italia. 

https://www.senato.it/show-doc?id=1384668&leg=19&part=doc_dc-ressten_rs-gentit_deadm100045rhcgpu%3Fpart%3D&tipodoc=Resaula

Una voce contro, a difesa dell'URSS e di Stalin

https://www.marx21books.com/wp-content/uploads/2018/04/Holodomor-nuovo-avatar-dellanticomunismo-europeo.pdf


Altre fonti online:

https://mvs.gov.ua/en/golodomor-1932-1933

https://cla.umn.edu/chgs/holocaust-genocide-education/resource-guides/holodomor

https://jordanrussiacenter.org/blog/holodomor-and-the-double-logic-of-soviet-archives


sabato 22 novembre 2025

La rivoluzione falsificata


La rivoluzione falsificata

«…la società moderna ha già invaso in modo spettacolare la superficie sociale di ogni continente. Essa definisce il programma di una classe dirigente e presiede alla sua costituzione. Nello stesso modo in cui presenta gli pseudobeni da desiderare, essa offre ai rivoluzionari locali i falsi modelli di rivoluzione. Lo spettacolo proprio del potere burocratico che controlla alcuni dei paesi industriali fa precisamente parte dello spettacolo totale, come sua pseudonegazione generale, e suo sostegno. Se lo spettacolo, visto nelle sue diverse localizzazioni, mostra l'evidenza delle specializzazioni totalitarie della parola e dell'amministrazione sociali, questa vanno poi a fondersi, a livello del funzionamento globale del sistema, in una divisione mondiale di compiti spettacolari.»

Guy Debord, “La società dello spettacolo” (1967)

Guy Debord in questo passo de “La società dello spettacolo”, con precisa anticipazione, descriveva ciò che stava accadendo a livello globale. Parlava di spettacolo che non invadeva più solo la “superficie sociale”: invadeva direttamente la coscienza.

Quando Debord scriveva, lo spettacolo si diffondeva attraverso media unidirezionali (cinema, televisione, radio, giornali, pubblicità). Oggi questa colonizzazione è diventata interattiva, costante, incorporata nella vita quotidiana: la società dello spettacolo ha smesso di essere un contesto esterno: è diventata ambiente della coscienza interiore. Oggi arriva come infrastruttura digitale: smartphone, piattaforme globali, sorveglianza verticale e orizzontale. La base materiale può mancare, ma l’infrastruttura immateriale è già totale.

Debord quando parlava dello “spettacolo burocratico”, si riferiva ai regimi dell’Est come pseudonegazione del capitalismo. Oggi questa dinamica è esplosa su scala globale e si è evoluta verso un grande capitale totale, totalitario e totalizzante. I vari modelli non convivono in vera opposizione, coesistono e si rafforzano reciprocamente in un mercato globale delle tecniche di sorveglianza, dei dati e della propaganda. Persino le democrazie liberali adottano strumenti di controllo propri degli autoritarismi, mentre gli autoritarismi adottano forme estetiche e modelli commerciali occidentali.

Per Debord non era solo la merce a essere falsificata: anche la rivolta poteva essere trasformata in spettacolo, cioè resa innocua, estetizzata, destoricizzata. La rivoluzione falsificata è una messa in scena del cambiamento prodotta e gestita dallo stesso sistema che la rivoluzione dovrebbe rovesciare. Non è semplicemente una rivoluzione fallita, è una rivoluzione che sembra tale, ma che in realtà funziona come valvola di sfogo controllata, spettacolo mediatico di opposizione, simulacro che neutralizza la possibilità di una rivoluzione reale. È, in sintesi, antagonismo prefabbricato.

Il sistema offre un’immagine di rivolta già pronta, fornisce modelli iconografici e linguistici della protesta. Trasferisce il conflitto sul piano estetico e comunicativo. Il ribelle viene indotto a “interpretare” un ruolo spettacolare, non a creare una prassi autonoma di emancipazione e di elaborazione. La ribellione si palesa attraverso cortei e sit in effimeri, eventi social, performance, occasioni per produrre immagini. Lo spettacolo può tollerare ogni tipo di dissenso, purché non tenda a sovvertire la struttura del potere, economico-sociale, elitaria, verticale e burocratica della società, e soprattutto il dominio dell'immagine, rendendosi inafferrabile e incatalogabile. La contestazione del ’68, in questo senso fu paradigmatica: autentica nel desiderio, ma subito catturata dal sistema nell’estetica, nell’immagine, rivenduta come merce.

Le proteste digitali sono senza anima, lontane anni luce dalla trasformazione e dal sovvertimento. Gli “scioperi” del like, gli hashtag, le mobilitazioni lampo, anche quando dilagano nelle piazze, possono essere forme di attivismo visibili, virali, emozionali, ma prive di continuità, prive di reale creatività, catturate solo da un simbolico conformismo, pronte per essere digerite dalla società dello spettacolo. Il conflitto è consumato nella sfera comunicativa, non trasferito in quella materiale. La protesta è un mercato, l’antagonismo in fin dei conti vende, ed è questo quello che conta. Il sistema assorbe e rivende ogni voce contraria, chiudendola in appositi recinti virtuali autoreferenziali e di autorappresentazione.

L’immaginario della ribellione diventa merce pronta per il consumo: identità estetica, stile personale, guru e influencer, appartenenza tribale. La ribellione diventa un marchio, un mood, un format, addirittura certificato online dagli algoritmi. È la forma più perfetta di falsificazione: una rivoluzione che non vuole realmente cambiare nulla, ma solo apparire, che non riesce a fare neanche degna testimonianza.

La rivoluzione falsificata è una forma di neutralizzazione preventiva della trasformazione: una rivoluzione di superficie, performativa, estetica, che consente allo spettatore di vivere il brivido della sovversione senza toccare i fondamenti della società spettacolare. Per paradosso l'atto autenticamente rivoluzionario dovrebbe essere quello di non apparire, di sottrarsi all'immagine e, quindi, alla società dello spettacolo. Le foto online di famigliole sorridenti, isolate in un bosco, ma apparentemente soddisfatte, sono invece un altro modo di partecipare allo spettacolo.

Talune aree del cosiddetto dissenso occidentale promuovono come alternativa quei regimi autoritari che rivendicano una retorica (anti-occidentale, anti-imperialista, identitaria), mentre, nei fatti, mantengono rapporti capitalistici di accumulazione, reprimono il dissenso interno, si servono di reti gestite dalla grande criminalità organizzata, adottano tecnologie di sorveglianza quasi sempre più pervasive, producendole in proprio, acquistandole o vendendole all'occidente stesso. È in sostanza la promozione di una pseudo-rivoluzione retorica che funziona come legittimazione spettacolare del potere di quei regimi.

D’altronde i movimenti identitari — sia quelli “progressisti” sia quelli “sovranisti” — si presentano come forze radicali che intendono rovesciare l’ordine dominante. Ma finiscono per incarnare una rivolta prefabbricata, integrata perfettamente nel funzionamento dello spettacolo. Non perché i loro temi siano irrilevanti, ma perché il dispositivo spettacolare è capace di neutralizzare qualsiasi identità collettiva, soprattutto se artificiosa, trasformandola in immagine.

Infatti i movimenti identitari si fondano sulla costruzione di un noi rigido, con tanto di liturgia che non consente deroghe ideologiche, né tantomeno eresie, contrapposto a un loro: una semplificazione simbolica che lo spettacolo trova perfetta, perché è polarizzante, è immediatamente visibile, fruibile, è spendibile commercialmente, e strumentalizzabile politicamente. Il conflitto diventa una lotta per la rappresentazione spettacolare. La battaglia si sposta dal terreno materiale a quello simbolico, e lì rimane, riproducendosi circolarmente in un incessante eterno ritorno. 

[Nell'immagine: “Il falso specchio” René Magritte(1928)]


Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, “L’uomo della sabbia” (1816)

Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, “L’uomo della sabbia” (1816) «Preso dalla curiosità di saperne di più su chi fosse quella creatura e che cos...